“Il doping nell’alpinismo” di Roberto Masoni

Annuario 2010
Sfogliando la Rivista dello scorso febbraio, francamente non avevo fatto caso all’articolo di DallaPorta Xidias intitolato “Il doping nell’alpinismo”. L’ho fatto solo quando ho cominciato a ricevere alcune mail che ne contestavano apertamente il contenuto e delle quali ne pubblichiamo due, quelle che mi sono parse più significative. E come giustamente hanno sottolineato gli Autori delle mail, credo che questo contributo di Dalla Porta meriti qualche considerazione e qualche approfondimento su due aspetti concreti dei quali vale la pena discutere: quello storico e quello etico. Vediamo perché.

Roberto Masoni

Una faccenda da chiarire per evitare equivoci storici

Affronto, per primo, quest’argomento essendo, forse, il terreno a me più congeniale. Dalla Porta afferma che Anderl Heckmair, primo vincitore della nord dell’Eiger, fece, in quell’occasione, ricorso a droghe. E’ un’affermazione che ritengo grave, lontana dalla realtà. Ne spiego il motivo.
Chi ha avuto, nel tempo, la bontà di leggermi, sa che la nord dell’Eiger è, da sempre, uno dei miei argomenti preferiti. Non come alpinista, certo, essendo per me, una parete preclusa a causa di un motivo semplicissimo, lo dico senza vergogna: diciamo che non ho sufficiente “pelo sullo stomaco” non solo per tentarla ma anche per pensarla. Ciò non significa che non la conosca tuttavia molto bene e ne conosca ancora meglio la storia, lo dico senza alcuna presunzione. Sappiamo, per bocca dei protagonisti, che, qualche giorno prima dell’ascensione, Heckmair e Vorg trovarono ospitalità, grazie a un giro di amicizie, presso l’abitazione della Dott.ssa Belart a Grindenwald. Fu la stessa Belart, forte delle proprie conoscenze cliniche, a dare loro un flacone, contenente un liquido da somministrare in gocce, che avrebbe potuto rivelarsi utile in caso di bisogno. In effetti lo usarono: erano nel tratto definito le “fessure finali”, la stanchezza era enorme, i ripetuti bivacchi e le difficoltà dell’ascensione avevano sicuramente fiaccato il loro fisico, la cima era ormai a portata di mano e Vorg, peraltro travolto da una caduta di Heckmair, non era nelle migliori condizioni fisiche. Questa, nella sua semplicità, la storia.
Dalla Porta copia nel Suo articolo alcuni passaggi tratti dal libro di Heckmair, Gli ultimi tre problemi delle Alpi, che corrispondono a quanto contenuto nella riedizione del 2006 pubblicata da CDA Vivalda per la collana “I Licheni”. Cioè: “Rovistando nella scatola dei medicinali mi viene tra le mani un flacone di gocce per il cuore che la premurosa dott.ssa Belart di Grindenwald mi aveva dato …” (o.c. pag. 118). Gocce per il cuore quindi. Il fatto curioso, curioso a tal punto da disorientare, è che solo qualche rigo dopo Dalla Porta afferma: “Non occorre essere luminari […] per supporre che si trattava di un qualche drogaggio”.  Evito qualunque commento.
Facciamo un passo indietro. Ho parlato della pubblicazione per i tipi Vivalda di quella che è poi la seconda edizione del volume, essendo la prima pubblicata da Cappelli Editore in Bologna nel 1953. Prima edizione tradotta da Die Drei Letzen Probleme der Alpen di Andreas Heckmair (Munchen 1949). Su Parete Nord di Heinrich Harrer (Mondadori Editore 1999, prima edizione – traduzione di Paola Mazzarelli, verosimilmente dall’inglese The White Spider) Harrer riporta un estratto della versione originale di Heckmair: “Torna utile a questo punto il cardiotonico che ho nella sacca del pronto soccorso. Mi ha dato la fiala l’ottima dottoressa Belart di Grindenwald, per le emergenze …” (o.c. pag. 117).  Cardiotonico quindi, per l’esattezza.
Ambedue le versioni, pur sottilmente diverse, sono quindi sostanzialmente concordi. Non era droga ma cardiotonico, lo stesso farmaco che ogni buon capogita, ogni buon Istruttore, ogni buon Accompagnatore, porta sempre nello zaino. L’affermazione di Dalla Porta non trova perciò alcun plausibile riscontro storico, lo scrive Lui stesso. E comunque, ammesso e non concesso fosse sostanza proibita, pensate davvero che Heckmair ne avrebbe parlato con tanta spontaneità e disinvoltura, soprattutto in quel particolare contesto storico? Quella di Dalla Porta è, quindi, un’affermazione gratuita che mi meraviglia assai in un personaggio di cultura quale Egli è. Sappiamo peraltro (prefazione alla riedizione de Gli ultimi tre problemi delle Alpi) che Dalla Porta era amico di Heckmair al punto da dichiarare: “… il dono più eccezionale che ho ricevuto è stato quello di essere diventato amico sia di Anderll che di Riccardo (n.d.r.: Cassin): due uomini i cui nomi sono incisi per sempre nella storia del grande alpinismo e dell’ardimento umano”. Se Dalla Porta considera un dono l’amicizia di Heckmair, certamente queste ultime affermazioni non vanno in quella direzione, certo non marcano alcun punto in favore della reputazione di Heckmair. Se è, invece, personalmente in possesso di verità sconosciute, per quanto ne dubiti, Le denunci. Sarebbe un passo avanti nella conoscenza della storia dell’alpinismo.
Detto questo, e francamente ne farei a meno, devo purtroppo segnalare anche un’altro abbaglio storico. Può sembrare banale ma non lo è ed, in quel particolare contesto, ha una sua validità storica. Dalla Porta afferma che Harrer non aveva piccozza ma non trova alcun riscontro storico. E’ vero invece che ad Harrer mancavano i ramponi. E’ Lui stesso, nel suo libro perbacco, a darci spiegazione e giustificazione coerente di tale mancanza. Il fatto è che sia Harrer che Kasparek, suo compagno, ebbero, invero, un approccio sbagliato nei confronti della parete nord dell’Eiger; pensarono infatti di trovarsi di fronte ad una “muraglia di roccia” con “chiazze di ghiaccio e neve” (testuale). Un paio di ramponi pesava molto nel 1938 e considerando la solitaria presenza di alcune “chiazze” di neve, i due compagni pensarono bene di portarne un solo paio (che peraltro, stando alla versione di Harrer, sarebbero serviti a Kasparek, notoriamente abile sui tratti ghiacciati) per sfruttare l’equivalente peso in cibo e generi da bivacco. Il fatto che, a causa di ciò, fossero molto lenti (ed era inevitabile) creò la possibilità a Heckmair e Vorg di raggiungerli e quindi formare un’unica cordata. Questa, nella sua semplicità, la storia.
Dell’etica o come diavolo vogliamo chiamarla
Leggendo l’articolo di Dalla Porta confesso di aver avuto molti dubbi. Può darsi sia dovuto alla mia scarsa intelligenza. Ma se, ad una prima lettura, ho avvertito una certa meraviglia è subentrato, nelle letture successive, il legittimo sospetto che con il termine drogaggio Dalla Porta intenda, oltre all’esistenza ed all’uso di particolari farmaci, anche una condizione psicologica da interpretare come stimolo all’azione diretta. Non a caso cita l’impostazione ideologica di coloro che realizzarono i primi tentativi alla nord dell’Eiger. Membri, per lo più, di quella “Scuola di Monaco” storicamente nota per le motivazioni ideologiche, ovvero di senso politico visto il particolare contesto nazista, che spinsero molti giovani tedeschi ad avvicinarsi all’alpinismo e ad osare oltre il lecito.
Dalla Porta è Autore, molti tuttavia non lo ricorderanno, di un libello intitolato “L’etica dell’alpinismo”, edito dal Club Alpino Italiano nel 2002, a cura della Commissione Centrale per le Pubblicazioni. Un manuale (come definirlo?) della collana “Quaderni di Montagna e Cultura”. E’, sostanzialmente, un tentativo di collocazione del pensiero alpinistico che offre al Lettore, nella narrazione delle sue tappe fondamentali, spunti di riflessione su taluni modelli di comportamento che introducono un’etica valutazione delle attività di montagna. E’ un contributo nel quale il problema droga affiora solo marginalmente, sottinteso, ma in coincidenza di un distinto periodo storico, quello del Nuovo Mattino. Di quel particolare momento, cioè, che è coinciso con l’affermarsi di un nuovo modo di concepire l’alpinismo in funzione del piacere dell’arrampicata senza vincoli di vetta, mi piace definirlo così. Movimento di pensiero che Dalla Porta, mi par di capire, liquida in maniera tranciante, in senso negativo, riproponendo invece un alpinismo come simbolo di trascendenti spiritualità, fonte di ispirazione di elevati sentimenti, temi, d’altronde, non nuovi, già affermati dallo stesso Domenico Rudatis. Torna ad affermare i valori della “lotta con l’Alpe”, dell’alpinismo “eroico”, insomma la solita anticaglia. Nessuno si offenda per questo termine, sbaglierebbe, perché io, per primo, trovo di estrema utilità, soprattutto in alpinismo, affidarsi alla tradizione ma è vero tuttavia, pur lasciando a ognuno libertà di valutazione, che in alpinismo, come nella vita d’altronde, è anche necessario crescere, migliorarsi, andare avanti, anche se condizionati da una fatale percentuale di errore. Gian Piero Motti, ispiratore del Nuovo Mattino, fu chiaro: “Se qualcuno dirà che questo non è alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi”. Il Nuovo Mattino è stato un movimento dalla formidabile intuizione, uno straordinario movimento nato spontaneamente con l’unico obiettivo di rinnovare intellettualmente e culturalmente un ambiente alpino e alpinistico vecchio, chiuso in se stesso, severo oltre misura. Francamente di un Nuovo Mattino ve ne sarebbe ancora bisogno nel nostro ambiente. Scomodare il movimento sessantottino, poi, come fa Dalla Porta per giustificarne profili di etica scorretta, è francamente fuori luogo. Ho vissuto quei movimenti, ho perciò la presunzione di conoscerli. E’ di quel periodo la condanna dell’Autore all’uso di droga tanto da definirne tale impiego con il termine di sbandate motivate dall’imitazione di un certo costume in voga, all’epoca, nell’ambiente degli arrampicatori californiani.
Ne “Il doping dell’alpinismo” Dalla Porta articola in modo diverso il proprio pensiero etico, tanto da permettermi di suggerire un rapido ritiro dalle librerie de L’etica dell’alpinismo. Sembra concentrarsi, Dalla Porta, sulla necessità di un lecito uso di droga solo in certe condizioni, quelle di pericolo ove serva a salvare una vita umana. Anche a proposito dell’ascensione dell’Eiger, di cui parlavo poc’anzi, dichiara infatti: “Ma quale etica! Non solo non ha [n.d.r.: Heckmair] danneggiato nessuno […] ma al contrario, oltre alla propria, ha salvato la vita dei tre compagni …”. Continua, più genericamente, affermando che “la montagna non è un terreno di calcio […] per cui qualsiasi elemento in grado di salvare una vita umana è etico” per concludere che “dal punto di vista etico […] l’uso estemporaneo del drogaggio può talvolta risultare addirittura necessario per la salvezza comune …”. Etica, quindi, o come diavolo la si voglia chiamare. Francamente, parlando di uso di droga, dovremmo auspicarci una maggiore prudenza di giudizio; la casistica personalizzata è un circolo vizioso dall’elevata pericolosità. Sarei tentato, come recentemente ho già fatto con il Sig. Giorgio Bocca, di scrivere …
Pregiatissimo Dalla Porta,
sono stato educato ad una severa rigidità di pensiero, forse anche eccessiva, per cui cerchiamo di capirsi; il carciofo fa i carciofi e il pero fa le pere. Ho, come Lei, un peso non indifferente di anni da portare dentro lo zaino e, come Lei, ho avuto modo di constatare come, negli anni, sia andato trasformandosi il modo di frequentare e vivere la montagna. Oggi, abbiamo tutti un telefonino, non di rado un GPS, talvolta strumenti cartografici elettronici con tanto di curve di livello. Ora Lei ci sta dicendo che, oltre a tutto ciò, dobbiamo anche fornirci di drogaggi perché come Lei sostiene … in fin dei conti si tratta solo di un uso estemporaneo.
Scusi, abbia pazienza, di cosa parliamo? Mi spiega, per favore, per quale motivo, dovrei andare in montagna, ogni volta, con il pensiero lacerante di dover salvare me stesso o qualcuno dei miei compagni? Se domani dovessi pensarla in questo modo, mi creda, smetterei di andarci e, francamente, non me ne fregherebbe un ca… un corno se è etico o non etico. La montagna per me è sempre stata allegria, un’esperienza gratificante e inebriante. Perché mai avrei dovuto metodicamente pensare al peggio, pensare che qualcuno dei miei compagni, con i quali ho condiviso e condivido la mia attività in montagna, potesse in qualche modo aver bisogno di droghe per salvarsi la pelle. Ho affrontato e, a Dio piacendo, seguiterò ad affrontare la montagna coscientemente, questo sì, ma senza “aiutini”. E non creda, ho vissuto anche qualche momentuccio di tensione, certo su obiettivi modesti quali si addicono alle mie capacità, ma mi sono sempre fidato della consapevolezza di essere in grado di eseguire quei pochi, vitali gesti, quelle poche manovre fondamentali, che mi hanno sempre permesso di tornare a casa sano e salvo fatta eccezione per un fastidioso mal di denti causato dal prolungato sforzo di stringerli. E poi, scusi, Dalla Porta. Anche se proprio volessi … la droga, o il drogaggio come lo chiama Lei, dove lo trovo? Che faccio, mi rivolgo a uno spacciatore? Un po’ come quando, giovanotti squattrinati, passavamo dai “Greci” (che non erano spacciatori, sia chiaro, vendevano di contrabbando, tutto qui, e dubito Lei sappia della loro realtà) a comprare le sigarette prima di imboccare l’autostrada (o quello che ci pareva un’autostrada) che ci portava in Apuane. No Dalla Porta, mi creda, non mi sembra una bell’idea. Il fico … non fa né susine, né melanzane.
Chiariamo anche un’altra cosa. Quando si tratta di salvare vite umane non esiste, e non devono esistere, esitazioni. Non ne devono esistere proprio, per nessun motivo, un discorso che vale, e deve valere per qualsiasi circostanza e per qualsiasi coscienza. Perché mai dovremmo applicarlo solo riferito alla montagna, scusi. Perché mai dovremmo dividere il mondo fra coloro che vanno in montagna e coloro che non ci vanno. Il valore, incluso l’esclusivo significato, di una vita umana è, per me ma lo deve essere per chiunque, unanime e universale.
E se, più nello specifico come Lei scrive, vogliamo parlare di montagna, allora incrementiamo i nostri sforzi per educare. Mettiamo la nostra esperienza al servizio di un alpinismo pulito, insegniamo quello che abbiamo appreso in tanti anni di attività. E se proprio vogliamo parlare di etica evitiamo di dire, come Lei afferma, “l’ambiente […] della montagna sfugge alla logica e all’etica ordinaria”. La montagna, mi perdoni, non sfugge proprio a nulla e nemmeno ce lo ha mai chiesto. Anzi, ha invece una sua logica ben radicata in una corretta frequentazione che non deve sfuggire nemmeno all’etica, mettiamola così. Se per etica, è ovvio e senza pormi il problema se è ordinaria o straordinaria (mica siamo a una riunione di condominio), intende il fatto di viverla in modo sano, appassionato. Se accetta di combattere per la sua difesa ambientale, di apprezzarne il senso di libertà al patto di affrontarla in modo consapevole, senza “aiutini”, qualunque sia l’attività che svolgiamo. Se accetta di seguire quella regola elementare che recita: “Prima viene la sicurezza, poi il divertimento, e dopo, ma solo dopo, il successo”. E se il “successo”, o come diavolo lo vuol chiamare, non arriva, mi scusi ma sa cosa Le dico: “ma chi se ne frega”. Infine, e concludo … Lei che è Autore di un “Quaderno di Montagna e Cultura”, ritiene il Suo intervento eticamente corretto? Un cordiale saluto.
La mia opinione sull’argomento
Dopo tanto parlare, mi sembra corretto, a questo punto, esprimere la mia opinione sull’argomento senza sottrarmi al giudizio dei Lettori, son fatto così. Considero la droga una delle piaghe peggiori, anche se purtroppo non l’unica, del nostro tempo. Ciò che denunciano sia la Dottoressa Alessandra Camilli sia Sandro Caldini è, almeno per me, assolutamente condivisibile. Il fenomeno della droga deve tuttavia farci riflettere e, pur condannandone, per più motivi, l’uso a priori, deve incoraggiarci ad osservarne, con un briciolo di obiettività, le diffuse modalità. Un fatto è, ad esempio, arrendersi alla stupidità e farne un uso rituale, magari in certi locali alla “moda” frequentati da personaggi, talvolta al limite di una insulsa celebrità. Un fatto, purtroppo, è arrendersi a un disagio sociale, a un malessere psicologico che è indizio e sintomo anche di altri fenomeni non proprio eclatanti. Storie di vite sciagurate dove la droga è la via d’uscita peggiore, storie tuttavia con le quali la società civile ha il dovere di confrontarsi senza pregiudizi nell’obiettivo di consegnare ai propri figli, se non altro, la speranza in un futuro e in un mondo migliore. E credetemi non è facile, lo affermo con umiltà ma con ragion di causa, essendo da tanti, ma da tanti anni ormai, Presidente di un’associazione di volontariato che si occupa anche di queste problematicità. E’ tuttavia un discorso che ha inevitabilmente, poiché entra violentemente nelle nostre vite di tutti i giorni, una sua complessità che, in questa sede, non ci riguarda o ci riguarda solo in un quadro ben definito e sarò più chiaro.
Prevenire questi fenomeni è compito delle istituzioni ed anche il CAI, in quanto tale (e non dimentichiamocelo …), svolge da sempre un’azione di prevenzione per il ruolo che svolge, e su tutto il terreno nazionale, nella crescita e nello sviluppo fisico e culturale dei giovani.
Ho avuto modo di condividere e osservare, seppur dall’esterno, l’attività dei nostri Accompagnatori di Alpinismo Giovanile. Sono persone fantastiche, credetemi, che sanno svolgere in modo serio e competente il loro “lavoro”. Educano i ragazzi non solo alla conoscenza dei pericoli della montagna ed al modo con cui affrontarla correttamente, cosa d’altronde naturale per il nostro Sodalizio, ma soprattutto svolgono in modo eminente il loro “mandato” intellettuale e culturale come ogni buon padre e madre di famiglia farebbero. Questo importantissimo compito è la testimonianza che prevenire si può e che si può educare alla vita e all’alpinismo in modo pulito, curando le proprie debolezze – perché tutti ne abbiamo – con l’allenamento dell’organo più importante: il cervello.
Da qui l’irritazione nei confronti di Dalla Porta, da qui il mio consiglio a riflettere su una frase di Giovanbattista Piaz, detto Tita: “Vi è un’importante esigenza: l’educazione dell’alpinismo. Se ne trarranno grandi risultati anche per lo spirito, giacchè educare alla Montagna è educare alla vita”.
Su un fatto sono d’accordo con Dalla Porta, l’alpinismo non è uno sport. Chi lo sostiene dice una solenne stupidaggine. L’alpinismo è, più semplicemente, un’attività personale decisamente articolata che richiede notevoli componenti fisiche e psichiche, peraltro affatto scontate, che si acquisiscono per natura e che si migliorano solo attraverso l’esercizio, il progresso della tecnica, l’allenamento mentale, l’incremento dell’esperienza individuale, e non ultime la passione e l‘interesse culturale. Certamente non attraverso il doping e mi meraviglia che Dalla Porta, autorevole  membro del Club Alpino Accademico, la pensi diversamente.

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