“Dodici ore nel ventre del Corchia” di Marina Todisco

Gennaio 2010
Piove ancora, sono ormai quattro giorni che il tempo è inclemente qui a Firenze, e per il fine settimana non si prospetta meglio. D’altronde è novembre, e per come è andata fino ad ora, ci possiamo ritenere fortunati, il clima è stato mite e ci ha permesso di godere di ogni giorno passato in montagna.
Rispondo mollemente al telefono, è Sergio, il mio compagno di cordata. La nostra amicizia è nata al corso di roccia, siamo andati subito d’accordo anche in merito alle questioni alpinistiche, così è da allora che non perdiamo occasione per arrampicare insieme. La conversazione è un po’ lenta, fuori sembra notte malgrado siano le undici del mattino, e la decisione su cosa fare durante il weekend sembra ovvia, con questo clima non si può arrampicare. La giornata passa rapida, e quando alzo lo sguardo alla finestra, fuori è già buio, questa volta davvero. Il telefono mi riporta alla realtà: ‘ Ciao Marina, novità rispetto a prima! Ci sarebbe la possibilità di andare in grotta domenica, un’uscita semplice, che ne pensi?’. Sento l’entusiasmo nella sua voce, forse vede salvo il weekend perchè, in alternativa, con la parola grotta, io, non immagino molto, e tantomeno riesco ad elettrizzarmi. Ricordo di essere stata da bambina nelle grotte di Castellana, faceva freddo lì sotto in pieno agosto. Il driver della mia decisione è banale: sotto terra non piove, allora si può fare. L’appuntamento è confermato per un’orario oltremodo presto stile uscita su ghiaccio, che mi mette un po’ in ansia. Mando subito un’email a Jerry, uno degli esperti del CAI che organizzano l’uscita, con alcune domande, che affiorano come un iceberg di dubbi fra il conscio e l’inconscio delle mie sinapsi. Di tutta risposta ricevo sinteticamente il consiglio di portare una tuta da meccanico, 3 pile stilo o una frontale, cibo e acqua per 8-10 ore, perchè il resto lo portano gli istruttori. Mi viene confermato che la traversata del Corchia non ha difficoltà tecniche oggettive, essendo un’uscita tipica del primo corso di speleologia. Ritorno a capofitto nel lavoro, piove ancora.
Sabato lo dedico ad una nuotata in piscina, non sarà mai più umido che fuori all’aperto, ed è bracciata dopo bracciata che comincio a pensare con più attenzione  all’indomani. Un sacco di domande si liberano nella mia mente, ed in questo mezzo liquido in cui mi trovo, le vedo diluirsi come il ghiaccio disciolto dallo stesso iceberg di prima che ora va alla deriva verso il tropico. Non riesco ad isolare nessun concetto dubbio in modo particolare, tutto si muove fluido, mutevole, incerto, e rimango con una sensazione di inquietudine.
L’impegno di fare lo zaino mi dona una mezzora di consapevolezza; so di certo cosa mettere nello zaino, ce lo hanno detto un sacco di volte Piero, Aldo, tutti, dopo il corso di escursionismo e di alpinismo si sa bene: doppi guanti, cappello e occhiali da sole di scorta, oltre alla frontale e al telo termico, da dimenticare sul fondo dello stesso. Magari sorvolerò sugli occhiali da sole, vista l’occasione, ma il resto lo metto dentro senza indugi. Mi sento molto fiera di comprimerci anche la mia tuta da lavoro, arancione come un’aragosta e bella imbottita, la stessa che ho usato quando lavoravo in piattaforma nei mari del nord; c’è anche il mio nome ricamato sul petto, oltre alle varie macchie di fango ad olio utilizzato per la perforazione dei pozzi petroliferi, mai sparite nemmeno dopo i lavaggi a cento gradi degli operatori di lavanderia, a dimostrazione che ho davvero lavorato lassù. Chiudo tutte le cerniere, nessun ripensamento. La serata austera da alpinista non mi spaventa, vado a letto presto, vista la levataccia infame che mi aspetta, ma non riesco a prendere sonno, quasi fossi su, a capanna Margherita. Mi addormento con un’eco vaga nella mente..grotta, grotta.
La domenica mattina all’appuntamento leggo nelle facce di molti la mia sensazione di sonno, siamo parecchi, ma non tutti, gli altri li incontremo al sentiero di accesso. Dopo aver brevemente discusso con Sergio, vince lui la solita battaglia per chi prende la macchina, a quest’ora non riesco proprio ad insistere; spostiamo gli zaini e prendo posto con gli altri sulla vettura. Il sonno mi accoglie come in un nirvana, ma vengo subitaneamente svegliata da un rumore strano: abbiamo forato. Usciamo tutti e sembriamo il team della Ferrari, Sergio lavora e gli altri guardano; in pochi minuti, comunque, siamo di nuovo su strada. Si decide per un più sicuro cambio auto, e Doc, il medico del gruppo, ci guiderà fino a Levigliani. Sarà il freddo, e l’appressarsi dell’evento, non ho più sonno, non posso non pensare a questo bell’inizio.
Eccoci tutti qui, in totale siamo diciassette, un numero che suscita sempre perplessità fra noi italiani. Gli esperti e gli istruttori si scambiano battute con altri gruppi di speleologi, su come avessero guadato e fatto la doccia il giorno precedente in un’altra grotta, sul fatto che armeranno, ovvero attrezzeranno, per noi neofiti la traversata dell’Antro del Corchia, nelle amate Apuane, entrando dalla buca di Eolo per uscire dalla buca del Serpente dopo circa cinquecento metri di dislivello a scendere e una trentina a salire, e dove si contano ben quattordici verticali da un minimo di un paio di metri fino ai ben cinquanta metri del Pozzacchione. L’atmosfera è tranquilla, quasi pigra, non sapendo proprio cosa fare, sono rimasta lì a osservare flemmaticamente intorno a me ed è proprio mentre faccio queste riflessioni, che vengo finalmente istruita sul prossimo passo, che dà un’accelerata, si fa per dire, alle operazioni: la vestizione.
Ho sentito dire che la vestizione è un rito per gli speleologi, e mi rendo conto della ragione. Prima di tutto c’è la famosa tuta da mettere, è intera, e bisogna decidere cosa tenere sotto. E’ bandito il cotone, ammonisce Giovanni, meglio indumenti acrilici traspiranti, e abbastanza caldi, un pile almeno, poi i pantaloni, per chi ha freddo. Ho visto anche tute intere da SuperPippo appese ad asciugare sui portelloni aperti delle auto, a testimonianza della grotta bagnata raccontata del giorno prima. Ricordano molto gli indumenti intimi in lana dei nostri bisnonni, ma molto più colorati, sì, perchè anche la lana va bene. Anch’io sono alle prese con questi dettagli essenziali, e appena allacciata per intero la mia tuta arancione, mi ricordo che sarà meglio fare l’ultimo pit stop, e, tanto per velocizzare le attività, ora che cerco un luogo adatto e mi svesto e rivesto, ho già perso dieci minuti, ma questo, stranamente, non sembra importare a nessuno. Si prosegue la vestizione con calma, ora è la volta dell’imbrago speleo, due cosciali, e una fascia che cinge i lombi, collegabili solo nella parte anteriore attraverso una maglia rapida a C, veramente robusta, il maillon, l’ho sentito chiamare, forse dal francese maillon rapide. Dicono che l’imbrago speleo è il più scomodo noto in tutta la storia, in particolare per i maschietti; infatti ho potuto raccogliere molte conferme di maltrattamenti indesiderati. Al maillon si agganciano varie cose prima di usarlo per chiudere l’imbrago intorno alle anche, la più importante è il discensore speleo, attraverso cui passerà la corda in tutte le occasioni in cui si dovranno fare delle calate per perdere quota, un moschettone per il rallentamento della calata in ausilio al discensore, un cordino con due moschettoni, tipo il nostro kit da ferrata semplificato, avendo anche un altro uso, infine, il croll un freno monodirezionale usato per la salita, che viene tenuto in posizione da una fascetta. Mi ricordo che la mia era blu e nella fattispece serve per l’impacchettamento finale, infatti passa incrociata all’imbrago per poi aderire sulle spalle e cingersi nella parte anteriore sul croll, come a chiudere un pacco regalo di compleanno. Attraverso i cosciali passa anche il cordino di servizio con il moschettone di servizio, che pende dunque sotto l’imbrago e a cui si aggancia lo zaino per passare in anfratti non abbastanza larghi per indossarlo sulle spalle. Perchè ci saranno anche pertugi così stretti?
La mia vestizione è usata come esempio per tutti gli altri neofiti, e sono la prima ad essere ben impacchettata in questa maniera. Vengo dunque dotata delle ultime cose. La maniglia con il suo cordino per il pedale, mi spiega Sandro, accessorio per risalire la corda, poi, il casco con già montata la lampada elettrica. Intuisco nella parte posteriore l’alloggiamento per le pile stilo e le inserisco, stando attenta alla direzione più e meno degli anodi e dei catodi, la provo pure per sicurezza, non si sa mai, e poi, vedo un erogatore. E’ il fornello o bruciatore, mi viene spiegato, cuore della lampada ad acetilene.
Acetilene, questo è il primo miracolo della giornata. Il fornello distribuisce localmente il gas infiammabile usato per fare una fiammella che ci accompagnerà durante tutta la permanenza in grotta, insieme ad un odore caratteristico. L’acetilene viene creato grazie alla reazione chimica fra acqua e carburo di calcio in una bottiglia di plastica nera che si porta appesa all’imbrago. Fra le altre cose sprigiona anche calore, che a volte è piacevole laggiù. Riempio la mia bottiglia nel setto inferiore con i sassi di carburo, perchè questo minerale mi si presenta in fase solida, e nella parte superiore rabbocco con acqua, agito bene il cocktail e apro la valvola del gas che è collegata ad un tubo che si immette nel mio erogatore sul casco. Creo la scintilla attraverso lo sfregamento di pietre focaie alloggiate su una leva dell’erogatore e miracolosamente la mia fiammella nasce e si espande fino a diventare vigorosa e biforcuta, attirando le peggiori illazioni sul mio matrimonio. Poco dopo la fiamma si stabilizza e penso di essere pronta, invece no.
Ultimo tocco di varietà rispetto all’alpinismo è lo zaino. Vengo tranquillamente informata che il mio zaino si strapperebbe tutto, meglio usarne uno da dotazione speleo. Si tratta di un sacco giallo tubolare in plastica semirigida spessa poche decine di millimetri, sembra assolutamente impermeabile, sicuramente è spartano, con i soli due spallacci non imbottiti in cordura e un lacciuolo a chiudere. Perplessa ci butto dentro solo il termos, il telo termico, la mia frontale, le albicocche disidratate, utili contro gli accecamenti da ghiacciaio, so cosa state pensando, e il cioccolato, tanto cioccolato; penso che ne avrò bisogno. Ora sono davvero pronta. La vestizione di tutti dura un tempo infinito per me abituata ai tempi concitati dell’arrampicata, ma l’attesa caratterizzerà la mia giornata comunque.
Si fanno dei turni di attesa per ricevere il passaggio in macchina, perchè nessuno è disposto a fare i trentacinque minuti di camminata per arrivare all’imbocco. Non posso biasimarli, anche io mi metto diligentemente in fila, perchè con tutta questa roba addosso, inclusa la tuta imbottita, i miei movimenti sono rallentati, o forse è semplicemente la situazione che mi rallenta? Al contrario della fretta con cui si attacca una via di alpinismo per sfruttare bene la giornata, qui pare non interessare a nessuno che fra poco verrà buio. Siamo pur sempre a novembre.
Andrea ha il fuoristrada e sa di dover dare il passaggio a tutti. Certo è che, quando uno speleologo compra il fuoristrada, è votato a questo sacrificio. In pochi tornanti ripidi, ghiaiosi di strada bianca, sapientemente e rapidamente condotti, il fuoristrada arriva a destinazione. Ecco che ci si materializza di fronte l’attacco della via, lo chiamo così per cercare di rimanere ancora per poco legata alle mie certezze di alpinista, ma questo è senza dubbio, l’ingresso della grotta. Per entrare, devo togliere lo zaino e lanciarlo nel buco buio che ho di fronte a me, poi mi piego, mi siedo, e i miei piedi, le mie gambe, il mio corpo a poco a poco spariscono alla vista, sono circondata dalla roccia, ho solo le braccia e la testa fuori. Bene, immetto aria nei polmoni, cerco il sole con lo sguardo, non lo trovo in questa bruma umida giornata, non importa, trattengo il respiro, ed entro…è mezzogiorno. Solo 4 ore di luce rimangono qui fuori.
Ci metto poco ad abituarmi alla luminosità ridotta dopo essere sbucata in un ambiente piuttosto grande che si dirama a sinistra in un largo e lungo corridoio dove mi dirigo vedendo gli altri. E’ un’immagine barocca, la penombra dell’ambiente in cui si distinguono bene solo le fiammelle delle lampade ad acetilene, perpetuamente in movimento dovuto alla pressione della reazione chimica all’interno della bombolina, fiaccole che avanzano con vita propria in un’ordinata fila. Poi si fermano, ecco c’è una raccolta d’acqua, sembra molto limpida. Mi spiegano che nelle grotte l’acqua non è esattamente potabile, infatti, malgrado sia molto filtrata nello scorrere sulla roccia, è estremamente alta la concentrazione di carbonati, e comunque, nel Corchia, l’acqua non è nemmeno ben filtrata, essendo la grotta non lontana dalla superficie esterna. Mentre gli ultimi arrivati ricevono la stessa spiegazione, e visto che siamo impazienti all’attesa, con Tiziana e Andrea ci allontaniamo proseguendo nella direzione di marcia. Questo corridoio è enorme, le pareti saranno alte dieci metri, e senti che silenzio, si intuisce un tenue mormorio di acqua che filtra. Abbiamo perso gli altri.
Il dramma dura poco. Ecco che in breve, ritornando velocemente sui nostri passi, ci riuniamo al gruppo che si sta parcamente dirigendo nel ramo alla destra dell’accesso, verso un’area che si raggiunge scendendo su roccia calcarea bianchissima. Ovviamente la roccia è bagnata, ed oltre a sembrare viscida, è decisamente scivolosa. La disarrampicata, con passaggi di primo e secondo grado e che prevede inoltre di spingere lo zaino davanti a sé, mi mette alla prova psicologicamente; infatti il dubbio su come uscire da qui nel caso mi facessi male, mi si prospetta in tutto il suo svantaggio. Luciano scherza su ipotetiche transazioni economiche che potrebbe fare con i miei parenti per lasciarmi qui. Si arriva ad un tratto armato con corde fisse. Usiamo il cordino con i due moschettoni come fossimo su una ferrata dopo un temporale, visto che tutto intorno a noi è così bagnato e sdrucciolevole, raggiungendo infine un lungo corridoio che all’apparire mi piace. E’ come un canyon scavato dall’acqua, ci si può camminare al centro, sormontando le cenge contrapposte fra le quali l’acqua, che ancora traspira dalla roccia, ha scavato una piccola fessura. I miei pensieri rivolti alla bellezza di questo paesaggio irreale sono man mano indirizzati a concentrarmi sui vari passi per procedere. La piccola fenditura si fa via via più grande, e queste due cenge su cui cammino, sempre più irregolari, sia nella dimensione che va riducendosi, sia nell’inclinazione che aumenta, mi impediscono di poter camminare tranquillamente come prima. Cosa fare? Mi fermo di fronte all’apertura ormai enorme, come un camino diedro in orizzontale. L’acqua cola silenziosamente sulle pareti. Gli esperti istruttori sono già avanti, gli altri, ancora dietro, forse ad ammirare il canyon. La fiammella della lampada mi si spegne. Tento di riaccenderla, sento lo scatto della leva a molla su cui è montata la pietra focaia. Niente. Il buio è indescrivibile, nauseante come la nebbia sul ghiacciaio. Ci riprovo un paio di volte e finalmente una fioca luce. Come risvegliandosi con la luce, il mio corpo diligentemente riceve un’istruzione inconscia e, senza ragionare, inizio a procedere lungo il canyon con il metodo della sostituzione. Eccomi lì, gambe in spaccata, poi una mano sostenuta dal braccio sostituisce uno dei piedi, faccio un paio di passi sulla parete opposta, rispacco e così via. Eccomi qui. Ho raggiunto rapidamente l’avanguardia. Si fa una sosta, attendiamo tutti. Sono già le due e mezzo del pomeriggio.
Mi spiegano che da ora in poi ci aspetta la traversata, di una decina di ore visto che siamo parecchi, ovvero si comincia a scendere sul serio. Sarà dopo una mezzora che si riparte, ma forse è passato più tempo?
A questo punto le calate si susseguono alle pause di attesa in altrettante sale e pozzi in cui il tempo e lo spazio sono concetti che non si misurano nell’infinita semioscurità. I racconti di Andrea, l’istruttore che ormai seguo da non so quante ore, mi rapiscono durante tutto il tempo in cui si aspettano le corde dall’alto per poter armare i tratti successivi. Faccio molte domande, sono argomenti nuovi e affascinanti, e ricevo esaurienti risposte.
Arriviamo al mitico Pozzacchione in cui scendiamo per ben cinquanta metri, dove, dopo circa venticinque metri, per evitare che la corda si logori sfregando sulla roccia, si fa un frazionamento. Lo stesso sarebbe molto utile anche in caso di risalita, ma noi non rifaremo lo stesso percorso al ritorno, ci prepariamo dunque a disarmare.
Per gli alpinisti, il frazionamento è assimilabile ad una sosta fra due doppie, dove, però, la calata, che in grotta si fa con il discensore speleo, usa una sola corda di cui un capo è legato con un otto ripassato negli anelli della sosta. L’ultimo scende sulla corda passata direttamente sugli anelli; scende sempre su corda singola, ma un compagno alla base blocca il tratto di corda libera con gli autobloccanti. In alternativa, l’ultimo può scendere con un discensore alpinistico per le corde doppie.
Calarsi è estremamente divertente. Penso possa essere un’esperienza piacevole anche per chi ha paura del vuoto, e teme le doppie. Di fatto ci si cala fra chiaroscuri di luce e coni d’ombra che fanno perdere la sensibilità dell’altezza. Bisogna comunque conoscere le norme di sicurezza per fermarsi in caso di necessità, bloccando la corde tramite la chiave, ovvero una serie di mirati avvogimenti attorno al discensore speleo che sono l’unica garanzia di fermata e bloccaggio. Considerato che non esiste nulla di paragonabile al nostro Machard, se, mentre scendi, molli la corda che stai frenando con la mano, allora sì, che provi l’ebbrezza della caduta libera.
Degne di nota sono la calata appoggiata sullo scivolo di cinquanta metri che si trova a seguire, dove l’acqua continua a lavorare creando un canale di calcare chiaro su cui sarebbe bello sedersi e sguciare a velocità vertiginosa, e la calata infinita completamente nel vuoto che porta in un’enorme sala con un laghetto, che qualcuno premurosamente, complice la semioscurità, addiziona dei propri sali minerali, e dove facciamo l’ennesima pausa. Rienergizziamo la nostra lampada sostituendo la ormai esaurita polvere di carburo con i sassi che abbiamo trasportato in contenitori impermeabili nello zaino. Non so perchè ancora chiedo l’ora, ma sono già, o solamente, le otto di sera.
Un’ultima brevissima calata attraverso un pozzo, ci apre l’accesso alle passerelle delle grotte turistiche. Raggiungo la passerella con un traverso sulla cengia scivolosa sotto cui continua il pozzo, e qui, si accendono le luci sulla sala, il miracolo dei sensori di prossimità. Bianchissime sfavillanti stalagmiti, stalattiti, colonne, e poi pareti con sporgenze di forme tra le più varie, vediamo anche la statua della libertà, una civetta, una tigre, guarda, il prato innevato del presepe con i pastori e le caprette. Continuo con Filippo e Sergio a camminare sulla passerella del giro turistico, si aprono altre sale luminose e, ogni volta che passiamo davanti ad un sensore, si accende una luce che illumina un’area meravigliosa di cui, nella penombra, non immaginavamo l’esistenza. Camminiamo in discesa per buoni venti minuti, negli occhi lo stupore dei bambini, poi, decisamente di corsa torniamo indietro, il rumore del metallo delle passerelle sotto i colpi delle nostre scarpe. Sandro prende in carico l’avanguardia del gruppo e ci dirigiamo verso  sinistra seguendo sempre le passerelle. Sergio è avanti, e ci ritroviamo a correre nuovamente in salita fino al cancello di ingresso della grotta turistica, ovvero l’uscita. Sprangato.
Ho un fiatone pazzesco, prendo respiro mentre alla chetichella arrivano gli altri e Sandro ci spiega che ora, per uscire, dovremo risalire la corda che loro hanno preventivamente armato dall’alto al mattino, lungo una parete di circa trenta metri, usando la maniglia con il pedale ed il croll. Di fronte alla parete, questa volta estremamente bagnata e contro tutti i miei principi, rinuncio ad arrampicare, malgrado sembri un 5c al massimo.
Sono la prima a seguire Sandro, fra un francesismo e un altro, perchè all’inizio, non essendo la corda tesa, nemmeno il nostro noto sistema di machard coi cordini per risalire la corda sarebbe efficiente. Sei in piedi, la maniglia sale solo se pieghi la gamba sul pedale. Avendo la parete di fronte, il ginocchio non ha scampo e viene in collisione con la parete, fino a che non entra in azione il croll in vita che ti permette di rimanere appeso come ad una sosta e di usare l’altra gamba per mantenere una sana distanza per piegare il ginocchio. Insomma, qualcuno infine, tira la corda dal basso e la manovra è decisamente facilitata.
Salgo in cima come un vermicello fra piegamenti e distensioni e raggiungo un corridoio stretto e inclinato, noto come Serpente perchè sono varie le contorsioni da farsi, sempre spingendosi lo zaino avanti, per raggiungere uno stretto buco da cui si esce. Mi muovo serpeggiando sinuosamente, dimenticando che c’è acqua che cola copiosa dalle pareti che irrimediabilmente mi tangono da presso, bagnando la mia tuta. Sento aria che mi soffia sul viso, ma spesso si ha questa percezione in grotta. Arrivo ad un buco stretto, che mi impedisce la vista oltre, lancio lo zaino in avanti, mi abbasso e striscio attraverso il vero Serpente, è il buco di uscita, la mia testa è ora fuori.
Rimango lì sdraiata non so quanto, con le mani sotto il mento, mezzo corpo fuori, mezzo corpo ancora nella grotta, quasi mi dispiace lasciare l’antro del Corchia. L’aria insolitamente tiepida di questa notte novembrina mi avvolge. E’ mezzanotte, è buio, ma nessuno sembra essere preoccupato.

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