“Crinali, storie di montagna e di montagne” di Giorgia Contemori

Gennaio 2008

 

Storia di montagna e di montagne, nate non solo dalla fantasia e dal desiderio, storie vere di uomini – e donne- che hanno riempito la loro vita e quella degli altri di esperienze, avventure, prima di tutto passione. Storie che hanno contribuito al modellare un immaginario collettivo, e che permettono di riflettere. Persone che hanno radicalmente influenzato i modi di pensare e di vivere a quanti sono stati loro accanto, nelle esperienze , nella vita. Persone che hanno partecipato e collaborato attivamente allo sviluppo di attività e pratiche nella vita sociale del CAI –e non solo- dove  spiccata è la sensibilità per la natura, l’ambiente, l’uomo e la qualità del suo vivere. Attraverso alcune esperienze è possibile riflettere sulla montagna e come praticarla, sulla natura e come alimentare il desiderio di sperimentarsi. Firenze si permette adesso diversi luoghi di incontro, più o meno ricorrenti, tra i partecipanti al mondo del CAI, e un mix con altri arrampicatori, escursionisti, giovani ed adulti.

La Redazione del bollettino ha pensato di entrare a contatto con i  molti partecipanti a questo variegato mondo, non tanto per raccontare vicende e chiuderle dentro qualche identità definita, farne definizioni o campanili più o meno alti. Nessun confine, molti luoghi, un amore comune. Parlare di amore è sentimentalismo? Forse, ma partire da un bene comune, può permettere di comprendersi meglio e limitare differenze che altrimenti viste da singoli diventano insormontabili. Perché in fin dei conti è patrimonio di tutti l’immagine della cordata come simbolo di una intesa e di una prossimità che, dove gli ostacoli sono molti, diventa necessaria. E’ un simbolo che può appartenere a tanti, anche andando con altri strumenti e senza corda. Abbiamo pensato ad uno scambio di idee, al raccontarsi delle storie a più voci, parlando di quello che è stato fatto, domandandoci la direzione da prendere per andare dove. Da questo l’incontro con due protagonisti, assai diversi tra loro , Carlo Barbolini e Nicola Pesciulli. Il testo sarà una discussione, volutamente meno tecnica di quanto potrebbe risultare dalle loro esperienze, più personale e rivolta, appunto,  a riflettere. Li seguo nello svolgersi del discorso, la mia esperienza è oggettivamente recente, molto teorica, ma posso anche pensare così, di constatare meglio che posso quanto pesa la suggestione ed il fascino dei racconti. Parto da un’idea che ho: il rapporto uomo-montagna è ancora lontano dall’approdo ad un punto finale, e questo può essere assai positivo nello scenario delle nuove discipline, degli exploit sportivi. E poi: si può stimolare la competizione in senso positivo?

C.Barbolini: Quanta etica c’è nell’andare oggi in montagna e come viene accettata dipende molto dalle scelte personali. Per me oggi, come sempre, è molto attraente l’ambiente più che la difficoltà in senso stretto. Molti praticano in contesti sportivi (palestre, bulder) l’allenamento a difficoltà per vincere la difficoltà stessa e superarne il limite. La competizione c’è sempre e comunque. E credo di non poterla escludere perché è costante nelle mie attività, la considero positiva e stimolante, quella componente essenziale che permette in ultima analisi di vincere l’inerzia di certe imprese. Non è di per se negativa, dipende da come la si pratica. Ho sempre apprezzato l’alpinismo classico, ho iniziato ad arrampicare nel ’70 e la mia formazione è passata – teoria e pratica- attraverso maestri,  compagni ed esperienze che hanno mirato ad un rapporto con l’ambiente montagna. Spesso certe imprese sono state compiute nella ricerca di una “logica” dell’ambiente, non solo quindi nella ricerca della difficoltà e della risoluzione del pericolo.

 

 

Carlo Barbolini - Iscritto al CAI dal 1970, all’età di 14 anni. Dal 1980 Istruttore Nazionale di Alpinismo. Dal 1981 membro della Scuola Centrale di Alpinismo di cui ne è stato Direttore. Dal 1989 membro del Club Alpino Accademico Italiano di cui ne è Vice Presidente del Gruppo Orientale dal 2005. Membro del Corpo Nazionale Soccorso Alpino.

N.Pesciulli: Quanta differenza c’è nel salire 2 metri oppure 500? Gli spazi di gioco sono infiniti, ognuno di noi sceglie una strada e  il proprio terreno di gioco. Cerca nel suo piccolo di dare il massimo. La prima volta che ho preso una corda in mano ero un ragazzino, presa di nascosto per andare via con l’amico del cuore,” su andiamo, su andiamo a scalare”. E così ci  siamo ritrovati attaccati in parete, con una corda di canapa legata in vita a 10 metri da terra. Era il nostro momento, ci sentivamo alpinisti … chissà? Gli alpinisti a Firenze erano un gruppo  ristretto, i materiali non erano certo quelli di adesso: a noi mancava l’attrezzatura e così l’otto, per scendere in doppia, si è costruito in officina. Ero pronto per qualsiasi impresa. Ricordo con molto piacere quei magici momenti, gli occhi erano sempre in cerca di qualcosa da salire, in quel modo avevano il nostro terreno di gioco. Ma le ferie purtroppo finivano e quando si tornava in città il terreno di gioco, giorno dopo giorno svaniva,  prendeva il sopravvento il ricordo. Per fortuna c’era Maiano!

C.Barbolini: Esiste un vuoto generazionale di 35-45 enni assenti dalla scuola, tra gli istruttori. Io ho il grande rammarico di non aver fatto quanto altri hanno fatto per me! Ho cominciato a 15 anni ed alcuni hanno scommesso su di me, mi hanno seguito, mi hanno fatto partecipare alle loro attività. Mi sono reso conto che, arrivato ad un certo tipo di esperienza, io non ho fatto la stessa cosa ed ho investito tutto il mio tempo solo con pochi affiatati amici. E’ vero che negli anni ’80, dopo aver ottenuto il titolo INA (Istruttore Nazionale di Alpinismo), sono poi entrato nella Scuola Centrale di Alpinismo. Nel 1989 ho ricevuto il titolo di Accademico e poi Vice Presidente delle Orientali. Fino al novembre 2005 sono stato impegnato all’interno della scuola centrale e per questo forse è rimasto in secondo piano il rapporto con i giovani della realtà locale. Penso però che adesso ci sia un grande interesse per l’agonismo, per la performance sportiva. I ragazzi, se hanno del tempo libero, non vanno in Apuane, ma corrono ad allenarsi sulle difficoltà delle falesie (Candalla etc). Cosa certamente molto utile:  ma io scappavo a fare la Oppio per allenarmi sulla resistenza e la velocità!  L’allenamento oggi è sul bulder, in casa, c’è chi dice che alcune falesie sono scomode perché ci sono 15 minuti di avvicinamento.

N.Pesciulli: Ho deciso poi di iniziare ad arrampicare per poterlo fare quando volevo e non solo nel periodo delle ferie. Ma le montagne erano troppo grandi e quando ho scoperto la falesia, che non sapevo neppure cosa fosse, mi sono entusiasmato provando e riprovando. 6°, 6b e poi su sempre più su, l’obbiettivo era diventato il cercare sempre più la difficoltà. A Firenze non esisteva nulla , ma occorreva fare qualcosa. Con una rivista specializzata, dove era spiegato come costruire un “muro artificiale” sono iniziti quei lavori dai quali è nato il primo muro di Firenze: era il 1993. Il nostro ritrovo del martedì e giovedì  era il nostro nuovo terreno di gioco: trazioni, sospensioni, pesi e magnesite. “Io faccio 5 trazioni, io 6 “e cosi via. Era  bellissimo avevamo un nostro spazio anche se piccolo. Un bel giorno ho scoperto il Monte Bianco, sublime, maestoso, elegante ma severo. Il terreno di gioco è cambiato ancora una volta. Sempre per salire. Nuovi compagni di avventura, nuove esperienze ma le sensazioni, più o meno intense, sempre le stesse. L’obiettivo era sempre quello di arrivare in cima ad una via, ad una montagna, oppure ad un sasso.

 

 

Nicola Pesciulli - Fa parte della Scuola di Alpinismo Tita Piaz dal 2002. Dedito inizialmente all’arrampicata sportiva ha poi conseguito il titolo di Istruttore di Alpinismo nel 2005.

C.Barbolini: Da noi non è diffuso il riconoscimento a chi pratica l’alpinismo. Si deve fare ancora molto per assegnare il giusto valore al di fuori di ambiti ristretti, occorre lavorare ancora per diffondere un corretto atteggiamento e praticarlo. Oggi anche la grande evoluzione dei materiali e lo sviluppo tecnologico consentono di ampliare sempre di più la pratica in ambienti prima assai rischiosi e accessibili  solo a pochissimi esperti. Pensiamo ad esempio alle cascate di ghiaccio: frequentarle ha permesso di passare poi, con questa esperienza, alle grandi vie classiche di ghiaccio, ed i materiali sono stati subito utilizzati sulle grandi pareti nord. Inoltre il miglior allenamento e le dotazioni tecniche arricchiscono l’approccio complessivo alla difficoltà: così molti, più di prima, se preparati e veramente interessati, possono spingersi verso limiti considerati finora difficilmente superabili. E così torniamo sulla  competizione che sta in noi, perché è fondamentale quanto conta per noi stessi quello che si fa, quanto ci interessa e fino a dove è possibile spingersi. Ho vissuto molte esperienze e mi sono costate molto sul piano personale, ma sono andato sempre nella direzione che ho scelto. Per me l’alpinismo è un piacere, un divertimento. Non ho voluto che diventasse un lavoro perché altrimenti ne avrei perso tanti aspetti che per me sono fondamentali. E  poi gli accademici per statuto non possono essere dei professionisti in questo campo (Guide Alpine).

N.Pesciulli: Non  mi sento un alpinista e nemmeno un arrampicatore. Non mi piace pensare schematizzare e suddividere in compartimenti tutte le discipline legate all’arrampicata.Questa passione ci permette di vivere intensamente momenti più o meno brevi cercando di dare il massimo sempre e comunque, sia su un sasso che in una parete di mille metri. Mi chiedo come mai al Mandela i giovani non ci sono. Dove sono ? Come mai dopo i corsi nessuno resta? Forse è mia la colpa perché non sono stato in grado di trasmettere il piacere che provo davanti alla roccia ?  Ed il CAI  se si domanda questo, che risposta si da? Una cosa è certa:  i giovani vanno dove ci sono altri giovani, questo dovrebbe far riflettere e sicuramente permette di porsi delle domande. E noi cosa facciamo realmente? ci limitiamo a fare cassa e a portare un gruppo di persone sul ghiacciaio per fargli vedere che siamo bravi e abbiamo un sacco di carabattole attaccate all’imbracatura? Non capisco il CAI … é potente ed ha le spalle grosse, nonostante tutto i giovani non ci sono. Perché non cerchiamo le cause? perché non possiamo fare un gruppo sportivo per i giovani, per far loro conoscere  l’arrampicata sportiva? Chissà magari qualcuno potrebbe anche appassionarsi alla montagna! Se i giovani non vanno al CAI, proviamo a portare il CAI dai giovani: i tempi sono cambiati bisogna cercare di adeguarsi, non si può parlare solo di alpinismo dei primi del 900 .

Questa conversazione  si chiude così con molti ed interessanti stimoli. Abbiamo lasciato ad altri spazi gli approfondimenti sulle esperienze di Carlo e Nicola. Guardando positivamente al futuro, resto semplicemente in ascolto, in un punto di vista non allineato, eppure non insolito. Scrive Erri De Luca: ”…le montagne erano come briciole sopra una tovaglia increspata. Tutte le civiltà le hanno ignorate. Gli scalatori le hanno rese gigantesche. Le montagne sono opera loro”.

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