“La montagna tra sogno e realtà” di Sergio Rinaldi

Gennaio 2011

E’ caratteristico nell’uomo guardare in avanti ma invecchiando si ripensa sempre di più al passato e a rimpiangere sogni non realizzati ma anche a quelle mete raggiunte con tanta fatica e tanto amore. Tra gli appassionati di montagna chi non ha fatto qualche pensierino per salire una vetta lontana difficile ma tanto desiderata? Questo desiderio a volte è rimasto chiuso in noi per anni nel cassetto della nostra memoria ma, passato lo stimolo del momento, raramente si riuscirà a realizzarlo.
Un giorno mio nipote Andrea, che vive e lavora a Milano, mi disse: “Caro zio, non lamentarti perché tu hai vissuto intensamente, con tanti amici da un monte all’altro, e così hai tante avventure da poter raccontare ai tuoi nipoti!”. Forse ha ragione a pensare che il mondo delle montagne mi ha sempre affascinato per il loro mistero e la loro storia, non solo alla ricerca del lato estetico ma anche nell’azione e nel contatto umano che ne è derivato arricchendomi di una esperienza di valori che anche nella vita comune mi sono stati sempre utili e indispensabili. Probabilmente tanti episodi ora lieti e ora ahimè anche tristi mi hanno lasciato qualche ruga in più, ma questo è lo scotto che bisogna pagare alla nostra esistenza, dimostrando a noi stessi che con una buona dose di volontà possiamo superare le avversità e le incertezze poste sul nostro cammino terreno. Oggi la tecnica ha fatto grandi progressi dai miei tempi, ma se dentro di noi vengono a cessare lo stimolo e la passione scelta resteremo solo inerti spettatori e non interpreti di quel mondo che la montagna promette allettandoci da lontano. Ognuno è libero di scegliere la sua “via” più congegnale secondo la propria preparazione per salire in sicurezza ad incontrare il fascino esercitato dai  monti. Ma alle nuove generazioni bisogna evitare di lasciare in eredità solo dei bei mucchi di pietre, magari ipotecate da una folle lottizzazione o privatizzazione al miglior offerente che penalizzi o tassi i rilievi alpini limitandone così l’accesso a chi sale per godere di una disinteressata azione di libertà nel pieno rispetto della natura e dell’ambiente da salvare. Apprezziamo in tempo della bellezza dei nostri monti prima che questi crollino per le frane o le valanghe e cessino il loro richiamo sotto l’influenza degli eventi atmosferici o delle polveri sottili che insidiano anche l’alta troposfera con ricadute sulle nevi e sui ghiacciai depositandovi uno strato sottile grigiastro che minaccia  il biancore dei nostri ghiacci limitando la riflessione  della luce solare sotto l’azione dell’ozono e della CO2.
D’accordo forse la montagna non è tutto nella vita, ma se ne sentiamo maggiormente il desiderio e l’attrattiva quando ne siamo lontani, col pensiero possiamo volare lassù come un aquila sospinta da una corrente ascensionale. Per me, ligure di nascita, forse ho volteggiato in alto, come un gabbiano marino, spinto dal desiderio di vedere  e vivere in un mondo nuovo, lontano e affascinante tra i picchi più alti delle nostre Alpi. Così nei miei dormiveglia notturni, agitati da sogni di azioni remote, prive di costrizioni e di un ordine preciso nel tempo passato alla velocità della luce ho attraversato lo spazio vissuto sulle cime più alte e più belle del nostro pianeta alpino. Rigirandomi nel sonno mi rivedo giovanile, con i calzoni alla zuava di velluto a righe grosse e con i calzettoni di lana rossi e bianchi fatti a mano da mia madre, come usavano a quei tempi. Ho salito con trepidazione, senza guide o relazioni scritte dettagliate ma solo con cartine topografiche e bussola e a vista, sulle vette più elevate dalle Apuane alle Dolomiti, sfiorando il cielo e riportando sensazioni e soddisfazioni indimenticabili incise profondamente nel mio animo come un carosello fatto di desiderio, di azione e di esaltazione quasi mistica. Negli anni ’50 le alte montagne si scalavano a mani nude o quasi, con pochi e primitivi arnesi come i  ramponcini ultraleggeri Grivel che mi aiutarono ad essere verso le 7 del mattino sulla vetta del Monte Bianco a fare jogging con mio cugino Claudio sulle spalle e la vista lontana delle ultime luci di Parigi. Forse quello fu come un rituale per festeggiare l’esuberanza dei miei vent’anni e la nostra gioia per essere partiti a piedi da Courmayeur.
Poi mi sono ritrovato a pensare alle 5 ore impiegate per salire la buia e stretta lingua ghiacciata del canalone Coolidge al Monviso (che ora è crollato) e al canalone di Lourousa delle Marittime salito più volte e che ho anche disceso con gli sci, in età avanzata. Il granito del Corno Stella era il nostro banco di prova. Mi vengono poi alla mente i fiori di Genepì rubati  da mio figlio Riccardo su una cresta di roccia instabile del Gelas mentre lui si sporgeva in fuori legato a me con una corda . E ancora la sua prima vera ascensione sulla ghiacciata parete Nord del Ciarforum, con piccozze di vecchia generazione col becco diritto a 90 gradi. Poi rieccoci con lui sul Dente del Gigante dove si incontrò Cosimo Zappelli in discesa che ci chiese di poter usare due nostri moschettoni. Il pensiero onirico mi ha riportato lassù sulla cresta Sud della Noire quando ormai sulle sue ultime punte il maltempo ci consigliò per una ritirata veloce a corde doppie fino al Fauteuil des Allemands, negandoci la speranza di proseguire per la cresta di Peuterey fino alla vetta del Monte Bianco. Anche sulla cresta Est delle via Albertini alla Dent d’Herens, ormai in vista della cima, dovemmo desistere e ripiegare a valle sotto una fitta nevicata. Come un flash-back mi rivedo nel tratto più impegnativo della via Castiglioni alla Rocca Castello (Val Maira), dove mi trovai a salire in libera, senza neanche un chiodo di assicurazione, per la rottura del manico del mio fedele martello fatto in casa. Ora eccomi aggrappato alla croce di ferro sulla vetta italiana del Cervino ad ammirare ai miei piedi i ghiacciai lucenti del Monte Rosa che avevamo salito sia d’estate che d’inverno partendo da Cervinia fino alla punta più alta della Dufour. Rieccoci ancora sempre sul Cervino imbiancato di neve, ritentato d’inverno, con 25 gradi sottozero, con la borracce di vino (come usava allora) e le arance divenute un blocco di ghiaccio. Ma allora si continuò l’ascesa fino al Pic Tyndall da dove fummo respinti, per il troppo freddo, e mestamente riprendemmo la via del ritorno saltando la crepaccia terminale del ghiacciaio sospeso del Leone fino ai nostri sci lasciati sotto la croce Carrel che ci riportarono a Cervinia. Qui fummo accolti inaspettatamente quasi come eroi da una folla festosa di gitanti che ci aveva seguito con i binocoli. Allora capimmo la differenza tra il dire e il fare con in mezzo la vera montagna e chi ha provato a salirla nonostante i suoi ostacoli e le sue insidie.
Nel sogno mi apparvero, alternandosi a realtà vissute, montagne desiderate e non salite  per mancanza di occasioni come il Pic Dibona e La Maije ma anche tante scialpinistiche realizzate come la Barre des Ecrins (nel Delfinato Francese), con l’affilata cresta terminale salita la prima volta, mentre la seconda volta si dovette scappare al Dome de Neige sotto una fitta nevicata trasformatasi in acqua sul Glacier Blanc che ci ammollò fino ad Alefroide.
Nel mio lungo dormiveglia, con ricordi a volta un po’ sbiaditi nel tempo, sono rimasti però sempre dentro di me dei dettagli  significativi che hanno assunto una certa rilevanza nella mia corrente ascensionale durante la sfida con me stesso e con le incognite dei monti, da non sottovalutare ma sempre da accettare e da rispettare. Le sensazioni provate sono state come tanti tasselli di un puzzle collezionato nel tempo dalla mia energia giovanile, mantenendo i piedi per terra,  con una certa dose di umiltà che mi ha guidato e sorretto fiutando i pericoli e i rischi senza eccedere o ricercare estremismi. Durante le mie scelte alpine ha prevalso il mio carattere gioviale sempre aperto verso gli altri, comandato dal cuore, ma soprattutto dall’onesto contributo della mia testa che è riuscita  a districarsi dalle situazioni più complicate. A volte anche una rinuncia può essere più importante di un successo e il sapersi fermare in tempo costa assai ma, se necessario, è degno di una volontà e di un rispetto che ho sempre ammirato. Mi vengono alla mente quei primi alpinisti fermatisi a pochi metri dal culmine del Kanchenjunga a 8586 metri, dopo averne dominato le difficoltà, solo per non osare profanare quella cima considerata luogo sacro dalla religione locale del Sikkiim.
Ricordo con amarezza quel mezzo metro di neve fresca che ci ha bloccato al Rifugio Torino e che ci ha dissuaso, quella volta, dal salire la via della POIRE al Bianco che avrebbe completato il nostro allenamento prima di avventurarsi sullo sperone  Walker alla Nord delle Grandes Jorasses. Comunque, in seguito, al Couvercle ci sono stato per salire il Moine e per studiare più da vicino la via Cassin tanto desiderata. Alla base del pilastro della OPPIO, sulla Nord del Pizzo d’Uccello, ho rivisto durante la nostra settima ripetizione della via, negli anni ’50, il nido con le uova di qualche rapace che ci fece accelerare la scalata per evitare di essere attaccati dal legittimo proprietario alato. Ma invece, in un’altra occasione, mentre salivamo con gli sci sul groppone il canale di Rostagno, sulle Marittime, ci capitò davvero di essere presi di mira e attaccati da diversi falchetti urlanti e affamati. Quanti fotogrammi o episodi registrati e scolpiti nella profondità della memoria che il tempo non è riuscito a cancellare del tutto ma che, ogni tanto affiorano come una miscellanea fatta di sogni e di realtà vissute.
Il granito delle Alpi Occidentali, misto al ghiaccio, era la parte più interessante e preferita nella scelta delle mete e nella mia visione onirica ho rivissuto tante belle ascensioni anche invernali al Pic de Rochebrune, al Tabor, alla Rognosa, e la salita in Dulfer all’ Herbetet su un diedro misto di ghiaccio e di roccia, alla Nord e sul Ghiacciaio della Tribolazione al Gran Paradiso, al Grepon dove il mio secondo non riuscì a superare la fessura Mummery, nonostante l’aiuto della corda, così che  proseguii da solo fino in vetta, al Gran Combin, al Zinalrothorn, sulle Marittime, sul Monviso e tante altre salite un po’ sfumate nello spazio di ricordi lontani. Ma anche il calcare delle Dolomiti, del Brenta e della Grigna ha attirato la mia attenzione col fascino allettante per le forme slanciate delle loro guglie e torri. Allora eravamo legati in vita con un nodo della corda e la sicurezza al secondo di cordata si faceva ancora a spalla, con la schiena alla roccia. Mi sentivo forte come un leone, tanto che uno mi confessò poi di essere ben 110 chili dopo che lo avevo aiutato a salire in roccia. Con le pelli sotto gli sci ai piedi sono salito e disceso per tanti anni canali e cime imbiancate tra le più interessanti come la traversata delle Alpi Liguri, del Queyras, da Cesana a Bardonecchia, dell’Adamello, del Pisgana, della Presanella, dell’ Otztaler Alpen, del Silvretta, della Val d’Aosta, dell’Haute Route Chamonix-Zermatt, delle Apuane, e dell’Appennino Settentrionale e Centrale che, in tempi più recenti, sono stati testimoni di indimenticabili giornate sulla neve delle vette più elevate di questi crinali montuosi, assieme a tanti cari amici.
Ma numerose e suggestive immagini racchiuse in una raccolta dalla dissolvenza cromatica, come evidenziata da un fantastico caleidoscopio dove i colori si fondono dal celeste dal cielo al bianco delle nevi, dal grigio delle nuvole minacciose al rosso della folgore, fino al verde dei prati, si affacciano, a volte, illuminando la mia mente  ripensando alle giornate trascorse sui monti. Ma improvvisamente ecco che le zampette bianche del mio cagnolino Brick mi risvegliano dal torpore dei miei pensieri remoti e dal mio lungo sonno agitato da reminescenze alpine, richiamandomi alla realtà del momento. Mi scopro allora sveglio sul mio letto della casa a Castiglioncello, con la mia età crepuscolare dove l’orologio biologico segna le passate 80 primavere, meditando su quei monti lontani che forse non rivedrò ormai più. Qui non ci sono alte montagne da scalare ma semmai forse si può solo scendere sotto il livello del nostro Mare Tirreno, tra i pesci finché il nostro fiato ce lo consente. Ma, col mio pensiero sono ancora a vagare lassù in tutta libertà, dopo tante emozioni vissute a contatto della natura, mentre quaggiù invece dei chiodi e del martello ho con me solo pennelli e colori ad olio e due tele bianche da riempire dove, sfruttando la mia predisposizione artistica, mi viene voglia di rappresentare quei profili dei monti che hanno colpito i miei occhi e la mia fantasia giovanile e che mi avevano turbato nel sonno.
Allora mi alzo, ancora sotto l’effetto di tante visioni, e cercando i colori penso che anche questo sia un modo per salire ancora lassù in alto usando metaforicamente la punta dei pennelli per tracciare il  profilo delle Aiguilles di Chamonix e del Grepon, che un tempo avevo salito, e in primo piano cinque scialpinisti (la mia ultima passione) che passano sopra una cornice di neve, inserendo il lato umano su uno scenario grandioso. In questo quadro mi rivedo ancora discendere con gli sci, da solo, la Nord dell’Aiguille d’Argentiere e la Mer de Glaces sotto il Dente del Gigante. Sulla scia della stessa suggestione ho voluto rappresentare nel secondo quadro l’azione di due ghiacciatori impegnati in una salita di ghiaccio sotto l’occhio severo della guglia granitica del Cerro Torre, nella Patagonia, meta tanto sognata da molti scalatori ma riservata  solo a pochi eletti. Negli ultimi 25 anni ho provato anch’io l’ebbrezza del ice-climbing elevandomi sulle cascate ghiacciate col piolet de trazion e garantisco che anche questa disciplina può donare una certa dose di adrenalina. Così ho voluto concludere in modo più semplice e casalingo questa mia ultima avventura dal sapore alpino-descrittivo tra il virtuale e la verità reale, quasi risvegliato da un coma profondo e retroattivo di oltre 60 anni passati in montagna. Termino questa mia lunga e forse noiosa carrellata augurandomi di aver apportato un pizzico di sale per rendere più saporita e interessante la scelta delle nuove leve che avanzano lasciando loro uno spazio con più libertà di selezione, trovando nuovi stimoli e un invito a superare le nostre tracce, oltre l’arrampicata sportiva, rivolti alle vere montagne vicine e lontane.
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