Rischio, Sicurezza, Responsabilità, Affidamento

Testo e foto di Neri Baldi.

Andare in montagna vuol dire aver fiato e tecnica, prendere scarponi e materiale, o comporta qualcosa di più?

L’incidente in montagna fa notizia; spesso capita di sentir parlare di “condotta colposa” in un evento o di “rischi sottovalutati” che hanno dato luogo a un incidente. Dopo un avvenimento con conseguenze negative un po’ tutti fanno a gara a dire la loro, in genere con una superficialità e un’approssimazione che possono facilmente condurre a conclusioni errate.

Una premessa è d’obbligo: la montagna è di tutti e ciascuno è libero di affrontarla come crede; ai soci CAI – e a maggior ragione a coloro che svolgono attività sul campo in modo formale, siano essi titolati o no – è però forse chiesto qualcosa di più sotto il profilo culturale, un approccio meditato rispetto a un mondo in cui – lo si voglia o no – non si può fare come ci pare.

Troppo spesso si pensa che un ARTVA indossato o una corda nello zaino siano una sorta di talismano che ci protegga da eventi avversi o – perché no? – che una polizza di assicurazione possa di per sé costituire il toccasana per neutralizzare rischi e responsabilità.

In realtà ciò che serve è una migliore cognizione delle nostre azioni – consapevolezza, per dirlo in una parola –  tanto maggiore quanto più la nostra attività coinvolga persone con minore esperienza.

È stato efficacemente affermato – tanto per fare un esempio – che “se non hai esperienza perdi la testa. La bufera ti butta giù e la morte è la conseguenza. Pensiamo che i vestiti, le scarpe e i GPS che ci sono adesso ci rendano sicuri, ma la montagna è sempre pericolosa.[1]”.

Hai ripassato in modo adeguato le manovre di auto soccorso?

Non è questa la sede per addentrarci in considerazioni giuridiche sulla responsabilità civile e penale (e anche disciplinare, per titolati e qualificati); può però esser utile spendere due parole su qualche concetto forse un po’ trascurato: rischio, sicurezza e affidamento.

Il rischio

Valutiamo sempre in modo adeguato ciò che ci accingiamo a fare? In genere si dice che la montagna non è un ambiente scevro da rischi.

È però più corretto dire che la montagna è pericolosa e l’alpinismo è rischioso: il rischio, infatti, è l’espressione probabilistica dell’esposizione al pericolo.

Per “pericolo” si intende infatti la “proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni”, cioè gli aspetti oggettivi ambientali, laddove “rischio” è la “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione[2]”, cioè l’insieme della possibilità di un evento e delle sue conseguenze sugli obiettivi.

Dunque, rischio e pericolo sono concetti diversi: il pericolo è una proprietà intrinseca di un qualcosa, svincolata da fattori esterni, che ha di per sè la capacità di causare un danno; il rischio è invece la probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un dato fattore o agente, oppure alla loro combinazione. In altre parole, il rischio è la probabilità che accada un evento capace di causare conseguenze negative in presenza di una sorgente di pericolo e della possibilità che essa si trasformi in un danno.

Alpinismo ed escursionismo sono attività potenzialmente pericolose nelle quali un certo margine di rischio è inevitabile ed ineliminabile.

Non è razionale pensare di catalogare a priori ogni ipotetico pregiudizio. Di solito si fa riferimento a una bipartizione fra pericoli di natura oggettiva, tali per chiunque e suscettibili di essere ridotti – ma non eliminati – mediante accorgimenti tecnici, e pericoli derivanti dalla difficoltà dell’itinerario in relazione alla capacità di chi lo affronta. In ogni caso sussiste un legame ineliminabile con l’azione individuale, nel senso che il rischio può discendere da comportamenti non corretti di chi affronta una situazione pericolosa..

La sicurezza

Non si tratta di una scienza esatta; come tale è discutibile e non facilmente verificabile.

Non esiste una sorta di formula della sicurezza che ci renda immune da rischi; la sicurezza la si migliora assimilando la cultura della sicurezza, intesa come forma mentale e comportamenti conseguenti a cui attenersi: le tecniche di sicurezza sono diverse per ciascun settore dell’attività umana; il concetto di sicurezza è però uguale ed uniforme per tutti.

L’uomo di oggi, a differenza dei suoi antenati, ha perduto il bisogno di percepire i pericoli grazie ai sistemi di sicurezza che si è creato intorno a sé, che però in concreto possono generare pericolosi equivoci: non basta leggere il bollettino valanghe per essere sicuri che il pendio regga!

Hai valutato le possibili conseguenze di una tua disattenzione?

Sicurezza non la si fa con la sola conoscenza astratta dei pericoli o con il miglioramento tecnico, occorre la consapevolezza della successione degli eventi. Per evitare un pericolo occorre percepirlo e valutarne il rischio conseguente, adottando comportamenti adeguati per cercare di minimizzarlo.

Purtroppo spesso si compiono azioni senza la consapevolezza di ciò a cui si può andare incontro; se poi la cosa va a buon fine (e sotto un profilo probabilistico quasi sempre va bene), si è portati a ripeterla con la stessa modalità, inconsciamente convinti che sia quella giusta, scoprendo magari un giorno a spese nostre o – peggio – a spese altrui che il comportamento adeguato era un altro.

La consapevolezza concretizza l’ambito delle nostre certezze e la misura delle nostre conoscenze, mettendoci in grado di riconoscere i nostri limiti: non ogni realtà della montagna è accessibile a tutti; c’è però una montagna per ciascuno di noi, da affrontare con consapevolezza.

Si tratta del rispetto della vita, nostra e anche degli altri.

A fronte ad un evento negativo abbiamo il dovere verso gli altri, ma prima ancora verso noi stessi, di assumerci la responsabilità delle conseguenze del rischio che abbiamo scelto di correre. Dobbiamo evitare di scaricare la responsabilità sugli altri o, peggio, attribuirla alla fatalità: quasi sempre un evento negativo è frutto delle nostre azioni e sarebbe deleterio nasconderci dietro la fatalità; sarebbe come affermare di aver agito correttamente, con la conseguenza che la volta successiva ci sentiremo autorizzati a ripetere le stesse azioni, comportanti gli stessi errori.

La responsabilità

Le uscite in montagna – tutte, dall’escursione all’alpinismo – dovrebbero essere un momento di gioia e di condivisione, magari di avventura, in cui ognuno dovrebbe assumersi i rischi derivanti dall’attività praticata.
Siamo però davvero responsabili?
La responsabilità può essere definita come la “possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e corregger lo stesso sulla base di tale previsione[3]”; il concetto presuppone dunque una situazione di libertà, in cui la persona può scegliere quale comportamento tenere.

Di regola, non si ha responsabilità in presenza di un fatto oggettivo il cui accadimento sia del tutto svincolato dalla volontà del soggetto che agisce. Correlativamente si dice che una persona è responsabile se, quando agisce, cerca di prevedere le conseguenze delle sue azioni e correggerle di conseguenza.
In primo luogo la responsabilità è verso noi stessi, è; la base della civile convivenza.
Non dimentichiamolo, anche in montagna si può coadiuvare, ma non ci si sostituisce – mai – alla preparazione e alla responsabilità personale altrui.

Il CAI ci chiede di essere preparati e responsabili. Questo vale non solo per i titolati, ma per tutti i tesserati. Se si fa, si accetta la responsabilità; il che equivale a confrontarsi con noi stessi e con il comportamento altrui.

In secondo luogo si è responsabili verso gli altri quando c’è una norma giuridica che lo prevede, tenendo ben a mente che ci può essere responsabilità sia per un’azione che per un’omissione.

In termini generali si può accennare che sotto il profilo penale – escluse le ipotesi di volontarietà della condotta – siamo chiamati a rispondere del nostro comportamento per negligenza (non fare ciò che si dovrebbe), imprudenza (fare ciò che non si dovrebbe), imperizia (fare ciò che non si sa fare).

Se la regola a cui attenersi non è codificata occorre dimostrare l’imperizia; se la regola c’è basta invece dimostrare che è stata; violare regole tecniche e professionali non è colpa generica ma è colpa specifica e rientra nella violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Un’omissione, quando si ha l’obbligo giuridico di un certo comportamento, equivale poi a cagionare l’evento dannoso che sarebbe stato possibile evitare.

Va anche accennato che per l’assunzione di una posizione di garanzia (obbligo giuridico di evitare l’evento) – contrariamente a quanto si crede – non basta essere tout court il più esperto, è necessario che il soggetto abbia ottenuto, seppur tacitamente, l’incarico di guidare i componenti del gruppo, i quali, trovandosi in una situazione di inesperienza e incapacità rispetto all’attività intrapresa, abbiano deciso di svolgerla proprio in considerazione della presenza di una persona capace al loro fianco, investita di poteri di guida, cura e direzione.

La responsabilità civile può invece derivare dall’inadempimento di un’obbligazione assunta con un contratto (ad esempio, con una guida alpina), oppure essere la conseguenza di un fatto illecito (cioè contrario al diritto e alle regole della civile convivenza) che arrechi ad altri un danno ingiusto.

Le due responsabilità (penale e civile) possono ben coesistere: io sbaglio, non pago alcunché perché magari interviene l’assicurazione (e quindi non ne rispondo economicamente) ma vado in galera. Dunque, con l’assicurazione posso neutralizzare la responsabilità civile, ma non quella penale[4].

La liberatoria per scarico di responsabilità può poi risultare di scarsa efficacia, atteso che “è nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave” (art. 1229 cod. civ.).

Va anche sottolineato che “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno” (art. 2050 cod. civ.). La frequentazione della montagna rientra nel novero delle “attività pericolose” (o almeno non si può ragionevolmente ammettere che ne sia tout court esclusa): si tratta di un principio che è stato espressamente affermato proprio con riferimento a un’escursione alpinistica organizzata del CAI[5].

È questione di non poco conto perché il danneggiato – nell’ipotesi di esercizio di attività pericolose – per ottenere il risarcimento – può limitarsi a dimostrare l’esistenza del fatto storico per lui lesivo; sarà invece chi ha agito a dover dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare l’evento dannoso, andando incontro a complessi problemi in punto di prova.

L’affidamento

Entra in ballo questo punto il concetto di affidamento, inteso come estrinsecazione del concetto “mi fido di”, coerente con il significato letterale del termine: fare affidamento è far conto sull’attenzione, sulla capacità, sulla garanzia fornita da altri, rimettersi alla loro protezione.

Da qui nasce un rapporto bidirezionale, da cui scaturiscono precise responsabilità.

Ovviamente, non si tratta di affidamento se tutti sono in grado di fare allo stesso modo, nel senso che non ci si affida all’esperienza altrui: per gli amici che vanno insieme, con pari preparazione, non scatta la responsabilità. Così non è nel caso in cui uno dei componenti del gruppo abbia più esperienza, competenze, capacità nel condurre l’uscita, tanto che gli altri fanno affidamento su di lui; in questa situazione, in caso di incidente, la giurisprudenza impone al più esperto maggiore responsabilità; spetta però all’infortunato dimostrare la superiorità tecnica del compagno.

Hai valutato le tue capacità tecniche rispetto all’itinerario e la tua preparazione atletica?

In caso di evento dannoso assume particolare rilevanza il comportamento del danneggiato: l’accompagnato è in una situazione di subordinazione e deve comportarsi in modo diligente seguendo le indicazioni del più esperto; qualora non ponga adeguata diligenza viene meno, o comunque si riduce, la responsabilità dell’accompagnatore.

Al potere di direzione corrisponde il dovere di subordinazione: chi meno ne sa è soggetto al potere di supremazia del più esperto che deve opportunamente imporsi, se no meglio tornare indietro.

Se invece non c’è affidamento da parte del compagno di gita o scalata, siamo in presenza solo di un aiuto reciproco volto alla diminuzione dei pericoli, senza alcun vincolo giuridicamente rilevante.

In altre parole, a tacer d’altro, occorre far riferimento al divario delle capacità tra i due soggetti: tanto più è alto, tanto maggiore è la responsabilità dell’accompagnatore che sarà chiamato a rispondere per le cause dell’incidente quali imprudenza, imperizia, negligenza nella valutazione delle difficoltà tecniche dell’itinerario in relazione alle capacità tecniche dei compagni, il terreno, le condizioni metereologiche e quant’altro.

Tuttavia, perché scatti la responsabilità serve il consenso: l’accompagnatore (capo gita, capo cordata o che altro) può esser chiamato a rispondere del suo operato solo se ha accettato di porsi in posizione di supremazia nei confronti di chi possa aver subito un danno.

Conclusioni

E dunque?
Non c’è differenza di approccio mentale (e conseguenze giuridiche) fra escursionismo e alpinismo: si deve sempre e comunque essere in grado di fare ciò che si fa.

Chi accetta di unirsi ad una o più persone per offrire loro collaborazione e protezione in misura corrispondente alle sue capacità e conoscenze, certificate o no, al fine di consentire o favorire lo svolgimento dell’escursionismo o dell’alpinismo, a piedi o sugli sci, si assume la responsabilità giuridica di ciò che fa … e sarebbe auspicabile che sia responsabile per davvero.

Dunque: valutate bene voi stessi e le vostre capacità; valutate bene le uscite di gruppo, soprattutto se non conoscere bene i partecipanti: la montagna è un luogo tanto meraviglioso quanto insidioso, attenzione a dove andate e con chi siete … e non abbiate mai paura di avere il coraggio di tornare indietro!


[1] Reinhold Messner, La Stampa, 1 Maggio 2018.

[2] Così prevede il d.lgs  81/2008 (normativa in tema di “Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”).

[3] la definizione è di Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1971.

[4] il Pubblico Ministero, qualora ritenga di aver raccolto durante le indagini preliminari elementi idonei a sostenere l’accusa, deve necessariamente esercitare l’azione penale in conformità a quanto previsto dall’art. 112 Cost..

[5] sentenza della Corte di cassazione n. 12900 del  24 luglio 2012.

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