Una definizione di “metodo”, qualunque sia l’argomento di cui si parla, può essere riassunta, stando a più fonti qualificate, come il “modo di procedere razionale per raggiungere determinati risultati”. Possiamo convenire che anche la tecnica di arrampicata può giovarsi di tale definizione. Aggiungerei con particolare riguardo al termine “razionale”, come vedremo in seguito.
Fatta questa breve premessa che ci seguirà lungo questo percorso, è ovvio che parlando di metodo riferito all’arrampicata si intenda, oggi, quel metodo di grande attualità chiamato appunto “Metodo Caruso”. Dirò subito, per non creare equivoci, che sono un convinto sostenitore di questo metodo, strumento formativo di rara efficacia e, non a caso, parte integrante del Manuale di Roccia edito dalla Commissione Centrale Scuole di Alpinismo (Tecnica Individuale – capitolo 5). Questo mio contributo non è, non vuole essere, un esame critico fra
Roberto Masoni (Direttore)
vecchi e nuovi metodi mosso dalla ricerca di quella validità che potrebbe esaltarne il periodo storico; vuole, più modestamente, offrire un tema di discussione, che mi auguro venga raccolto, ponendo a confronto epoche e contesti diversi.
E’ inoltre necessaria anche una breve precisazione. La storia dell’alpinismo, trattando ovviamente di metodi, mostra un grosso limite, quello cioè di non contemplare – da qui il merito di Paolo Caruso – alcun modello di movimento che convenzionalmente definirei “codificato”. E’ naturalmente un fatto legato ai tempi, legato alla mancanza di conoscenze specifiche tese, appunto, ad una razionalizzazione del movimento stesso. In altri termini, l’arrampicata, e quindi il superamento su roccia delle difficoltà, si è a lungo affidata non solo a quelle caratteristiche di natura personale che possiamo circoscrivere al talento e alle capacità individuali, peraltro del tutto esclusive, ma in massima parte anche all’intuito. Una dote, quella dell’intuito, mi sia concesso definirla in tal modo, ormai definitivamente accantonata dal Metodo Caruso. L’illustrazione storica di un metodo, o comunque di una tecnica, faceva, oltretutto, sostanzialmente perno sulla configurazione del terreno d’azione; questo il motivo per cui troveremo, come vedremo, la tecnica di progressione “in camino” piuttosto che quella “in fessura”. Ciò non esclude che nell’ambito di ciascuna progressione anche tali metodi, o meglio ricerche di metodo e per quanto antiquate, non dessero spiegazione di quale movimento eseguire e come disporre il nostro corpo per il superamento di una determinata difficoltà morfologica. Non possiamo, tuttavia, porli allo stesso livello del metodo creato da Paolo Caruso.
Del “Metodo Caruso” cominciammo a parlarne nel 1998, parlo al plurale intendendo noi, della Scuola di Alpinismo Tita Piaz. Concordammo un incontro di due giorni nei pressi di Sperlonga nel quale Paolo Caruso stesso, ci illustrò il metodo approfondendone così, da parte nostra, la conoscenza. Ripartimmo da Sperlonga, fra noi anche Marco Passaleva allora Direttore della nostra Scuola, non solo con il ricordo dello splendido calcare della zona e della straordinaria paranza di un ristorante di Gaeta, ma anche con tutti i dubbi legati a un metodo, assolutamente nuovo per noi, che avrebbe dovuto consentirci, ed al momento solo in via teorica, un miglioramento razionale (appunto) delle nostre prestazioni e quindi favorire la nostra attività futura, sia personale che didattica.
Rientrati a Firenze, ci ponemmo il problema di come diffondere, nonostante gli atteggiamenti talvolta scettici, talvolta snob di molti amici alpinisti, ciò che avevamo assimilato, o comunque ciò che ci eravamo impegnati ad assimilare. Costruimmo così, con una buona dose di entusiasmo, un “muro artificiale di arrampicata”, questo il termine un pò futurista con cui lo chiamammo, e lo realizzammo in via dei Biffi, allora sede della nostra Biblioteca. Quattro metri per tre, una miseria, ma raffigurava un tentativo di palestra al chiuso, uno tra i primi (se non sbaglio il secondo), e, fatto ancor più sorprendente, lo realizzava quel club considerato, da sempre, il più vecchio, il più antiquato in fatto di idee; il CAI, appunto, che dimostrò invece in quest’occasione una spiccata modernità soprattutto in considerazione di quanto emerso negli anni seguenti. Spendemmo qualche lira, non fu facile convincere Marco a spenderle, ma giocando anche sulla complicità di Marco Orsenigo, allora Presidente della Sezione di Firenze, il gioco riuscì. Grazie a questa parete in miniatura, e comunque efficace, ebbi il piacere di svolgere tre, quattro lezioni teorico-pratiche sul Metodo Caruso, credo di essere stato il primo a farle. Fummo premiati da un insperato successo, davanti ad un folto numero di appassionati, anche di qualificate realtà territoriali diverse, risuonarono, per la prima volta fra le volte della Biblioteca, termini come “bilanciamento”, “sfalsata”, “sostituzione”, parlai di movimento “omologo” e “omolaterale”, termini fino ad allora sconosciuti. A posteriori devo dire che quell’esperienza fu positiva, qualcosa del metodo, in fondo, ci era rimasto. Erano sintomi, segnali, che una nuova stagione, come d’altronde già successo in passato, era alle porte. Stavamo anagraficamente invecchiando, e con noi le nostre idee, ma eravamo ancora capaci di reagire alle novità.
Ma andiamo per gradi.
La tecnica di Emilio Comici
I primi segnali della presenza di un “metodo” risalgono intorno alla fine degli anni ’30, ne è Autore Emilio Comici. Su una vecchia pellicola, verosimilmente realizzata poco prima la Sua morte, Comici mostra molti degli elementi necessari ad una corretta progressione su roccia elencandone utilità ed efficacia. Togliendone alcuni, che sono figli del periodo storico, buona parte di tali elementi appaiono sorprendentemente attuali, principi fondamentali che ancora oggi ricorrono nelle nostre discussioni. Ai fini della validità didattica, il filmato non prende in esame singoli modelli di movimento, e non avrebbe potuto farlo non essendo ancora maturi i tempi, ma si limita, come molti altri faranno in seguito, e come ho già accennato, a distinguere tipi di progressione in relazione al terreno di azione. In tale contesto Comici detta almeno due regole che ritiene fondamentali: “sulla roccia sono proibite le ginocchia” e “si deve arrampicare con il corpo ben arcuato e sulle punte dei piedi”. Il fatto di utilizzare le ginocchia non deve prestarsi a nessuna ironia, se pensate che, ancora in quegli anni, si continuava ad utilizzare talvolta la “piramide umana” o il “passo del gatto”. Non era quindi così inusuale usarle e lo vedremo anche in seguito. Sull’arcuazione del corpo vedremo fra poche righe.
Ma l’aspetto più straordinario è l’arrampicata di Comici. Possiamo dire, a ben guardare, che Comici esegua, nella pratica, molti fra i tipi di progressione oggi illustrati nel metodo messo a punto da Caruso. Non solo. Individua ciò che sostanzialmente è, ovvero ciò che, quanto meno, dovrebbe essere, la filosofia preminente di un “metodo” di arrampicata e cioè “il principiante che ha una cattiva impostazione sulla roccia, spreca inutilmente un sacco di energia”. Un’affermazione che riassume sostanzialmente il concetto di economia, del quale vedremo nel dettaglio più avanti. Per meglio approfondire il discorso mi sono affidato ad un libro scritto da Severino Casara, che molto ha arrampicato con Comici, dal titolo Arrampicare su roccia (Longanesi 1972), libro pressoché introvabile e più che un libro, un canto, un omaggio a Emilio Comici. Nel libro, corredato da molte foto postume, troviamo alcune realtà che, per quanto già conosciute, vale la pena ripetere e cioè:
– che la posizione in “spaccata” (una delle progressioni fondamentali del Caruso) era già nota. Cosa ovvia essendo un movimento intuitivo, per lo più di riposo, talvolta di studio,
– che il concetto di “aderenza” era già molto sviluppato in Comici che, peraltro, utilizzava scarpette ante-litteram che non escludo fossero il modello PE dalle iniziali dell’ideatore, Pierre Allain, che le mise in commercio intorno agli anni 30,
– che era già molto sviluppata l’arrampicata in “opposizione” oggi meglio definita “sostituzione”. Ad esempio per quanto riguarda l’arrampicata in camino,
– che la cura del movimento dipendeva in massima parte da quella, non meglio definita, “arcuazione” del corpo, di cui parlavo poc’anzi, che potremmo definire un primo studio, inconsapevole forse, sulla posizione del bacino, quel movimento dentro-fuori, cioè, elaborato definitivamente dal Metodo Caruso. Scrive Casara: “Guai a salire col corpo diritto e aderente alla roccia; riuscirebbe più difficile e pericoloso. Bisogna tenerlo sempre arcuato e il più in fuori possibile”. Ne troviamo conferma nel Metodo Caruso: “Durante la progressione il baricentro si sposta lateralmente da una gamba all’altra, ma anche verso l’esterno (movimento dentro-fuori): il bacino, infatti, viene […] spostato in fuori per favorire l’aderenza e per permettere di vedere gli appoggi”.
Vi sono anche altre verosimiglianze.
Ad esempio una prima teoria di “bilanciamento”, primitiva certo e limitata ad un unico braccio, eppure già efficace: “Se dalla spalla che regge il muscolo del braccio e della mano addentata alla roccia tracciamo una perpendicolare, questa va a passare sul piede che sostiene l’intero peso del corpo. In tal modo i due arti opposti lo reggono validamente”. Volendo essere crudelmente ingrati nei confronti di Caruso potremmo prendere questa definizione come interpretazione della teoria del “triangolo”, forse la più innovativa e personale fra le progressioni da lui descritte: “una mano è sull’appiglio in alto, il piede opposto è in appoggio e l’altro in bilanciamento. L’altra mano è libera oppure utilizza un appiglio in basso senza interferire con l’equilibrio generale raggiunto in tale posizione”.
Emilio Comici"Metodo Caruso" posizione "triangolo"
Possiamo inoltre individuare, nella tecnica di Comici, un primo tentativo di teoria della “sostituzione”, azzarderei di “sostituzione mista”, per quanto riguarda la progressione in camino: “Prima si leva un piede per puntarlo più in alto. Poi con la pressione delle braccia si riesce facilmente a sollevare l’altro piede. Indi nuova pressione delle braccia che permette il nuovo spostamento dei piedi.” Sostituendo il termine “pressione” con senso di “spinta” non sembra così azzardato il paragone con il Metodo Caruso: “In pratica, la sostituzione mista consente di alzare entrambi i piedi e quindi di salire più in alto senza bisogno di spostare le mani. […] L’unica differenza (n.d.r.: per la progressione in camino) che esiste con le tecniche della sostituzione […] riguarda il fatto che, per ovvie ragioni, non potendo prendere con una mano un appiglio al centro, dovremo far lavorare entrambe le mani in spinta sulle due pareti”.
Un ultimo confronto riguarda la progressione in Dulfer, tecnica d’altronde già conosciuta essendo, Dulfer, morto nel 1915. Ritengo tuttavia lodevole il tentativo di Casara di registrarne il movimento: “Col corpo sempre più arcuato, che permette di fissare i piedi e le mani di fianco su appigli. Il peso del corpo è sostenuto così dalle due forze contrarie, di trazione nelle mani e di spinta nei piedi. Questi […] raggiungono l’altezza del ventre.” Lodevole ho detto, evidente il maggiore dettaglio del Metodo Caruso anche se, nella sostanza, ambedue descrivono lo stesso movimento: “Generalmente non sono presenti appoggi e quindi i piedi lavorano in aderenza. […]. Per eseguire correttamente la sequenza di movimenti bisogna cercare di mantenere uguale l’ampiezza dei due “archi” omolaterali, determinati l’uno dal braccio e dalla gamba destri e l’altro dal braccio e dalla gamba sinistri. Ad esempio, se prendiamo il bordo della fessura con la mano destra più in alto della sinistra, è necessario poggiare il piede destro in aderenza più in alto del sinistro. Questa è la posizione più stabile e meno faticosa che dovremo cercare di mantenere durante la progressione spostando per primi gli arti in posizione arretrata rispetto alla nostra direzione”.
Lo studio di Piero Villaggio
Rimandando alle conclusioni ogni giudizio sull’arrampicata di Comici e su quello che abbiamo convenzionalmente definito “Metodo Comici”, vorrei ora mettere a fuoco un ulteriore contributo di estrema validità. A maggior ragione se ci soffermiamo sul fatto che per trovare un nuovo accenno ad un metodo di arrampicata dobbiamo attendere svariati anni. A scriverlo è Piero Villaggio, nel 1969, sulle pagine della Rivista con un articolo dal titolo “Introduzione alla biomeccanica dell’alpinismo” (1969 – n°10 – pagg. 468-476). Per chi non conosce Piero Villaggio dirò che è il fratello gemello di Paolo, noto attore cinematografico. Membro del Club Alpino Accademico Italiano, Piero Villaggio è laureato in Ingegneria, è membro dell’Accademia dei Lincei, è professore emerito di Scienze delle Costruzioni all’Università di Pisa.
Prima di tutto però, cos’è la biomeccanica: è l’applicazione dei principi della meccanica agli organismi viventi. Studia cioè il comportamento delle strutture fisiologiche nel momento in cui sono sottoposte a sollecitazioni. Cosa vuol dire: vuol dire che tutto ciò che interessa il modo di rendere competitiva la nostra “macchina”, la nostra struttura, necessita di una valutazione biomeccanica in ambedue le situazioni che vanno a crearsi, quella statica e, soprattutto, quella dinamica. Spero di essere stato chiaro, andiamo avanti.
Balza subito all’occhio, nell’articolo citato, un elemento fondamentale che avremo poi modo di approfondire nella spiegazione delle varie tecniche di progressione su roccia. “Una biomeccanica dell’alpinismo è un tentativo prematuro – scrive Villaggio – e ciò per due sostanziali ragioni: primo, l’alpinismo meno di altre attività sportive si presta ad una schematizzazione puramente meccanica […] secondo, alla base di una teoria meccanica dell’alpinismo è necessario assumere come postulati una certa quantità di dati sulle capacità di sforzo e di durata dei principali gruppi muscolari interessati all’arrampicamento”. Il fatto che Villaggio considerasse l’argomento prematuro non deve meravigliare, Caruso d’altronde è riuscito in ciò che Villaggio considerava probabilmente un capitolo di difficile realizzazione e cioè quella “schematizzazione puramente meccanica” che il Metodo Caruso ha invece definitivamente introdotto. “Tuttavia – prosegue Villaggio – se queste nozioni, pur nella loro labilità, vengono assunte come ipotesi di lavoro, per la successiva teoria, esse e gli ordinari metodi della statica danno modo di dedurre alcune risposte sulla maniera più razionale di progressione. L’aggettivo razionale richiede la preventiva precisazione del senso in cui i singoli movimenti elementari […] possono essere ritenuti più convenienti rispetto ad altri”. Razionale, appunto.
Tipicità del movimento (da P. Villaggio "Biomeccanica dell'alpinismo")
Con l’introduzione del termine “conveniente” Villaggio prefigura un ulteriore elemento indispensabile a questa discussione. In altri termini la convenienza di una progressione si riassume brevemente in un singolo concetto di estrema importanza che possiamo definire, come abbiamo già visto in Comici, con il termine di economia, intesa sotto ogni forma, di ogni azione tesa al superamento di un passaggio. Aggiunge inoltre Villaggio: “Il principio di economia è anche coerente con il criterio di sicurezza; procedere con il minimo sforzo significa disporre in permanenza di una riserva di energia che può essere prontamente impiegata nelle occasioni di emergenza”. Il Metodo Caruso ha sviluppato in modo esponenziale questo concetto di base trovando il giusto connubio fra l’equilibrio del movimento e la sicurezza derivante dai termini energetici che esso comporta. Abbiamo qui registrata, quindi, una prima conferma di un qualche valore storico e cioè sia Comici che Villaggio parlano entrambi di “risparmio energetico” a distanza di circa trent’anni l’uno dall’altro. Ma andiamo per confronti:
1 – da Piero Villaggio
“Ogni passo o unità di movimento è scomposto in tre fasi, una iniziale in cui il carico è ripartito sulle braccia ed una gamba, mentre l’altra gamba, momentaneamente scarica, è poggiata nella direzione di progressione; una di partenza in cui, ferme restando le braccia, si verifica la trasmissione statica del carico sulla gamba scarica; una di arrivo che è la configurazione finale del sistema a spostamento avvenuto”
2 – dal Metodo Caruso
“Si inizia dalla posizione base con il peso distribuito su due appoggi: il bacino è sulla verticale dei piedi e le spalle sono leggermente arretrate. Se le mani sono troppo in basso, per prima cosa le solleviamo su appigli più alti. Si spostano poi i piedi con almeno tre passi, di cui il primo al centro e gli ultimi due sugli appoggi ?nali. (N.d.R: “…nella direzione di progressione” – Posizione iniziale di Villaggio). Nei passi al centro, che sono intermedi, i piedi vengono poggiati preferibilmente in aderenza, perpendicolarmente alla parete. (N.d.R: “…trasmissione statica del carico sulla gamba” – Posizione di partenza di Villaggio) Si termina l’esercizio in una nuova posizione base su due appoggi. (N.d.R: “…configurazione finale del sistema” – Posizione di arrivo di Villaggio) Durante la progressione il baricentro si sposta lateralmente da una gamba all’altra, ma anche verso l’esterno: il bacino, infatti, viene dapprima spostato in fuori per favorire l’aderenza e per permettere di vedere gli appoggi, successivamente viene riavvicinato alla parete per caricare.”
Esaminando con un po’ di attenzione questo esempio possiamo dire che Villaggio avesse già elaborato quella oggi meglio definita “Progressione fondamentale”, in particolare con due appoggi. Inoltre, come abbiamo, d’altronde, già sottolineato parlando di Comici, fa anch’egli riferimento alla posizione del bacino: “E’ interessante notare che […] il baricentro del sistema può essere […] portato sulla verticale del punto d’appoggio, in modo tale che il carico è esclusivamente sopportato dalla gamba spingente e il triangolo di equilibrio degenera in un segmento. Questa posizione di scarico totale delle braccia viene conseguita con un lieve spostamento del bacino all’esterno e una inclinazione del busto in avanti”, quel movimento dentro-fuori a cui abbiamo già accennato e che consente anche un notevole risparmio energetico delle braccia. A conferma della necessità di risparmio Villaggio prende in considerazione anche lo studio della Fisiologia Muscolare inteso come studio della funzione del muscolo che deve sopportare una serie alternata di movimenti elastici e contrattili “di cui i primi sono gli effettivi generatori dello sforzo, mentre i secondi hanno semplice funzione di trasmissione”. Si studiano, in questo contesto, le due fasi di contrazione: quella isotonica e quella isometrica, argomento del quale non possiamo, evidentemente, trattare più esaustivamente per mancanza di spazio ma che possiamo, brevemente, sintetizzare riepilogando che “il fatto caratteristico dell’alpinismo è la richiesta simultanea di contrazioni isotoniche ed isometriche: isotoniche sono tutte le azioni collegate al movimento; isometriche quelle di sostegno statico, senza spostamento”. Per chi vorrà, questa può divenire una stimolante materia di studio.
Parallelamente agli articoli di Piero Villaggio (del quale ricordo, di estrema utilità anche se non pertinenti con l’argomento, anche i contributi sulla Rivista del 1968 n° 6 “Problemi di resistenza nella “catena di sicurezza”, del 1971 n°2 “Biomeccanica dell’alpinismo su ghiaccio” e 1979 n°5-6 “La resistenza effettiva della corda sotto strappo”) mi sono valso, per questi appunti, di due ulteriori manuali, posso definirli solo così, che possono risultarci di una qualche utilità. Si tratta de La tecnica dell’alpinismo di Andrea Mellano (De Agostini 1978) e A scuola di roccia di Cesare Maestri (Garzanti Editore 1981). Il periodo storico nel quale queste pubblicazioni hanno visto la luce si presta, prima di qualunque considerazione, ad una breve precisazione che ha una sua validità storica. Si tratta cioè di sottolineare il fatto che, giovandosi delle consuetudini, in quel particolare periodo storico si usavano ancora gli scarponi. Le scarpette da arrampicata nascono, certo, nei primi anni ‘70 (era il modello EB, studiate e realizzate dall’inglese Ellis Brigham) ma ebbero inizialmente larga diffusione solo negli Stati Uniti per poi giungere, solo qualche anno dopo, nella vecchia Europa che ancora utilizzava, per lo più, scarponi rigidissimi. Scrive Maestri: “da qualche anno (N.d.R.: non dimenticate che siamo nel 1981) alcuni alpinisti tendono ad usare nuovamente scarpe con suola liscia e flessibile, il tipo di calzatura adottato prima dell’avvento dello scarpone a suola rigida”. Potete capire, quindi, che il concetto di aderenza, o forse sarebbe più esatto dire di “tecnica di aderenza”, o non esisteva perché si continuava a fare uso della rigidità della suola per sfruttare anche minimi appoggi o, nella migliore delle ipotesi per chi utilizzava già scarpette, la tecnica era ancora in evoluzione. Ciò non toglie che certi modelli di movimento non fossero già adeguatamente assimilati.
La praticità di Cesare Maestri
Il manuale scritto da Maestri non ci offre, in verità, grandi suggerimenti finalizzati allo studio del movimento. E’ più semplicemente una sintesi delle tradizioni alpinistiche del periodo, un manuale “pratico”, nato dalla grande esperienza dell’Autore che elenca molteplici tipi di progressione, tutti nell’ottica già indicata, cioè in base alla configurazione della parete: “la posizione base d’arrampicata”, “l’arrampicata in parete”, “l’arrampicata in camino”, “l’arrampicata in diedro”, “l’arrampicata su spigolo”, “l’arrampicata in fessura”, “l’arrampicata in attraversata” oltre, naturalmente, all’arrampicata artificiale.
Pur non essendovi grandi verosimiglianze con il Metodo Caruso, vi è tuttavia un elemento che, evidentemente, serviva anche per una migliore progressione con gli scarponi e cioè la posizione bassa del tallone: “gli appoggi vanno sfruttati con la sola punta degli scarponi. Mantenendo i talloni leggermente bassi, si ottiene una maggiore aderenza”. Possiamo, certo, discutere della validità di tale affermazione, nel senso che trattandosi di suole rigide pare difficile aumentarne l’aderenza con un leggero abbassamento dei talloni e, tuttavia, il riferimento all’utilità di questo particolare movimento delle caviglie è attuale e quanto mai efficace ai fini della posizione del bacino. Caruso afferma, infatti, che “se coinvolgiamo la linea di flessione e abbassiamo il tallone favoriremo l’uscita in fuori del bacino rispetto alla parete, migliorando così l’aderenza”.
Ciò che, invece, evidenzia maggiore verosimiglianza con il Metodo Caruso è la progressione in camino. Non tanto la “sostituzione mista” che già abbiamo visto in qualche modo sviluppata nelle tecniche di Comici quanto la “sostituzione” di per sé, indicata soprattutto per i camini stretti. Questo particolare tipo di progressione era, invero, già noto con il nome di “spaccata sagittale”.
"Spaccata sagittale"
Sagittale è un termine anatomico che indica l’azione tesa a dividere il corpo, o parte di esso, in parti simmetriche. Cosa dice Maestri: “si appoggiano i piedi contro la parete che presenta più asperità e la schiena e le mani contro quella più liscia. Il corpo assumerà così una posizione a squadra e potrà sfruttare l’azione di spinte contrarie”. Cosa dice il Metodo Caruso: “Poggeremo allora il bacino e la schiena su una parete utilizzando la spinta degli arti per rimanere in equilibrio e sollevare il corpo. […] Se poggiamo i piedi sulla parete di fronte a noi, spingeremo con le mani contro quella alle nostre spalle”.
Concludo, a proposito del manuale A scuola di roccia, facendo riferimento ad un elemento che come abbiamo visto è ormai usuale in tutti i metodi cioè la posizione arcuata del corpo, e sempre staccata dalla roccia, (in altre parole la posizione del bacino) che anche Maestri consiglia per ogni tipo di progressione.
La modernità di Andrea Mellano
Andrea Mellano, torinese, è anch’Egli membro del Club Alpino Accademico Italiano. Nel Suo impressionante curriculum trovano spazio un vasto numero di vie nuove ed altrettante ripetizioni fra le quali spiccano gli “ultimi tre problemi delle Alpi”, le tre Nord per eccellenza, realizzate in tempi non sospetti; nel caso della nord dell’Eiger, era il 1962, si tratta della prima salita italiana. Mellano non deve, tuttavia, essere stimato solo in funzione di queste realizzazioni “classiche”. E’ nel Suo DNA, infatti, una modernità che ha anticipato di molti anni l’evoluzione dell’arrampicata ed il movimento sociale dell’arrampicata sportiva più in generale. E’ stato infatti fra gli ideatori delle gare di arrampicata e fondatore della FASI – Federazione Arrampicata Sportiva Italiana – di cui ne è stato Presidente per lunghi anni.
Come ho già accennato, ho preso a confronto il suo libro dal titolo “La tecnica dell’alpinismo” edito da De Agostini nel 1978. Insieme a concetti già espressi come, ad esempio, anche se vi sembrerà morboso, l’utilizzo delle ginocchia per le quali chiarisce “quello che non si dovrebbe mai fare è usare nell’arrampicata diretta esterna, le ginocchia in appoggio…. Il ginocchio non possiede alcuna capacità di aderenza”, Mellano rivela sorprendenti analogie con la tecnica messa a punto da Paolo Caruso. Intanto divide le tecniche di arrampicata specifiche in “due tipi principali: arrampicata esterna e arrampicata interna”. Cosa vuol dire ………
Nell’ambito di questi concetti ribadisce posizioni fondamentali del Caruso:
– “Usando gli scarponi tradizionali, il corpo dovrà essere mantenuto di poco staccato, in equilibrio sulle punte dei piedi, le braccia leggermente flesse e le mani a livello del capo. Calzando le pedule il corpo dovrà assumere una posizione più arcuata, poiché i piedi appoggeranno piegati in aderenza sugli appoggi”,
– “Individuato l’appoggio che non deve essere troppo in alto si appoggia su di esso la punta di un piede mentre le mani si afferrano … agli appigli posti non oltre 30 cm. Sopra il capo”,
– “… facendo forza sulla gamba posta sull’appoggio con una leggera trazione delle mani si trasferisce tutto il peso del corpo su questa; alzando contemporaneamente l’altra gamba, la si porta in stazione sull’appoggio libero più in alto del primo. Il movimento … mentre gli altri tre arti sono fermi sui rispettivi appigli e appoggi”.
L’esauriente descrizione di questi concetti mi permette di non esaminarne il contenuto nello specifico. Mellano fa, altresì, riferimento ad un elemento più volte ripreso da coloro che espongono il metodo Caruso; un riferimento che ha una sua importanza, direi, nella esemplificazione didattica di qualunque metodo: la scala. Spiega Mellano: “Applicando il principio della scala … la posizione da assumere di volta in volta … è quella in cui il peso del corpo è ripartito equamente sugli arti inferiori mentre ai superiori spetta il compito esclusivo di mantenere la posizione eretta”. Va da se che l’utilizzo della scala a scopo didattico riprende concetti, ai quali fino ad ora non ho accennato, ma che paiono scontati nell’ambito di qualunque metodo e cioè quell’assunto, mai abbandonato, di ripartire il perso del corpo su quattro appoggi facendo cura di muoverne solo uno alla volta durante la progressione.
Concludo con quella che può essere considerata una raccomandazione di Mellano: “La padronanza dei movimenti e la necessaria disinvoltura, che poi vuol dire sicurezza, si acquisiscono percorrendo tutte le tappe che portano alla conoscenza della tecnica alpinistica”. Concetto che suona scontato, eppure non privo di una sua specifica importanza.
Il “Manuale pratico di alpinismo”
Termino velocemente citando passaggi di una ulteriore pubblicazione che, ad un primo giudizio, può risultare inappropriata salvo poi verificarne la validità ad un esame più attento. Insieme alle pubblicazioni che ho fin qui preso in considerazione, ho avuto il piacere di trovare, in una libreria antiquaria, un vecchio manuale del Touring Club Italiano. Fa parte di tutta una serie di manuali, compresi nella collana “Manuali pratici”, editi nel 1981, che servivano a dare un’infarinatura, così sembra all’apparenza, su ogni tipo di attività sportiva. Nel caso specifico del “Manuale pratico di alpinismo” vi sono buoni elementi per convincersi della sua bontà; non a caso testi e supervisione tecnica furono delegati a Gino Buscaini e Alessandro Giorgetta.
Nel capitolo “la tecnica di roccia” (pag. 97 e segg.) si fa subito riferimento alla componente dell’istinto, ma questa volta (come Caruso oggi) in senso critico: “dove la roccia si mostra liscia, compatta e molto ripida, le persone che riescono ancora a sfruttare d’istinto le poche discontinuità sono piuttosto poche”, occorre perciò una tecnica che serva “ad elaborare uno stile personale che deriva dall’adattamento delle regole tecniche alle proprie possibilità e alla propria conformazione”.
Buscaini e Giorgetta tornano inoltre su un elemento di cui ho già parlato, e sul quale torno volentieri. Paragonano infatti l’arrampicata alla “risalita di una scala a pioli” pur nella diversità di molti aspetti e tornano anche sul fatto che “è meglio cercare di non usare le ginocchia sugli appoggi”. Ma vi sono molti altri aspetti che avvicinano la tecnica spiegata in questo manuale con le attuali progressioni fondamentali del metodo Caruso, ad esempio: “si avrà cura di mantenere sempre il corpo in equilibrio pur facendolo oscillare per scaricare completamente il peso su una gamba quando si vuole spostare l’altra”. Ancora: “ … è meno faticoso e più sicuro effettuare alcuni brevi passettini sfruttando diversi appoggi” ed è “bene che le braccia non vengano tenute per molto tempo su appigli troppo alti (ideali sono quelli all’altezza della testa”. Dividono poi la tecnica in funzione della progressione: tecnica di aderenza, traversata, tecnica di opposizione e, cosa finora nemmeno accennata ma di assoluta opportunità, la tecnica di discesa. Fra queste tecniche vi è un aspetto che ritengo importante, l’apertura cioè a quella meglio definita posizione “omolaterale” che è fondamentale nel metodo Caruso e che Buscaini e Giorgetta fanno propria nella descrizione della tecnica di opposizione: “In parete l’opposizione potrà essere frontale quando i piedi non trovano un buon appoggio […] si avrà invece opposizione laterale quando si presenterà una preminente linea di appigli verticali. Si disporrà allora il corpo di fianco rispetto alla parete in modo da consentire a mani e piedi di esercitare forze contrapposte e quindi trazioni perpendicolari agli appigli e pressioni perpendicolari agli appoggi. Bisognerà bilanciare la tendenza del corpo a ruotare verso l’esterno tenendo quanto più possibile i piedi scostati e il fianco aderente alla roccia”.
Concludo con una curiosità, anche se molto vi sarebbe ancora da esaminare. Buscaini e Giorgetta ribattezzano, per quanto riguarda la progressione in camino, quello che abbiamo detto chiamarsi “spaccata sagittale” in “spaccata trasversale”.
Conclusioni
Molto di quanto ho scritto, e molto vi sarebbe ancora da scrivere, può presentarsi come un tentativo di indebolimento della validità del metodo Caruso. Non v’è niente di più sbagliato. Continuo a ritenere che tale metodo sia quanto di meglio sia stato fatto in termini di efficacia e di utilità per coloro che iniziano il loro percorso in funzione della tecnica di arrampicata. Prima di Caruso l’insegnamento didattico dell’arrampicata si esauriva in un semplice, ricorrente incitamento rivolto agli allievi dei corsi roccia in quei frangenti ove, misurandosi con le difficoltà dei passaggi, si trovavano in particolari difficoltà; quell’incitamento, proveniente dall’alto, diceva loro “devi tirare su i piedi”. Era, tuttavia, un incitamento che aveva, ed ha, un limite: tirare su i piedi andava, e va, bene, tutti sappiamo l’importanza dei piedi in arrampicata, ma nessuno diceva loro dove avrebbero dovuto metterli. Oggi, grazie al metodo Caruso, lo sappiamo ed è perciò un metodo assolutamente indispensabile a tutti coloro che insegnano: Guide Alpine, Istruttori del CAI e della FASI. Permane, almeno nel sottoscritto, qualche dubbio sui metodi didattici utilizzati da altre organizzazioni, e non me ne vogliano, che insegnano l’arrampicata. Su una cosa, tuttavia, non sono d’accordo con Caruso: l’intuito serve, eccome se serve. Il grande merito di Paolo Caruso è quello di essere riuscito a codificare l’arte dell’arrampicata, un arte affatto automatica. Ma molto di quello che è riuscito a realizzare era già noto e non era noto a caso. Ed era noto, non tanto grazie alle spiegazioni di Mellano, Villaggio o Buscaini per quanto autorevoli siano, ma grazie a quella dote naturale chiamata talento.
Un buon metodo, come nella fattispecie quello di Caruso, è indubbiamente un forte elemento di completamento per tutti coloro che possiedono un innato talento, eppure non è loro indispensabile. Per tutti gli altri che non fanno parte di questa categoria, me compreso, diviene fondamentale per migliorare le proprie prestazioni. Cos’altro è il talento se non l’arte dell’intuito a disposizione dell’arte dell’arrampicata?
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