“Cerro Torre e Campanile di Val Montanaia” di Roberto Masoni

Annuario 2009

Due recenti libri riaprono la discussione su due episodi controversi

Parlerò di due libri, in quest’occasione, che hanno molto in comune.
L’essermi ritagliato questo spazio sul Bollettino, spazio divenuto ormai un appuntamento abituale, ha, come molti avranno capito, un obiettivo; quello di parlare, senza presunzione, ovvio, di una materia non sempre, o se vogliamo non
Cesare Maestri in una foto degli anni '50 (foto Paolo Melucci)

proprio, seguita: la letteratura dell’alpinismo. Materia che può presentarsi faticosa ma che altro non è, più in generale, che una forma d’espressione. Meno complessa quindi di quanto si possa immaginare. Per assicurarmi l’obiettivo fissato, non potevo fare a meno di un elemento che integra qualsiasi forma di letteratura, elemento al quale non possiamo sottrarci se davvero vogliamo parlare di letteratura, ed a maggior ragione, se riguarda l’alpinismo. Questo elemento si chiama: la storia. Occuparsi cioè di quella ricerca che non può non essere legata, sostanzialmente, ad eventi che hanno una qualche rilevanza in materia e che ci permettono di riflettere, in ugual misura, delle conquiste e dei fallimenti di cui, in modo particolare, proprio la letteratura di montagna è ricca. SegnalarVi, di volta in volta, le pubblicazioni più recenti sull’argomento è quindi il pretesto.

Diciamo subito che molte di queste pubblicazioni parlano spesso di eventi già ampiamente argomentati in passato; eventi che, ai meno interessati, paiono per lo più monotoni, noiosi. Eppure se ne seguita a scrivere perché fa parte di quella ricerca di cui parlavo poc’anzi, talora noiosa è vero, eppure meritevole della nostra attenzione nonostante talvolta, e questo è un ulteriore aspetto della questione, non siano ricerche illuminate, non determinino alcun passo avanti nella conoscenza dei fatti.
Ho scelto, in questa occasione, due libri. Il primo riguarda uno di questi episodi, di cui si è già scritto e riscritto, parlato e riparlato: la vecchia questione del Cerro Torre cioè, in breve, se Maestri ha detto la verità sulla conquista del 1959. A cimentarsi con l’arduo argomento è nientemeno che Reinhold Messner. (Grido di Pietra, edizioni Corbaccio). Dico subito che, almeno per quanto mi riguarda, è un buon libro anche se, trattandosi di Messner, ho avuto più di una perplessità iniziale; perplessità nate, oltretutto, dal fatto che nel curriculum di Messner non trova spazio alcuna cima patagonica. Elemento condizionante, forse, ma che, ad una più attenta valutazione, non può essere considerato decisivo per più motivi, il più importante dei quali risiede nel fatto che sono molti gli scrittori che, nel nostro settore, pur non essendo alpinisti affermati, godono del ruolo del cronista, del ricercatore, talvolta con eccellenti risultati.
L’altro libro di cui parlerò è “La verità obliqua di Severino Casara” scritto da Italo Zandonella Callegher e Alessandro Gogna. Libro che ripercorre le tappe della conquista del Campanile di Val Montanaia e che, per la prima volta (in questo caso sì), affronta l’ormai vecchia e discussa questione se Severino Casara abbia, o non abbia, superato i celebri strapiombi nord del Campanile, come da Lui affermato.
Ostia, ragazzi … basta!”
Facciamo un passo indietro di dieci anni. Siamo nell’agosto del 1999, a Malè, “capoluogo” di quella valle che prende nome dal sole. Con Silvia Metzelin, nel ruolo di moderatrice, è stato organizzato un meeting al quale partecipa il fior fiore degli alpinisti patagonici qui chiamati in occasione dei quarant’anni della prima ascensione di quella montagna chiamata Cerro Torre. Fra costoro vi sono molti “figli del Brenta”, figli stregati dalla montagna “impossibile”; fra costoro Cesare Maestri, Ermanno Salvaterra, Elio Orlandi, Ezio Alimonta, lo stesso Cesarino Fava, nativo proprio di Malè e del quale, proprio in quest’anno, nel 1999, è uscito il libro “Patagonia, terra di sogni infranti”.
Sul palco, allestito per l’occasione, spicca un plastico del Torre a grandezza d’uomo. A turno, gli alpinisti disegnano e commentano sul plastico le loro vie di salita. Maestri, con il fido Cesarino a fianco, entra nel cono dei riflettori per tracciare la sua via del 1959. Silvia Metzelin lo introduce con abilità: “il racconto di Maestri … può essere letto in molti modi” dice. Seduto in platea, nell’oscurità, c’è Reinhold Messner, sincero ammiratore del “Ragno delle Dolomiti” sebbene i rapporti fra i due restino tesi da anni. Accanto a Messner, in attesa del racconto di Maestri, non solo i “figli del Brenta” ma anche Jim Donnini, Phil Burke, Brian Wyvill, Maurizio Giarolli, Paolo Caruso, Ken Wilson, John Bragg, altri … Tutta gente che non è lì solo per fare presenza; è una platea interessata, attenta, che vive quel particolare momento con le modalità che solo il mondo degli alpinisti conosce. Quasi fossero, per dirla con i versi del Pascoli, come tanti “cavalli normanni” che “alle lor poste frangean la biada con rumor di croste”…
A Malè, quella sera, avviene ciò che è ormai scritto avvenga. La storia non si cambia. Maestri inciampa, incespica, non sempre risponde esaurientemente alle domande postegli dall’attenta platea. Nel momento in cui, forse, si rende conto di essere caduto in una trappola, leva un grido: “Ostia, ragazzi … basta!”. Finisce qui questa storia. La storia di un uomo sovrastato da ciò che ha vissuto, nel bene e nel male. Sopraffatto, forse, anche dai dubbi personali e dai tanti processi che ha dovuto sopportare in questi ultimi quaranta, ora cinquant’anni.Mezzo secolo scandito dall’uscita di Grido di Pietra, ultimo libro di Messner in ordine di tempo, presentato il 30 aprile 2009, al 57° Film Festival di Trento. Motivo, forse, che ha indotto Maestri a non presentarsi a Trento per ritirare il premio, il “Chiodo d’Oro”, assegnato dalla SOSAT (Sezione Operaia Società Alpinisti Tridentini) all’alpinista veterano in attività.
Messner ha, secondo me, un grande merito. Non tanto quello di aver scritto un libro dove, in modo più o meno esaustivo, si ripercorrono le tappe della vicenda, quanto quello di affermare che Maestri, nel 1959, non può essere salito sul Torre perché, a suo dire, “abbiamo il dovere di dire come stanno le cose. Il primo uomo a raggiungere la cima del Cerro Torre è stato Casimiro Ferrari con la spedizione dei Ragni del 1974”. Con quest’affermazione Messner chiude anche un altro capitolo di storia alpinistica, quello relativo alla “via del Compressore”, aperta da Maestri nel 1970 sullo spigolo sud-est del Torre, a conclusione della quale, per stessa ammissione di Maestri, il fungo di ghiaccio della cima non fu scalato. C’è tuttavia, seguendo un filone logico, un ulteriore merito di Messner, quello cioè di ricercare un’interpretazione logica alle parole di Maestri, di trovare nel suo comportamento quella chiave che può dare una spiegazione dei fatti.
Uno dei chiodi di Maestri ritrovato nel primo terzo di via del Torre

Messner vede, infatti, nella cronologia dei fatti e delle dichiarazioni una regia mai rivelata, ma interessata: quella di Cesarino Fava. Sappia-mo bene quanta rivalità vi fosse in Argentina fra i due maggiori gruppi alpinistici che facevano capo a Fava e Fosco D’Altan. Tutti elementi che configuravano un certo tipo di supremazia in un paese che, per gli Italiani, era ed è un capitolo importante della storia dell’emigrazione e del contrasto fra generazioni. Potremmo andare avanti pagine e pagine, varrebbe la pena raccontare qui delle spedizioni del 1958, della rivalità fra Bonatti e Mauri da una parte e Maestri dall’altra, dei malumori che ancora covavano a quattro anni dalla spedizione italiana al K2. Restano i fatti, le indicazioni di Maestri non coincidono, sono una sequela di errori: gradi di difficoltà sbagliati, pendenze diverse, itinerari e chiodature quanto meno introvabili. Si mette in dubbio anche il fatto che Maestri, Egger e Fava abbiano raggiunto il Colle della Conquista, di fatto non esiste traccia della cordata oltre i 300 mt. dalla base. Chi vuole approfondire l’argomento, troverà ampia documentazione di ciò nel libro di Tom Dauer, “Cerro Torre, mito della Patagonia” della Casa Editrice Corbaccio.

Chiudo qui con un ultimo accenno personale. Anni fa ebbi uno scambio epistolare con Maestri su un argomento che, in questa sede, non c’è motivo di raccontare. In una lettera, stesa a mano, mi scrisse sostanzialmente “Carissimo Masoni … vorrei cancellare dalla mia vita il Torre … gradirei essere ricordato per le mie vie in Dolomiti che sono il mio vanto ed il mio orgoglio maggiore”. Poco tempo dopo, pranzammo insieme, ospiti della squisita cortesia di Giancarlo e Olga Dolfi; Maestri mi ripetè le stesse cose. Per quello che può valere, anch’io la penso come Messner anche se, credo, sia ormai ora di chiudere questa storia, non fosse altro per onorare la memoria di Toni Egger. Rimane un ultimo dubbio che probabilmente non sarà mai svelato: dalla discesa di Fava al ritrovamento di Maestri passano sette giorni, se Maestri ed Egger non hanno scalato il Torre, cos’hanno fatto e perchè?
Pensando a Maestri non posso far altro che ripensare ad alcuni versi di Ugo Foscolo: “Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo […] e mentre guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge”.
La verità obliqua di Severino Casara
Contrariamente al Torre, le cui storie credo, tutti conoscano, ritengo, invece, opportuno prima di qualunque riflessione, riepilogare, i termini della questione che riguarda Casara dalla quale nasce il libro di Zandonella e Gogna..
Severino Casara nasce a Vicenza nell’aprile del 1903. Denota subito grande confidenza con la roccia e, di conseguenza, con l’arte dell’arrampicata. Nel suo curriculum un lungo elenco di vie nuove, talvolta con compagni di cordata d’eccezione fra cui Emilio Comici. Nodo rilevante della sua attività in montagna sono gli strapiombi nord del Campanile di Val Montanaia, anche se vale la pena ricordare come non sia indifferente il contributo dato da Casara nel settore cinematografico così come in quello letterario.
Il Campanile di Val Montanaia

Veniamo al libro. Nell’ottobre del 1913, cinque alpinisti effettuano un tentativo agli strapiombi nord del Campanile di Val Montanaia. Si tratta dei fratelli Berto e Paolo Fanton, della sorella Luisa, di una guida di Tires, Franz Schroffenegger con il cliente Otto Bleier. E’ necessaria una piramide umana per piantare un primo chiodo, a fatica riescono a battere altri tre chiodi in posizione più alta rispetto al primo, poi un quinto. Passano negli anelli uno spezzone di corda grazie alla quale superano un tratto orizzontale, liscio, privo di appigli; cinque, sei metri che consentono prima a Berto e poi a Schroffenegger di “toccare” lo spigolo definito “a Sega”. Sono sfiniti, due giorni per riuscire a superare un tratto di parete di non più di 7/8 metri!

Il 3 settembre 1925 giunge ai piedi degli strapiombi Severino Casara. Rientrando, il giorno successivo, al Rifugio Padova, in forte stato emotivo, dichiara di aver superato, in solitaria, gli strapiombi nord. Dichiara inoltre di aver lasciato traccia del suo passaggio sul libro di vetta del Campanile e stila una relazione della via. Nasce qui, la “questione” Casara. Una questione che occuperà, per molti anni, le attenzioni di molti alpinisti, anche famosi. La relazione è palesemente errata, la pubblicazione dello schizzo sul volume “Alpi Orientali” del Berti scatena forti polemiche. Passano alcuni anni. Il 14 settembre del 1930 altri alpinisti si avvicinano agli “strapiombi nord”. Fra costoro una cordata di assoluto valore composta dal fior fiore dell’alpinismo italiano del momento: Attilio Tissi, Giovanni Andrich e due Accademici: Attilio Zancristoforo e Francesco Zanetti. Tissi e Andrich hanno ripetuto, pochi giorni prima, il 31 agosto, la Lettembauer-Solleder al Civetta.
(Apro una veloce parentesi che non mancherà di riaccendere i sospetti sulla mia antipatia nei confronti degli alpinisti di lingua tedesca dell’epoca. Dopo aver già accennato, nello scorso numero del Bollettino, di quella che nutro nei confronti di Harrer, non perdo l’occasione per manifestare apertamente anche quella nei confronti di Emil Solleder. Fra i due c’è un abisso di valori tecnici, Solleder, a parte tutto, è stato veramente un grande alpinista eppure anch’egli, dopo essersi ritrovato su un piatto d’argento la parete nord ovest del Civetta, piatto portogli da Lettembauer – per questo seguito a definirla, contrariamente a tutti, la Lettembauer-Solleder e non viceversa –  non si lasciò mancare l’occasione per affermare come quella via fosse “troppo difficile per gli italiani” tanto che, a suo dire, non l’avrebbero mai ripetuta. Beh … Tissi e Andrich non solo ne fecero l’ottava ripetizione ma ne realizzarono anche la prima ripetizione in giornata. Non solo, è degli italiani Ignazio Piussi e Giorgio Redaelli con Toni Hiebeler la prima ripetizione invernale ed è, concludo, di un italiano la prima solitaria, Cesare Maestri (per l’appunto), come pure la prima solitaria invernale, Marco Anghileri. Della serie: “a star zitti si guadagna un tanto …”. Stop.)
Dunque, Tissi e Andrich tentano di ripetere la via di Casara al Campanile. Non ci riescono, dichiarano impossibile passare dove Casara ha dichiarato di essere passato. Superano comunque gli strapiombi nord ma senza “toccare” lo spigolo a sega, seguono una linea ben diversa, più verticale, che si ricongiunge con la Casara sopra i grandi tetti. Scoppia la polemica. Tissi investe Francesco Terribile, Presidente della Sezione del CAI di Belluno, di farsi promotore della protesta nei confronti di Casara. Terribile scrive al Berti denunciando, anche con fotografie scattate sul luogo, che “… nessuno … può aver fatto il percorso [di Casara n.d.r.] …, né nessun arrampicatore, per quanto dotato di mezzi eccezionali, avrà la possibilità di superarlo in avvenire”. Berti invita Casara ad una riunione alla quale partecipano anche quattro Accademici del CAI: Gianni Cabianca, Gino Priarolo (Presidente e Vice Presidente del CAI Verona – a Priarolo sarà, ed è tuttora intitolata, la Scuola di Alpinismo dell’omonima sezione nata nel 1952, pochi mesi dopo la nascita della Tita Piaz di Firenze) Marcello Canal e Cesare Capùis.
Casara sostenne che la parola data da un alpinista poteva bastare e sostenne anche, secondo me peggiorando la situazione, di aver realizzato l’impresa senza scarpe, solo con “due grosse paia di calze di lana” tanto che alla fine “… i piedi sanguinavano dalle scalfitture. Le calze strappate lasciavano uscire le dita dai piedi”. La lana? Come si fa a fare un traverso visibilmente liscio con l’aderenza della lana? Pochi giorni dopo altri forti alpinisti si cimentano con la “via Casara”; si tratta di Tita Piaz, Luigi Micheluzzi, Vittorio Cesa de Marchi, ancora due Accademici come Raffaele Carlesso e Francesco Maddalena. Provano con la corda dall’alto, l’opinione di Piaz è: “Ritengo la salita da solo e nel modo spiegato da Casara praticamente impossibile”. E, come in altre occasioni, anche il Club Alpino Italiano entrò nel gioco con l’allora Presidente Generale, avv. Angelo Manaresi, già Podestà di Bologna e Presidente dell’Associazione Nazionale Alpini che pregò Berti di occuparsi della faccenda non tollerando che “in polemiche di carattere personale [fosse] trascinato il Sodalizio”, sottolineando come il buon nome del CAI richiedesse, nel caso, “quei provvedimenti che sarà il caso di prendere”. Accidenti … proprio altri tempi. Non si spensero i veleni, si vociferò infatti che vi fossero altre due vie sulle quali Casara avesse detto il falso, due solitarie: una alla Torre Delago e l’altra alla Pria Favella sul Pasubio. Ma anche una variante alla parete sud della Croda Bianca (in solitaria ovvio), alla parete nord del Sassolungo di Cibiana e sulla prima allo spigolo sud-est del Baffelan. La polemica produsse un primo effetto immediato: Severino Casara dette le dimissioni dal Club Alpino Accademico Italiano, caso unico per quanto ne so.
Dovremmo qui aprire un nuovo capitolo. Certo è, che su un argomento come quello delle solitarie, i pareri si sono sempre sprecati. Il mondo degli alpinisti è indubbiamente un mondo difficile, un mondo che, in molti casi, tende a trasformarsi e che, pur dando per scontato che la parola di un alpinista è sacra, non riesce a superare le diffidenze, i sospetti. E questo a tutti i livelli. Anche nel “nostro piccolo” vi sono state, senza offesa per alcuno beninteso, diffidenze sulle solitarie di Marino Fabbri, fondatore della Scuola di Alpinismo Tita Piaz. Sì … è un mondo difficile.
La presunta omosessualità di Casara
Più di un accenno è dato, nel libro, a questo argomento. Un’omosessualità, quella di Casara, peraltro mai dichiarata. E’ pur vero che gli aneddoti a riguardo sono molti, che gli episodi, gli scritti che riconducono a questa possibilità si sprecano, ma è altrettanto vero che i personaggi a cui, nel tempo, è stato accostato Casara l’hanno sempre negata. Non ultimo, anche Emilio Comici che, in più di una lettera, ha sempre pregato l’amico Severino di non tener conto delle maldicenze. Segno tuttavia evidente che maldicenze erano nate. E’ tuttavia opportuno spiegare che questo dubbio pesa molto nelle vicende di Casara ed incide nella misura in cui un omosessuale, negli anni 30, non era molto ben visto da un ambiente maschilista per eccellenza come quello alpinistico, del CAI in particolare. Possiamo allora dire che tutta la vicenda strapiombi nord sia dipesa da ciò? Forse nel contesto generale hanno pesato molto le parole che, sotto il profilo tecnico, sono state spese dal fior fiore dell’alpinismo italiano, ma penso anche che, se non tutto, almeno in parre, questo aspetto abbia molto influito nel giudizio. C’è un bel libro edito da Vivalda della serie “I Licheni”, che s’intitola La via d’uscita – Confessioni intime di un alpinista estremo. A scrivere il libro è Marc Batard, grande alpinista, guida alpina di Chamonix, primo recordman di salita all’Everest tanto per dirne una, che non molti anni fa ha dichiarato, e lo si legge nel libro, di essere omosessuale raccontando anche i vari problemucci che tale confessione ha comportato, per se e per gli altri. E siamo negli anni 2000. Pensate ai problemi che deve aver avuto Casara cinquant’anni fa.
Concludo, dicendo che, soprattutto per gli amanti della storia, il libro di Zandonella/Gogna è veramente un buon libro. La documentazione è formidabile, la ricerca storica fuori dal comune. Veramente un bel lavoro …
 

 

Condividi questo articolo attraverso i tuoi canali social!

Lascia un commento