Tradizione e innovazione del volontariato: e il volontario? di Fabio Azzaroli

Non credo di scoprire altro che l’acqua calda affermando che il CAI è oggi strutturato secondo due modalità di partecipazione piuttosto diverse tra loro, anche se non certo antitetiche: soci e volontari.

Nell’ambito degli oltre 300.000 soci, nel CAI operano qualche migliaio di persone che quotidianamente rivolgono il loro pensiero, una parte del loro tempo e della loro attività al Sodalizio: sono i volontari. Volontari che si dedicano alla gestione e alla crescita delle proprie Sezioni; volontari che si dedicano alla ricerca scientifica e/o tecnica nelle materie istituzionali; volontari che si dedicano alla gestione degli Organi sociali centrali e periferici; volontari che si impegnano nell’attività didattica; volontari che si dedicano concretamente a tutte le attività che concernono il Sodalizio. Sono quei soci che, materialmente, realizzano nella sostanza e nei fatti l’art. 1 dello Statuto e che rendono reale e vivo il Club Alpino Italiano.

Né scopro altro che l’acqua calda se affermo che oggi il volontariato, anche al di fuori del CAI, è in crisi: non è un mistero per nessuno, basti pensare alle tante parrocchie che sono costrette a rivolgersi ad animatori ed educatori non volontari perché nel proprio seno non riescono a suscitare le energie e gli entusiasmi necessari.

E’ certo che la situazione generalizzata di depressione economica ha svolto e tuttora svolge un effetto frenante sulla disponibilità di tempo e di denaro che il volontariato assorbe da ciascuno che intenda cimentarvisi. Inoltre una certa responsabilità nella crisi del volontariato, soprattutto per quanto riguarda la riduzione delle “vocazioni” che si registra da una quindicina d’anni, credo si possa trovare nella sua regolamentazione attraverso schemi normativi e burocratici che, di fatto, ne hanno trasformato la natura intima. A fronte dell’espansione della pulsione spontanea volta alla ricerca di una propria realizzazione umana attraverso l’aiuto disinteressato al prossimo, registrata nell’ultimo trentennio; a fronte di un’istintiva quanto trasversale riappropriazione da parte del singolo della propria utilità sociale, scevra da intruppamenti ideologici o da altre strumentalizzazioni di vario genere, è sempre più difficile per il volontario trovare all’interno della struttura cui aderisce una collocazione fedelmente aderente al proprio sentire. La presa di coscienza che vi è stata a livello governativo delle formidabili opportunità offerte dal volontariato ha condotto, e sta tuttora conducendo, verso un radicale sovvertimento della sua natura.

Sovvertimento realizzato attraverso l’organizzazione dall’alto mediante schemi, procedure, autorizzazioni, beneplaciti e quant’altro, che mettono di fatto in seria difficoltà l’individuo il quale, talvolta soverchiato da certa burocrazia, talaltra retrivo per istinto ad ogni forma di compressione del proprio ego soprattutto quando esso si esplica nell’ambito di un’attività esercitata per pura generosità e col massimo disinteresse, sempre più spesso fatica ad identificarsi completamente nel servizio svolto. E si stanca.

D’altra parte occorre riflettere sul fatto che l’eccezionale ricchezza di risorse che il volontariato mette a disposizione non può non essere in qualche modo disciplinata: con una saggia regolamentazione si evitano dispersioni di energie preziose, si ottimizza l’efficacia del servizio, si può intervenire in modo più mirato ed efficiente. Tutto questo ovviamente ha, sul piano soggettivo, un costo: un costo difficile da quantificare, da un lato perché non è economico, e da un altro lato perché non è facilmente definibile, almeno secondo schemi generalizzanti, neppure il dato di partenza, e cioè il perché della spinta al servizio gratuito, disinteressato, donato.

E’ evidente che tale punto di partenza è assolutamente soggettivo, consistendo nell’insieme complicato di sentimenti, motivazioni, esperienze, realtà, idee, sogni, speranze di ciascuno. E poiché tutti siamo diversi l’uno dall’altro, il punto di partenza in questione non può che essere l’espressione delle massime eterogeneità e soggettività pensabili. Si tratta però di un costo comunque elevato, perché il più delle volte si sostanzia in una perdita di identificazione tra il volontario ed il proprio servizio, con inevitabili ripercussioni (negative) sulla motivazione. Ed è proprio e solo sulla motivazione che il volontariato può entrare in crisi. Ogni volontario sa bene che ciò che spende di sé nel servizio, il più delle volte non lo spenderebbe con lo stesso entusiasmo, né con gli stessi dedizione e sacrificio, se venisse retribuito, con l’unico scopo della soddisfazione data dall’aver fatto: una soddisfazione che si impernia in qualche modo sull’ego; un ego positivo, generoso, disinteressato, altruista, ma pur sempre un ego. Che entra in crisi quando viene spersonalizzato, frammisto agli altri, polverizzato nei grandi numeri; oppure quando viene mortificato attraverso la sensazione di una scarsa attenzione, soprattutto se all’interno della propria entità di appartenenza. Il problema è che il dimensionamento crescente delle organizzazioni di volontariato postula una regolamentazione sempre più analitica di un qualcosa (il servizio) che il singolo intende “donare”, con la conseguenza che si viene a regolamentare il “dono”, cioè l’atto, tra quelli di liberalità, che per sua stessa natura è il più istintivo e spontaneo, e il più personale quanto alle motivazioni. La pur necessaria regolamentazione di questo “dono” si pone spesso in un contrasto pressoché insanabile con quell’istintività e spontaneità che lo connotano sul piano soggettivo.

Allora occorre trovare un ubi consistam, un punto che riesca a contemperare la necessarietà della disciplina del servizio con la soggettività e la generosità del singolo. Questo credo sia, nella sostanza, il forte e delicato compito dei dirigenti, cioè di coloro che in spirito di servizio sono collocati ai vertici della piramide e, tra le tante responsabilità, hanno anche quella dell’ottimizzazione dell’attività dell’associazione. Un compito forte perché da come esso viene svolto dipende non solo la vita dell’associazione ma, soprattutto, l’efficacia della sua azione verso i soggetti e gli ideali serviti, cioè la sua stessa ragion d’essere. Un compito delicato perché i valori generali, gli scopi, i risultati, i modi di conseguirli, le risorse disponibili, vanno necessariamente coniugati il più possibile con i sentimenti, gli entusiasmi, le generosità, le soggettività di coloro che, operando, servono quei valori e quegli scopi al fine di conseguire, e di far conseguire al Sodalizio, quei risultati attraverso metodi gratificanti.

In questa prospettiva la stabilità del quadro normativo e strutturale di riferimento, quanto meno nelle sue linee fondamentali, riveste particolare importanza: la struttura, la sua disciplina, la regolamentazione dell’appartenenza, fanno parte integrante – soprattutto nel CAI -dell’attività del volontario, al punto che costituiscono una sorta di “casa” dell’azione dello stesso. In altre parole, l’operare secondo certi schemi, con certi riferimenti, con certe modalità, secondo certe procedure, seguendo certe gerarchie, con la consapevolezza di certi ruoli e di certi compiti, produce una sorta di “ambiente operativo” che, vuoi per condivisione convinta, vuoi per abitudine, rappresenta un elemento non secondario della serenità con cui il volontario opera e deve poter operare. In non pochi casi, addirittura, la struttura rappresenta un forte momento di identificazione del volontario, connaturato al suo senso di appartenenza, al suo sentire di essere realmente parte di un qualcosa in cui si riconosce ed in nome del quale dona. Ogni mutamento, quindi, di certe realtà, di certi meccanismi, di certi “ambienti operativi” deve essere realizzato con criteri che riescano efficacemente a coniugare le necessità contingenti con il rispetto (direi quasi la tutela gelosa) del sentire dei volontari.

Sotto questo profilo, le modifiche statutarie e regolamentari che sono state realizzate all’inizio di questo millennio hanno rappresentato una forte rivoluzione, già sufficiente a “spiazzare” molti. Non sono mancati momenti di tensione, poi più o meno rientrati. Ma il fatto che siano rientrati non significa che tante modificazioni siano passate nella compagine sociale senza lasciare traccia alcuna. Soprattutto laddove interi settori vengono ulteriormente riguardati, contro il loro parere esplicitamente manifestato in più occasioni, da nuove ed ancor più devastanti prospettive di modificazione. C’è allora da chiedersi se tutte le nuove ed ulteriori modifiche allo studio rappresentino effettivamente una necessità imprescindibile per evitare al Sodalizio sicure negatività, oppure se di qualcuna di esse si possa fare serenamente a meno, pur di non rischiare di demotivare intere formazioni di volontari, soprattutto tecnici. Oggi, alla vigilia del 100°Congresso Nazionale di Firenze c’è veramente da chiedersi se il volontariato, soprattutto quello del CAI, abbia ancora un futuro.

Non saranno sfuggiti agli addetti ai lavori i sempre più insistiti accenni all’opportunità di una sorta di remunerazione dei volontari, opportunità da taluni prospettata addirittura come ineludibile necessità (così si è sentito proporre in varie sedi, non ultima l’Assemblea dei Delegati di Grado) nell’ottica di una “moderna visione del volontariato”. Fin troppo facile ricordare che la remunerazione dell’attività prestata rappresenta la linea invalicabile di discrimine tra l’attività professionale e l’attività di volontariato (anche definita “dilettantistica”): qui l’aggettivazione “professionale” non indica una maggiore competenza od abilità dell’operatore bensì esprime il fatto che l’attività viene esercitata allo scopo di soddisfare i bisogni propri e della propria famiglia (cioè dietro remunerazione, per mercede); il compenso quindi (sotto qualsiasi forma venga corrisposto in modo che ecceda il semplice rimborso delle spese ovvero un equo indennizzo per altre perdite certe del volontario) rappresenta la linea di discrimine invalicabile che il volontario deve rispettare pena la “invasione di campo” dell’attività professionale.

A questo va aggiunto che per quanto riguarda le attività tecniche del CAI, con esclusione di poche, esse attengono a discipline che, ove remunerate, sono tutte già ampiamente e dettagliatamente regolamentate come professioni con legge dello Stato (Guide Alpine e Accompagnatori di Media Montagna) oppure, in base ad una legge dello Stato, da numerose Leggi Regionali (Guide turistiche, Guide escursionistiche, Guide ambientali, Guide naturalistiche, ecc.). Ciò comporta che quella “invasione di campo” cui accennavo poco sopra, una volta realizzata, costituirebbe anche violazione dell’art. 348 del Codice Penale, che reprime il delitto di esercizio abusivo di una professione. Per realizzare quindi quella possibilità di remunerazione dei volontari da taluno auspicata (ma da molti operatori respinta, fortunatamente) occorrerebbe una modificazione normativa che non appare certamente nelle corde del CAI riuscire ad ottenere; non certo di quel CAI che, suo malgrado, continua a doversi difendere da reiterate accuse di inutilità che il legislatore ciclicamente fa riemergere dal fondo del proprio cappello.

Vi è poi da chiedersi come tale prospettiva di remunerazione possa conciliarsi con quella genuina pulsione al dono da cui il volontariato, anche quello in ambito CAI, è significativamente connotato. Alcuni potrebbero non essere d’accordo su quella ricostruzione che ho tracciato sopra sull’intima natura del volontariato, che ne costituisce l’etica fondante. In un mondo sempre più teso verso la denazionalizzazione e verso la globalizzazione si potrebbe obbiettare, ad esempio, che nei Paesi di matrice anglosassone l’etica del volontariato è molto diversa dalla nostra sostanziandosi prevalentemente in un “dare” piuttosto che in un ”fare”; ovvero, anche laddove consistente in un “fare”, riconoscendo forme di ritorno economico connotate da giustificazioni abbastanza ampie e pragmaticamente razionali. Ed in tale prospettiva auspicando una evoluzione del concetto di volontariato verso tali tipi di figure e di mentalità.

Ebbene, a mio avviso qualsiasi evoluzione e/o sviluppo non può, soprattutto in una materia come questa, prescindere da quello che è il tessuto storico e culturale nel quale il volontariato affonda le proprie radici: un tessuto storico rappresentato da oltre 2000 anni di cultura cattolica che, vuoi direttamente, vuoi indirettamente, hanno fortemente orientato il pensiero, la cultura, la giurisprudenza, la legislazione, le relazioni interpersonali e sociali, il comune sentire di buona parte dell’Europa continentale ed in special modo, per quanto qui interessa, di tutta l’Italia. Le filosofie anglosassoni, in particolare il pensiero benthamiano (secondo il quale ciò che conta è la società, l’insieme, e l’individuo può sempre essere sacrificato in nome del benessere collettivo), sono completamente diverse da quelle continentali e, soprattutto, dalla storia del nostro pensiero, che pone l’individuo al centro di ogni relazione, lo tutela come entità unica e irripetibile, lo onera di doveri di solidarietà stringenti verso il soggetto più sfortunato.

Beninteso, la storia è maestra di vita sia quando insegna a fare bene sia quando, non di rado, mostra esempi che in futuro andranno sicuramente evitati. Il che significa che la nostra tradizione storica non deve costituire un ostacolo insormontabile che impedisca qualsiasi cambiamento, tutt’altro; ma significa anche che ogni cambiamento coinvolgente una collettività di soggetti dovrà comunque confrontarsi con una coscienza comune sedimentata su un modo di pensare stratificatosi per millenni e che pervade tentacolarmente diffuso anche i più piccoli gruppi di volontariato ed i singoli individui. La gratuità, senz’altro di matrice cattolica, dell’atto volontario, per la stragrande maggioranza degli operatori italiani è e rimane un elemento essenziale di quel dono a cui accennavo sopra. Ma il problema della gratuità o meno non esaurisce, ovviamente, le tematiche relative all’innovazione del volontariato, tematiche cui il 100° Congresso appare teso. Quali che siano i profili nei quali si ritiene di poter intervenire, occorre, però ed innanzi tutto, conoscere ciò che si ritiene utile ammodernare laddove obsoleto, modificare laddove errato, rinnovare totalmente laddove inutile o, peggio, addirittura dannoso. Ovviamente non posso parlare per tutte le discipline nelle quali si esplica il volontariato del CAI, non le conosco abbastanza a fondo per cimentarmi in una disamina così ampia. Ne citerò, a titolo di esempio, una sola: la mia storia passata di Accompagnatore Nazionale di Alpinismo Giovanile mi consente di parlare con cognizione di causa di questo settore.

Quando si viene a leggere in atti ufficiali del Sodalizio che tra le priorità emergenti per lo sviluppo dell’attività del CAI nei confronti dei giovani vi sarebbe anche la modificazione della denominazione del relativo Organo tecnico (Commissione Centrale Alpinismo Giovanile) “ove al centro non c’è il giovane bensì l’alpinismo, che pone quindi il giovane, tra l’altro con una aggettivazione obsoleta (?, n.d.r.) come oggetto di una funzione educativa anziché come soggetto in una attività in cui è attore. In alcune Sezioni questo rapporto è già stato rovesciato, ricordo ad esempio i Giovani Alpinisti Mantovani.”; oppure che “Molto in questo settore possiamo desumere dal mondo dello scoutismo, (…). In particolare per quanto riguarda la fascia di età indicata nella relazione previsionale, dai 18 ai 24 anni. E’ infatti questa l’età in cui i ragazzi cercano di rendersi, se non materialmente, almeno psicologicamente autonomi rispetto alla famiglia, e quindi di individuare ruoli in cui affermare la propria personalità e relative responsabilità, passaggio che negli Scout vede gli accompagnati diventare guide ed accompagnatori” (Relazione Morale del Presidente Generale all’Assemblea del Delegati 2015), risulta evidente che non si ha una visione chiara e consapevole di ciò di cui si sta parlando e che si operano delle commistioni sconcertanti tra discipline diverse, suscettibili di ingenerare grande confusione nel lettore. Mi sembra infatti doveroso osservare:

1) che se la maggiore criticità attuale dell’attività svolta dai titolati e dagli operatori dell’Alpinismo Giovanile nei confronti delle nostre migliaia di ragazzi risiede in una denominazione che lessicalmente non pone il giovane al proprio centro, allora si può stare tranquilli: è il Progetto Educativo – documento strategico del CAI approvato fin dagli anni ’80 – che pone concretamente e certamente il giovane al centro dell’attività dell’Alpinismo Giovanile riconoscendolo come il “Protagonista” del Progetto stesso: il che significa, senza entrare in dettagli complessi e qui inutili, che nella sostanza dell’azione dell’AG il Giovane è già al centro di tutto e che tutta l’azione dell’AG ruota intorno al Giovane e si esplica in funzione del Giovane. La definizione Giovani Alpinisti, poi, non rispecchia né lo scopo, né il contenuto, né la sostanza, né l’azione che realizziamo, tutti insieme, i ragazzi, le loro famiglie e noi. Infine: non mi risulta che la Sezione CAI di Mantova svolga attività con Accompagnatori di Alpinismo Giovanile: essa, con il proprio Gruppo Junior, offre ai ragazzi un’attività realizzata da Accompagnatori di Escursionismo e da Istruttori di Alpinismo, e che prevede la partecipazione alle gite di un genitore o comunque di un adulto che abbia la responsabilità del ragazzo; esattamente il contrario di quanto previsto dal Progetto Educativo del CAI e, quindi, si tratta di attività – del tutto meritoria, ovviamente – che comunque non può essere accomunata all’Alpinismo Giovanile. Con l’augurio che l’evoluzione dell’Alpinismo Giovanile non sia nel senso di abbandonare del tutto il Progetto Educativo né quella vocazione pedagogica svolta in sintonia ed in sinergia con le famiglie, che rappresenta l’eredità, accresciuta e sviluppata, di quel fine fortemente voluto da Quintino Sella.

2) Quanto agli insistiti riferimenti allo scoutismo, con tutto il rispetto per quest’ultimo, va detto con chiarezza che la differenza tra il progetto educativo degli Scout e quello del CAI è enorme ed incolmabile; è evidente che potranno svilupparsi contaminazioni reciproche benefiche dato che siamo, loro e noi, portatori di culture diverse ma tese verso lo stesso protagonista (il giovane), e pertanto interlocutori naturali. Ma, come detto, i nostri progetti educativi, soprattutto per quanto attiene al metodo applicativo, sono del tutto differenti; e si tratta – a mio avviso– le differenze che è utile e doveroso salvaguardare allo scopo di mantenere diversificata l’offerta, in modo da poter rispondere meglio alle istanze delle famiglie con un ventaglio di opportunità che ciascun genitore possa meglio calibrare sulla personalità, le aspirazioni e le necessità del proprio figlio.

3) In merito alla fascia di età tra i 18 ed i 24 anni occorre rilevare che siamo al di fuori dell’ambito di applicazione del Progetto Educativo e quindi del campo di azione dell’Alpinismo Giovanile, che è competente ad operare con ragazzi di età compresa tra gli 8 ed i 17 anni compiuti. Vorrei però rilevare un aspetto: sebbene non siano tanti i ragazzi che a 18 anni vogliano mettersi a “fare da babysitter” a dei bambini più piccoli, non è neppure un’esperienza rarissima: a Firenze, ad esempio, negli anni abbiamo avuto vari ragazzi che, una volta varcato il limite della maggiore età, hanno iniziato il percorso formativo il curriculum ed hanno acquisito un titolo nell’Alpinismo Giovanile; altri sono transitati direttamente nella Scuola di Alpinismo, almeno uno ne è diventato Istruttore. E’ giusto che i vertici del CAI si pongano il problema di come fidelizzare i giovani di una fascia di età che registra un numero di adesioni senz’altro migliorabile; trovo però del tutto improprio, perché suscettibile di indurre confusioni ed errori in chi legge, l’accostamento di tale problematica con i compiti attualmente affidati e regolarmente svolti dal settore dell’Alpinismo Giovanile. Se si deciderà di coinvolgere l’AG nel problema si troveranno sicuramente orecchie e cervelli disponibili, ma ad oggi la questione è estranea a tale settore.

C’è poi un altro profilo, che oggi subisce una profonda rivisitazione, in senso più rigoroso e giuridicamente fondato rispetto al passato, ed è quello della responsabilità nell’accompagnamento. Secondo un orientamento frutto di quella matrice culturale cui accennavo sopra, da parte di molti si è ritenuto in passato (ed anche di recente purtroppo) che il fatto che ’operatore (istruttore, accompagnatore, ecc.) sia un volontario, e quindi non percepisca alcun compenso, dovrebbe portare a una valutazione meno rigorosa dei profili di colpa che eventualmente emergessero in caso di incidente; in altre parole, il volontario dovrebbe godere, secondo tale concezione, di una soglia di “scusabilità” più elevata rispetto al professionista. Si tratta di una concezione obsoleta e che la recente evoluzione giurisprudenziale in termini di rivalutazione e sviluppo, in generale, del contenuto del diritto alla salute (tutelato dall’art. 32 Cost.) ha profondamente mutato. Nello specifico settore dell’alpinismo, poi, una recente e precisa sentenza della Cassazione ha fugato ogni dubbio, qualora ve ne fossero stati di residui: la gratuità dell’attività di accompagnamento non elide né riduce, neppure di un milligrammo, il peso del dovere di protezione che l’accompagnatore, accettando la titolarità del rapporto di accompagnamento, assume nei confronti dell’accompagnato. I valori in gioco concernono la vita e l’integrità fisica dell’individuo, cioè valori fondamentali che nella nostra Costituzione sono oggi assoluti, ineliminabili, incomprimibili e sostanzialmente indisponibili anche da parte dello stesso titolare.

L’unico limite è rappresentato dalla soglia di “rischio consentito” che è connaturata alle attività pericolose; rischio consentito che peraltro è bassissimo in caso di allievi di corsi o di accompagnati minorenni affidati dalle famiglie. E se le indagini della Magistratura per un incidente mortale iniziano di ufficio, in caso di lesioni la procedibilità è a querela della persona offesa. Chi si è occupato dei problemi assicurativi del Sodalizio negli ultimi anni ben sa come sia aumentata a dismisura la richiesta di risarcimenti per sinistri lesivi di ridotta entità, ma sa anche come la proposizione della querela sia spessissimo un mezzo adottato dalla vittima per fare pressione sulla Compagnia assicuratrice allo scopo di ottenere un risarcimento più rapido o, addirittura, maggiore di quello dovuto. Ed è il titolare del rapporto di accompagnamento quello che va sotto processo penale. In una situazione del genere ci si aspetterebbe che i titolati del CAI venissero in qualche modo tutelati dalla struttura di appartenenza, o quanto meno che non venissero pubblicamente additati all’opinione pubblica (ed a quella della Magistratura inquirente) come sicuri colpevoli in caso di sinistro.

Ma così non è stato di recente: in occasione di un incidente nel quale ha perso la vita un Istruttore di Alpinismo della Sezione CAI di Oderzo folgorato sulla Marmolada durante un’uscita di corso, e nel quale sono rimasti seriamente feriti anche altri partecipanti, prima ancora che la salma fosse stata (non dico sotterrata, ma neppure) recuperata, il Presidente del Gruppo Regionale interessato, già componente del Comitato Direttivo Centrale, ha ritenuto di emettere un comunicato stampa nel quale, senza alcuna formula dubitativa, anticipando arbitrariamente qualsiasi accertamento giudiziario, si afferma che «Dovrebbe essere nel dna dei soci Cai una maggior attenzione alla sicurezza nell’andare in montagna, di cui gli aspetti delle previsioni del tempo sono una componente elementare e di base. Ancor di più l’attenzione e la specificità della sicurezza devono essere insite nei comportamenti e nelle scelte se il socio Cai diventa “titolato”, e cioè istruttore di alpinismo e sci alpinismo, accompagnatore di escursionismo, accompagnatore di alpinismo giovanile e ancor di più poi se il titolato porta con sé delle persone. Serve estrema attenzione se chi viene accompagnato fa parte di un corso per apprendere come andare in montagna in sicurezza». E continua: «Non è giustificabile il rischio anche se si va a titolo individuale perché poi si mette a repentaglio la sicurezza degli operatori del Soccorso Alpino. La prevenzione è rivolta ai neofiti, ma forse è necessario che tutti ci facciamo un profondo esame di coscienza. Se “predichiamo bene e razzoliamo male” non siamo diversi dagli altri, come qualcuno vorrebbe. I grandi alpinisti Bonatti, Cassin, Messner ci hanno insegnato che bisogna saper rinunciare” (Corriere delle Alpi, 17 giugno 2015). Il che significa, né più né meno, consegnare al Pubblico Ministero il Direttore dell’uscita e gli altri istruttori eventualmente presenti, legati mani e piedi: come potrebbe infatti un Pubblico Ministero rimanere inerte di fronte ad un episodio mortale in cui lo stesso vertice regionale del CAI pretende di additare specifiche, certe, gravi ed inescusabili responsabilità?

Ma a parte l’episodio di sconcertante inopportunità ora riportato, è evidente che la ormai indiscutibile nuova accezione del dovere di protezione connaturato nell’attività di accompagnamento è suscettibile di modificare, soprattutto sul piano psicologico, l’approccio all’attività degli operatori, mettendo in discussione il piacere del servizio in bilanciamento con i rischi che ci si assumono. Questo è un altro profilo suscettibile di portare a delle modificazioni sensibili della compagine di volontariato, in senso riduttivo, e che deve essere tenuto in attenta considerazione nelle scelte che il 100° Congresso dovesse proporre come frutto del proprio lavoro.

Sempre sul fronte del disagio operativo apparentemente crescente in cui sembrano dibattersi oggi i volontari, non si possono sottacere altri episodi di delegittimazione strisciante ma costantemente insistiti che portano ad un allontanamento –che sembra cercato da taluno –tra l’espressione politica e l’espressione tecnica del volontariato del Sodalizio. Mi riferisco ad alcuni episodi, uno datato ed uno recente, che riporto a mero titolo esemplificativo: nel primo episodio un componente del CDC con delega all’Alpinismo Giovanile propose alla Commissione Centrale ed alla Scuola Centrale delle linee di azione che riteneva utile venissero esplorate; quando gli fu dimostrato – carte alla mano –che tali azioni erano già in essere da alcuni anni e che erano maturi ulteriori sviluppi su altri fronti per i quali l’OTC era in procinto di chiedere i relativi finanziamenti, la persona riferì in CDC che l’Alpinismo Giovanile “non era collaborativo”; nel secondo un Vice Presidente Generale afferma alla presenza di un Presidente di OTP  che “i genitori hanno paura” e quindi non ci affidano i loro figli. Posso assicurare a tali persone che a Firenze i genitori ci portano in palmo di mano, si fidano di noi operatori anche oltre il normale, fanno la fila per mandarci i loro figli tanto che non riusciamo ad esaudire tutte le richieste, e dopo averci mandato i figli maggiori ci mandano anche quelli minori appena compiono l’età canonica. E sono strasicuro che Firenze non è un’isola felice ma, molto più semplicemente, soltanto una realtà di Alpinismo Giovanile al pari di tutte le altre che ci sono nel CAI.

E’ invece l’attività di disinformazione costante e di critica ottusa fondata su un abisso di non conoscenza, sistematicamente realizzate da chi vede le discipline tecniche come un peso obsoleto e nocivo per il Sodalizio, quello che è suscettibile di distruggere una volta per tutte il volontariato del CAI continuandosi scientificamente a demotivare ed a delegittimare, anche attraverso l’insulto (perché tale è a contro la realtà, ad un titolato di AG che “i genitori hanno paura”), i volontari tecnici.

Concludo questa riflessione con un ringraziamento per il lettore se avrà avuto la pazienza di arrivare fino a qui, e con un sincero augurio al nostro CAI: che il 100°Congresso si traduca veramente in una fucina di nuove proposte atte a rifidelizzare i titolati, ad espandere la compagine del volontariato soprattutto di quello tecnico, oggi maggiormente in crisi, nel rispetto di quei valori storici e culturali su cui la massa largamente maggioritaria dei volontari si identifica, indicando linee di sviluppo che tengano il sentire dell’individuo nella sua giusta considerazione e realizzino un effettivo rispetto del volontario. E che non rappresenti invece l’occasione per avvicinare la definitiva espulsione dal CAI delle discipline tecniche. Il mio timore personale è che il Congresso rischi, se tali derive distruttive non verranno adeguatamente arginate, di divenire un’occasione mancata, una celebrazione che non produca alcunché di concreto per quelle discipline che sia lo Statuto che la Legge istitutiva pongono al centro dell’essenza del Sodalizio; che i volontari, ormai sempre più pressati dall’interno e sempre più invisi alle categorie professionali all’esterno (soprattutto quelle regionali ma non solo), rimangano abbandonati a se stessi ed ancora una volta vengano traditi nella loro generosa offerta.

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