di Neri Baldi
Dopo esser stato coinvolto ancora una volta nella redazione dell’Annuario m’era venuto in mente di scrivere qualcosa sulla consapevolezza dell’andare in montagna e sulla preparazione, fisica ed organizzativa, che occorrerebbe sempre avere per la frequentazione delle terre alte, quali che esse siano, dalle praterie di alta quota e le malghe, alle vie di ghiaccio e lo sci ripido … sempre montagna è, seppur con caratteristiche diverse: quante volte ci trova a dover fare i conti con condizioni meteo sottovalutate o con materiali inadeguati (se non addirittura non omologati o scaduti…)? Troppo spesso ci si sette dire “ho sempre fatto così ed è sempre andato bene”, oppure “ma non ci dovevate pensare voi” (voi chi?).
Sono argomenti che non piacciono, sono scomodi da sentire, antipatici da trattare.
C’ho riflettuto e sono giunto alla conclusione che probabilmente il CAI di oggi è diventato qualcosa di diverso da quello che avevo io in mente quando tantissimi anni fa presi la tessera con l’uccellone.
Forse è solo l’inevitabile evoluzione di un mondo diacronico, ma me pare che certi valori siano stati messi sullo sfondo, diafani e sfocati: oggi serve essere in vista, apparire, fare numero e budget. Intendiamoci, niente in contrario, solo che se si pensa che il successo di un’escursione sia dato dal numero dei partecipanti, purché tali siano, poco senso ha parlare su un organo istituzionale – quale è l’annuario – del corretto approccio al mondo della montagna.
Probabilmente sbaglio, ma me pare che il CAI stia scivolando verso il mondo degli organizzatori di viaggi ed eventi, un ibrido fra un’agenzia turistica e un ente assistenziale fine a se stesso. Probabilmente va bene così e non recrimino nulla, ma la camicia mi sta stretta.
E allora parliamo d’altro!
Ho avuto la fortuna di aver girato un po’ per tutta l’Europa e rimettendo a posto le immagini del mio archivio mi sono accorto che un ospite abituale delle terre alte (ma anche di altri territori difficili da vivere, ancorché in pianura se non addirittura sul mare) sono le chiese: chiese di legno, di pietra e laterizio o dei materiali più disparati, che io vedo oggi non come simboli religiosi fini a se stessi ma come presidio dell’uomo in un ambiente in cui la natura la faceva – e magari ancora la fa – da padrona; un punto di riferimento attorno al quale sono sorti insediamenti più o meno estesi, anche di defunti, alcuni oggi abbandonati, altri diventati attrazioni turistiche, ma tutti realizzati con quello che l’ambiente poteva offrire, lì e a costo zero. Un tetto sotto cui ripararsi, un elemento agglutinante, un punto di civiltà per sentirsi un po’ meno insignificanti in un mondo in cui siamo – ricordiamolo sempre – ospiti, non padroni.
Penso ad esempio alle chiese di legno della Piccola Polonia e dei Carpazi che al di là dei materiali impiegati e della tipologia costruttiva a me paiono le cugine degli omologhi edifici costruiti nel deserto spagnolo piuttosto che in quota al limite della vegetazione, se non su una scogliera a picco sul mare: un punto di ritrovo e socializzazione in un contesto in cui fare l’eremita era forse più una necessità che una scelta di vita e magari l’andare a una funzione religiosa era una delle poche occasioni di socializzazione possibili. Singolare è il loro destino: a volte dimenticate dagli stessi indigeni, rivolti vero altre attrattive, a volte divenute addirittura siti UNESCO e celebrate in pompa magna; così è nella dinamica dell’evoluzione delle cose… ma scoprire, lì e con gli occhi, una chiesa dà un’altra sensazione che ricercarne notizie sul web.
Altre volte queste realtà puntiformi sono diventati insediamenti monastici di rilievo (valga per tutti l’esempio delle Meteore), non tanto per la propensione di restare in solitudine collettiva a contatto con Dio e la natura, quanto per la protezione che il luogo poteva di per sé offrire in un periodo in cui in caso di qualche guaio non c’era certo il 113 da chiamare!
Detto in altre parole, a me spesso le chiese di cui stiamo parlando pare che dicano “ci siamo anche noi”, piccoli uomini che pensiamo di essere padroni della Terra, invece che ospiti di un pianeta consegnatoci in prestito dai nostri pronipoti.
Se ne incontrate una, vi do un suggerimento in un orecchio: fermatevi un attimo ad ammirarla, buttate via una manciata di minuti; riflettete sulla pochezza dei materiali impiegati e sulla maestria occorsa per l’edificazione rispetto alle capacità tecniche disponibili: pensate, la chiesa di Dębno è più vecchia di Palazzo Pitti, tutta di legno e senza un chiodo, magnificamente affrescata … e all’epoca là non c’erano i Medici!