La Bonatti – Oggioni al Pilastro Rosso del Brouillard di Jacopo Baldi

Qualche anno fa conobbi il nome Walter Bonatti. Un ragazzo che a 18 anni aveva già salito molte delle linee più difficili aperte da Cassin e Ratti, che a 21 anni aprì una via, la sua prima via, sull’allora inviolata parete Est del Grand Capucin. Lo stesso che compì imprese titaniche sul k2 e che dopo 6 giorni di bivacchi estenuanti riuscì a vincere l’impervia parete Sud-Ovest del Petit Dru. Quel Bonatti che si ritirò dall’alpinismo di punta dopo aver segnato una tripletta storica sul Cervino: la prima salita, d’inverno e in solitaria della leggendaria parete Nord.

Era insomma un fuoriclasse.

Son cresciuto in questi anni col mito di Bonatti. L’ho sempre ritenuto un grande, un irraggiungibile, nonché un modello, nel piccolo si intende, da prendere ad esempio.

Eccomi dunque qui, tre anni dopo, incredulo, pronto a partire alla volta della mitica Bonatti-Oggioni al Pilastro Rosso del Brouillard… che dire: sembra un sogno!

La cordata, inutile presentarla, è sempre la solita, di un anno più vecchi o forse più saggi, ma sempre le stesse persone: io, Nicco e l’immancabile Carlino.

La via è stata abbondantemente ripetuta in questi giorni: la minacciosa seraccata del Brouillard è abbastanza chiusa, ma purtroppo sappiamo che ha fatto parecchio caldo negli ultimi giorni… speriamo bene!

L’avvicinamento al rifugio Monzino passa veloce. Il morale è alto e la strada la conosciamo bene. La piramide della Noire dai suoi 3773 m ci osserva silenziosa: sembra una sentinella a guardia del cancello d’accesso. Ci dà il suo consenso e accompagnati dall’impetuoso scroscio di una cascata raggiungiamo il rifugio.

Eccola, l’immancabile fucilata al cuore. Lo sguardo fugge verso l’alto e l’emozione è scontata. La Sud del Bianco, illuminata dalla calda luce del tramonto, ci osserva dall’alto. Quei giganti silenziosi sembrano vegliare su di noi, così pieni di storie, di avventure e purtroppo anche di tragedie. Rimaniamo qualche minuto a contemplarli.

In quella miriade di guglie, seracchi e pilastri andiamo subito a cercar con lo sguardo il nostro, la meta tanto ambita. Eccolo là! In disparte, in un angolino sulla sinistra si innalza il nostro pilastro: quella perfetta guglia di granito rosso che infuocata dalla luce rosacea del tramonto sembra diventare ancora più bella ed elegante.

«La via che porta all’attacco del Pilastro Rosso è tutt’altro che semplice. Questo spiega perché tale itinerario è rimasto fino ad oggi inviolato. […] Dalla capanna Gamba [posta all’incirca nella posizione dell’attuale Rifugio Monzino: n.d.a.] per arrivare ai piedi del Pilastro Rosso occorrono sette ore di cammino.»

Con le parole di Bonatti in mente volgiamo un ultimo sguardo alla strada da percorrere e andiamo a cenare.

Le notizie purtroppo non sono delle migliori: una cordata appena rientrata ci riferisce delle condizioni ormai scarse della neve lungo l’avvicinamento. Le alte temperature e il bel tempo degli ultimi giorni non hanno nemmeno permesso il rigelo notturno della neve.

Qualche dubbio e un po’ di incertezza, poi l’immancabile chiacchierata di consulto col gestore e infine la decisione: andiamo, partenza ore 12.

Un veloce sguardo all’avvicinamento, un ripasso della via e poi tutti sotto i piumoni.

«Il sonno stenta ad arrivare mentre navighiamo dentro i pensieri e le incertezze per l’impresa che ci attende. A mezzanotte lo squillo della piccola sveglia tronca l’attesa.»

Le ore di sonno son state poche, ma il morale è comunque alto. Una rapida quanto intensa colazione e poi ci incamminiamo verso il ghiacciaio del Brouillard al bagliore dalle frontali. Qualche saliscendi, un po’ di nevai e siamo sul ghiacciaio. La situazione sembra tranquilla e quindi procediamo spediti senza legarci.

Il buio regna ancora indisturbato intorno a noi mentre il silenzio ci avvolge. La quota inizia a salire e finalmente le condizioni della neve migliorano. Un lungo traverso un po’ esposto si impossessa del bastoncino di Nicco, poi un breve pianoro ci conduce sotto ai pendii dove sono arroccati i due famosi bivacchi: il Lampugnani e il Crippa.

Il fatidico traverso del ghiacciaio del Brouillard ci attende. Giganteschi obelischi di ghiaccio incombono su di noi. La traccia da seguire sembra un labirinto: ora va a destra, poi a sinistra, aggira un crepaccio, poi piega a destra e torna ancora a sinistra, evita un seracco, procede dritta e poi di nuovo a destra; come un serpente, striscia tra le asperità del ghiacciaio cercando il modo più sicuro per attraversarlo, poi all’improvviso esce allo scoperto per assalire la preda: eccola lì la nostra preda, bellissima e maestosa, quel silenzioso obelisco di granito rosso che veglia sul bacino del Brouillard.

I primi raggi di sole si affacciano dai tetri profili delle vette circostanti e il bacino è inondato da una calda luce rosacea: che spettacolo il pilastro del Brouillard.

«Non avrei mai intrapreso la scalata del Pilastro Rosso sapendo che mi avrebbe riservato tanti problemi. Ma neppure l’avrei tentata se il pilastro non mi fosse apparso tanto attraente e misterioso.» Adesso comprendo a pieno le parole di Bonatti: raggiungere la base del Pilastro richiede sicuramente tanta determinazione e fatica e può essere considerata essa stessa una vera ascensione d’alta quota, ma poter ammirare e salire quell’affascinante obelisco di granito rosso alle prime luci dell’alba è un’emozione che ripaga tutti gli impegni necessari. Lo posso assicurare.

Attacchiamo il pilastro dopo aver superato l’immensa crepaccia terminale. Guido io la cordata, poi Carlino e infine Nicco.

Il tiro chiave si presenta subito davanti a noi ed è Carlino ad affrontarlo: un muro verticale di 30 m solcato da una fessura tanto perfetta quanto infida. Le dita sono ancora infreddolite dall’aria gelida della notte e le gambe soffrono un po’ per il lungo avvicinamento. Sembra impossibile pensare che Bonatti sia riuscito a passare di qui: duriamo fatica noi, equipaggiati con scarpette moderne, friends e corde di ultima generazione, mentre lui disponeva di pesanti scarponi, chiodi di ferro e corde che ricordavano più le cime per le navi che delle corde d’arrampicata. Era veramente un fuoriclasse.

Tra i dubbi e le perplessità continuiamo a salire sbigottiti e increduli.

I tiri si susseguono veloci uno dietro l’altro: fessure, diedri e di nuovo fessure… siamo immersi in un vero deserto di granito. Carlino e Nicco si alternano alla guida, mentre io son costretto a farmi da parte per un fastidioso mal di testa: le poche ore di sonno e l’abbuffata di polenta della sera prima mi sa che non son state un’ottima accoppiata.

La quota continua a salire e adesso la neve ci fa da compagna: le cenge sono bianche e il ghiaccio intasa le fessure. Le dita dei piedi, costrette in quelle minuscole scarpette, soffrono al contatto con la neve. Ci muoviamo delicati cercando di evitare il confronto con quelle gelide superfici ghiacciate, mani e piedi avanzano a rallentatore: sembra di giocare all’allegro chirurgo!

La parete adesso s’impenna diventando sempre più verticale e Nicco conclude magistralmente uno dei tiri più infidi della via: la fessura-diedro è completamente intrisa di ghiaccio e le pareti sono umide e scivolose per la neve. Le protezioni in loco sono inesistenti e la possibilità di proteggersi a friends non è così scontata: maremma che testolina ha quel ragazzo, chapeau!

La nebbia ci coglie all’improvviso portandoci via i dolci raggi di sole. «La tranquillità dura poco […] e rompe l’aria un secco schianto seguito da un tuono cupo»: dalle pareti delle montagne circostanti iniziano a staccarsi gigantesche valanghe. Il canale accanto al pilastro che da ore continuava a scaricare, incrementa la sua portata. Un concerto di sassi, neve e ghiaccio irrompe nella valle: sembra che quella fragile condizione di calma e di pace sia stata annientata e che le montagne si stiano ribellando, fuori controllo, come i bambini all’uscita di scuola dopo lo squillo della campanella. Pensare al rientro che ci aspetta fa venire i brividi.

L’altimetro indica 4210 m e l’orologio segna mezzogiorno passato: a due tiri dalla vetta decidiamo di scendere, la nostra meta si può considerare raggiunta. Allestiamo le doppie e rapidi ci portiamo sul ghiacciaio del Brouillard.

«Le slavine non si contano, tutto rimbalza e rimbomba.»– scrive Bonatti – «Per fortuna in questo tratto siamo al sicuro, ma sgomenta alzare gli occhi alle pareti appena percorse.»

Il silenzio della valle è ormai un solo ricordo: inquietanti boati echeggiano nel bacino del Brouillard e dalle pareti rocciose intorno a noi precipitano senza fine fiumi di neve e di rocce. Scorgiamo in lontananza il lungo il traverso percorso all’andata ormai martoriato da scariche di neve improvvise, causate dal repentino innalzamento della temperatura del manto nevoso. Sembra di vivere la fine di un film di fantascienza, quella scena in cui il mondo sta per collassare su sé stesso e i protagonisti corrono contro il tempo per salvarsi.

Percorriamo a ritroso il lungo attraversamento del ghiacciaio del Brouillard: i ponti di neve sono più solidi del previsto e i giganteschi condomini di ghiaccio rimangono immobili al loro posto. Siamo al pianoro sotto la coppia di bivacchi e davanti a noi ci aspetta il traverso maledetto: che fare, andare o non andare? La risposta non è così scontata e perdiamo alcuni minuti a ragionarne. Io propongo di passare la notte al bivacco e di muoversi durante le ore più fredde della notte, ma Nicco e Carlino optano per scendere adesso.

Un respiro profondo e giù di corsa lungo il traverso: una corsa contro il tempo con un occhio davanti per guardare la strada e uno in alto per controllare eventuali scariche. La prima parte passa incolume, poi le pendenze si addolciscono e decidiamo di riprendere fiato sopra un piccolo balzo roccioso che dovremo affrontare per continuare la discesa. Un sorso di tè e una barretta per rifocillarsi, poi l’urlo di Carlino: “valangaaa!” Alziamo lo sguardo verso l’alto e vediamo una massa di neve prendere velocità contro di noi. Siamo ancora legati l’uno all’altro e la conseguenza è un pericoloso tiro alla fune: Nicco fugge a sinistra, mentre io e Carlino a destra. La corda si tende come la corda di un violino e la neve la investe con prepotenza, ma con le piccozze riusciamo per fortuna ad ancorarci al terreno. Il momento di panico è passato.

Rapidi decidiamo di scendere, ma trascorsi pochi minuti ci sorprende un’altra scarica. Questa volta io vengo colpito ad una spalla, mentre Nicco è travolto completamente. Le corde ci tengono legati l’un l’altro: Carlino rimane esterno alla traiettoria, mentre Nicco fortunatamente riesce ad ancorarsi ad un minuscolo sperone roccioso. Abbassa la testa e aspetta che il peggio passi. Siamo tutti incolumi e questa volta ci buttiamo giù veloci per il balzo roccioso portandoci in una posizione sicura. Continuiamo il nostro percorso mentre il pendio alle nostre spalle continua a scaricare.

Ormai siamo vicini al rifugio, ma consci della situazione pericolosa optiamo per un’alternativa di discesa. Evitiamo così i ripidi pendii nevosi saliti all’andata e descrivendo un ampio semicerchio su rocce marce e detriti arriviamo al pianoro finale. Ancora pochi metri di discesa e arriviamo al Monzino: è fatta.

La dovuta telefonata a casa per comunicare la riuscita dell’impresa e poi non ancora contenti decidiamo di completare la discesa verso valle e di affrontare gli ultimi mille metri di dislivello.

Sono le otto di sera e davanti a noi ci aspetta il furgone di Nicco: dopo 20 ore no-stop si conclude così l’impresa.

Davanti ad una pizza ripensiamo a ciò che abbiamo fatto: in effetti non è una via qualunque, è una via con la “V” maiuscola.

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