Immaginate di trovarvi al mare in inverno e di salire su per i pendii che s’innalzano dalla costa verso le vicine montagne immergendovi con poco più di due ore di cammino in un ambiente glaciale, con clima avverso, vento neve e nebbia, pareti e goulottes di ghiaccio, insomma un vero e proprio anfiteatro d’alta quota pur trovandosi solo a 1400 mt.: questo è il Ben Nevis , la più famosa montagna della Scozia.
Anche le nostre Apuane sono praticamente sul mare e d’inverno s’imbiancano di neve e di ghiaccio secondo la direzione dei venti ma la distanza in latitudine gioca un ruolo determinante ; sul Ben Nevis il clima è quasi sempre avverso, anche d’estate , le correnti che spazzano da sud a nord subiscono accelerazioni fantastiche per effetto dei climi freddi del nord Europa e dell’apertura sul mare del Nord incrostando di neve e ghiaccio tutte le pareti, i pendii d’erba ed i sentieri ; basta però un repentino innalzamento di temperatura , molto frequente per il clima marino e la bassa quota , a cambiare anche nel corso di in una sola notte le condizioni della montagna , trasformandola da una corazza di ghiaccio in canali di neve bagnata, ghiaccio molle e colate d’acqua .
Chi va su questa montagna sa cosa lo aspetta e sa di doversi confrontare con questa variabilità assoluta e con un clima inclemente , ma sa anche che tutto il mondo alpinistico anglosassone ha da sempre frequentato questa montagna, entrata di diritto nella storia dell’alpinismo mondiale, con la determinazione di chi conosce che non esistono alternative , che bisogna cogliere al volo le condizioni più favorevoli o semplicemente accettare quelle che si trovano senza possibilità di attesa, attaccando pareti e goulottes senza guardare il tempo, senza preoccuparsi della nebbia o del vento, in pratica accettando la sfida del Ben Nevis.
Mi sono finalmente deciso ad accettare l’invito che molte altre volte mi era stato rivolto dagli amici che sono già stati lassù più di una volta, cosicché siamo partiti il 31 Gennaio 2010 alla volta di Edimburgo e di Fort William , avamposto alla base dell’area del Ben Nevis. Il paesaggio invernale che si attraversa per circa 250 km. di strada è bellissimo; il verde proverbiale dei luoghi più piovosi d’Europa in questo periodo dell’anno fa posto ai colori sfumati, dal giallo al marrone all’ocra , che si definiscono in contrasto con le macchie di conifere, l’acqua ed il ghiaccio dei laghi e la neve delle montagne , spesso poco più che colline, estendendosi a perdita d’occhio lungo le poche strade che solcano vastissimi territori privi di urbanizzazione e mantenuti allo stato naturale seppur utilizzati per l’allevamento delle pecore e la piantagione delle conifere. Si avverte un senso di sconfinata libertà che spinge all’esplorazione dei luoghi ma anche alla contemplazione; attraversando queste terre, curate ma selvagge, s’incontra di tanto in tanto qualche piccolo borgo con castello medievale, circondato da mura chilometriche e verde sconfinato che riportano la mente indietro nel tempo ed ai ricordi degli studi liceali. Fort William è un paese ordinato e pulito adagiato fra il fiordo e la montagna; i piccoli battelli che solcano l’acqua collegando i borghi delle opposte sponde, contrastano con i boschi e i pendii innevati che portano verso le montagne, che si scorgono alzando gli occhi se si ha la fortuna di una giornata senza nebbia.
La gente è simpatica anche se riservata e sembra vivere senza particolare stress, del resto non ve ne sarebbe motivo, e consapevole dell’importanza della natura che la circonda e che costituisce l’habitat nel quale svolge ogni tipo di attività: escursionismo, canoa, bicicletta, sci, arrampicata, alpinismo. Da qui partono i sentieri che raggiungono le vette delle montagne vicine, compreso il vasto anfiteatro sotto le pareti nord del Ben Nevis dove è ubicata la mitica C.I.C. Hut: è un vecchio bivacco che nel corso del tempo è stato ampliato e attrezzato per accogliere con minimo comfort , anche d’inverno, una decina di persone , per la precisione tredici, che possono trascorrervi più giorni in piena autonomia. Il vecchio monolocale è oggi adibito a dormitorio mentre i successivi ampliamenti sono destinati a locale diurno con uso cucina, stanza d’ingresso con piccolo locale essiccatoio (fondamentale per questo clima) e, solo da un anno, due ben accetti wc; il riscaldamento è assicurato da stufe a gas che proviene da bombole sistemate all’esterno a inizio stagione mentre l’illuminazione è assicurata da una pala eolica distante una decina di metri che fischia di continuo sotto l’incessante azione del vento e che sostituisce i lumi a gas, tuttora efficienti in caso di emergenza. Manca l’acqua perché le tubazioni non resisterebbero al gelo dell’inverno, ragion per cui c’è solo la fatica di prelevarla dal torrentello vicino , a volte in mezzo alla bufera, rompendo il ghiaccio per far entrare il secchio.
Questa è la C.I.C. Hut , rifugio privato appartenente allo Scottish Mountaineering Club in memoria di Charles Inglis Clark che fu ucciso durante un’azione della guerra 1914-1918, avamposto storico e strategico per svolgere attività sulle pareti vicine senza dover scendere e salire da Fort William ogni giorno ; fu costruito non crediate però di poter fruire del rifugio senza preavviso : la ristrettezza dello spazio e l’assenza di un gestore rendono obbligatoria la prenotazione che deve essere fatta con il dovuto anticipo scrivendo o telefonando a Robin Clothier , custode a distanza e coordinatore dei soggiorni. Ma il vero personaggio simbolo dell’alpinismo locale è Alan Kimber , alpinista di fama internazionale , non più giovane , dal piglio carismatico , guida locale e profondo conoscitore delle montagne di casa ma che ha svolto in passato una importante attività anche in Himalaya, Alaska, Perù, Africa, Isola di Baffin ed ovviamente nell’intero arco alpino: è lui che mentre ti consegna le chiavi della Cic Hut ti ragguaglia sulle condizioni delle pareti, sulle ultime previsioni meteo e ti dispensa gli ultimi consigli prima dell’avventura. E’ lui che, per la prima volta, si è offerto di accompagnarci con il suo Land Rover fino alla fine della strada forestale (chiusa da sbarra) dove inizia il sentiero; almeno un’ora risparmiata senza il sacco di 30 Kg. sulla schiena.
Dunque, siamo giunti alla Cic Hut in otto : Andrea Iacomelli, Carlo Barbolini, Carlo Matteucci, Giorgio Gregorio, Stefano Rinaldelli , Mauro Rontini , Francesco Del Vecchio ed io. Le pareti sono lì vicine, completamente incrostate di neve e di ghiaccio tanto che da lontano risulta piuttosto difficoltoso individuare il tracciato delle vie di salita; fortunatamente le foto e gli schizzi della guida aiutano a rintracciarle quando si giunge presso gli attacchi. Sembra di essere lontani anni luce dal fiordo e da Fort William anche se sono solo qualche chilometro più in là. La vita al rifugio scorre piacevole fra le amenità dei compagni di avventura: accese discussioni e dibattiti a tema, preparazione del materiale alpinistico per l’attività del giorno successivo, e fra un affilar di ramponi e l’altro qualcuno, abile cuoco, prepara il piatto forte della cena , meraviglioso spaghetto con condimento vario. C’è un’aria rilassata e priva di tensioni malgrado l’impegno fisico e mentale che ogni giorno è d’obbligo per portare a coronamento con la dovuta tranquillità e sicurezza la nostra attività in parete; ma qui, per molti di noi, viene in aiuto l’esperienza degli “over fifthy” che non dà spazio ad improvvisazioni di alcun tipo e ci consente di vivere momenti entusiasmanti sulle famose vie del Ben Nevis. La mattina presto non c’è nemmeno da guardare il tempo prima di prepararsi: dopo la colazione ed una volta indossati gli indumenti più adatti, si esce con l’imbraco già addosso e la picca in mano, sapendo che se il tempo è brutto, se nevica o se tira vento forte … non è un problema poiché questa è quasi la norma ! Unica precauzione dovuta è la valutazione del pericolo slavine, cui naturalmente nemmeno il Ben Nevis può sottrarsi.
Point Five Gully cade subìto il primo giorno, mitica e storica goulotte della parete principale, insieme ad Hadrian’s Wall , poi Indicator Wall, Green Gully, Psychedelic Wall , North Est Buttress, Moonwalk Direct , tutte vie bellissime e spesso molto tecniche; ma il maggiore impegno è imposto dalle condizio-ni ambientali , non dal grado delle difficoltà . Infatti, malgrado la relativa lunghezza delle pareti , in media 350 – 400 m. , l’impegno globale è forte e spesso incrementato dalle proibitive condizioni atmosferiche, vento forte e neve che costringono spesso a soste forzate appesi agli attrezzi in attesa che passi la scarica di neve-polvere sopra la testa o che diminuisca il turbinio che impedisce di vedere anche solo dove piantare la becca della picca.
Ci sono difficoltà tecniche per tutti i gusti ma la maggior parte delle vie, quelle più famose ed anche più belle, si collocano sui gradi 4 e 5 (difficoltà di passaggio su ghiaccio) il che significa che bisogna avere una certa confidenza con la forte pendenza (fino a 90°). Pur tuttavia ci sono anche bellissimi itinerari storici molto meno impegnativi ma non per questo meno spettacolari. Come già detto, la qualità del ghiaccio è molto variabile e dipende fortemente dalle condizioni generali della montagna, dal grado di umidità e dalle temperature; mi è stato fatto presente di aver avuto molta fortuna, anzi forse sarebbe bene chiamarlo proprio cu…, per aver trovato condizioni eccellenti, in tutto paragonabili a quelle che si possono trovare sulle Alpi, che hanno sempre consentito una progressione sicura con la possibilità di una buona chiodatura e la tenuta degli attrezzi. Non crediate di trovare chiodi o punti di sosta attrezzati : innanzi tutto perché quei pochi esistenti rimangono sotto il ghiaccio e non sono quasi mai reperibili; poi perché andando ad arrampicare nei paesi anglosassoni è bene ricordarsi che siamo nella patria dell’arrampicata “clean” dove c’è sempre stata stretta osservanza delle regole etiche nella progressione, che non consentono l’uso di mezzi artificiali e limitano all’essenziale le protezioni impiegando per il possibile quelle removibili ossia cordini, nuts e friends.
Su ghiaccio e misto sappiamo bene che tutto diventa ancor più “wild” nel senso che l’assenza di tracce “fisse” come i chiodi e i punti di ancoraggio ma anche la variabilità delle condizioni della montagna mantengono ancora il grande fascino della “parete” dove è ancora possibile la ricerca dell’itinerario , la scelta delle soste e degli ancoraggi intermedi , in pratica , nell’era del “precotto” , la possibilità di completa autodeterminazione ed il piacere di vivere la salita in totale libertà.
Malgrado la fama e la notevole frequentazione il Ben Nevis e le sue pareti consentono ancora tutto questo, e qualcosa di più , in perfetta sintonia con il ritorno all’ arrampicata in stile tradizionale , attualmente di gran moda (… corsi e ricorsi storici …) per la quale è addirittura stato coniato il termine “TRAD”, come se si trattasse di un concetto innovativo …! Tutto ciò impone quindi al frequentatore una certa esperienza di montagna, non essendo sufficienti le capacità acquisite sulle cascate di ghiaccio, importanti sotto il profilo tecnico ma troppo carenti per la gestione di una salita in ambiente di tipo alpino, per giunta con condizioni spesso avverse. Dunque, usciti sulla vetta dopo aver percorso una delle decine e decine di vie possibili, spesso attraverso le cornici formate dal vento, è possibile ristabilirsi con i ramponi sul piatto e lieve pendio che culmina al cippo ”indicatore”, facilmente raggiungibile dal versante opposto, davanti al quale c’è anche un minuscolo bivacco fisso incrostato dal ghiaccio e spazzato dai venti dove poter trovare scomodo rifugio in caso di emergenza; qui fuori, un po’ più riparati dal vento , si rimette il materiale negli zaini e si mangia qualcosa prima di affrontare la discesa che spesso , per la fitta nebbia e la bufera, è necessario affrontare seguendo le indicazioni di un satellitare , moderno marchingegno in alternativa alla bussola , ma unico modo per rientrare a valle verso il rifugio senza rischiare di precipitare nuovamente verso le pareti. Per chi rifugge dalle moderne apparecchiature non rimane altro che seguire le precise indicazioni della guida che, oltre alle coordinate digitali, riporta l’azimut ed il numero dei passi di volta in volta necessari per rientrare a valle con l’uso della vecchia bussola.
Di frequente la Cic Hut viene raggiunta alla luce delle frontali , data anche la brevità delle giornate invernali , per un percorso che non presenta grandi difficoltà tecniche ma può essere spesso ancora insidioso per la presenza di ghiaccio, oppure neve fonda , e per la totale assenza di visibilità. Abbiamo trascorso così cinque splendide giornate nelle quali abbiamo avuto anche il privilegio di qualche ora di sole con schiarite che ci hanno potuto fare apprezzare il panorama veramente unico visibile dalla vetta verso le pianure boscate ed i fiordi, in una successione di colori assolutamente particolare.
Ho cercato di immaginare questo luogo e le pareti in veste estiva con la Cic Hut nel mezzo della pietraia e le creste, canali e spigoli di roccia scura ma sinceramente ho fatto un po’ fatica; dicono che sia comunque ugualmente affascinante.
Alla fine di questo breve ma intenso periodo di permanenza, non resta che caricare i due zaini sulle spalle e di seguire il sentiero innevato per rientrare a Fort William, con il peso che sbilancia di continuo rendendo difficili anche i passaggi più banali e con la speranza di tornare in questo splendido posto; invito anche voi a farlo, se non altro per recuperare quel minimo di gusto esplorativo che in passato era l’essenza dell’attività in montagna e che sempre di più è allontanato dalla moderna concezione del mordi e fuggi.
Salite effettuate:
Point Five Gully: Gregorio – Passaleva
Hadrian’s wall: Barbolini – Matteucci
Psychedelic Wall: Rinaldelli – Rontini
Indicator Wall: Gregorio – Passaleva – Rontini
Nord Est Buttress Direct: Barbolini – Del Vecchio; Matteucci – Jacomelli
Carn Mor Dearg Arete: Barbolini – Del Vecchio – Matteucci – Jacomelli