Gennaio 2008
Dal 6 al 10 luglio 1958, quattro alpinisti tedeschi riuscirono in un’impresa sognata da molti e che ancora oggi fa discutere: la Hasse-Brandler alla nord della Cima Grande di Lavaredo. Ripercorriamone insieme la storia e le polemiche.
C’è una tendenza diffusa nell’ambiente alpinistico, quella del celebrare. Una lieve seduzione, talvolta così piacevole, da risultare spesso irrinunciabile ed, in talune circostanze, tanto da trasformarsi inconsapevolmente in autocompiacimento. Negli anni ho notato, almeno mi sembra, due atteggiamenti diversi nei confronti di tali ricorsi: l’uno critico, l’altro condivisibile. Personalmente non ne ho mairicavato alcun fastidio, tuttalpiù, a qualcuno di essi, non ho prestato l’attenzione che magari avrebbe meritato. Per rimediare a ciò evito di sottrarmi a quelle che, nel corso del 2008, diventeranno importanti celebrazioni.
Conclusosi il 2007 con quella che ha visto protagonisti l’affascinante muraglia della nordovest del Civetta e la coppia Walter Philipp e Dieter Flamm, che qui tracciarono, nel 1957, una via, il celebre diedro, dalla bellezza estetica incredibile, il 2008 si apre, secondo me, con un’altra grande parete dolomitica che reclama il suo spazio: la nord della Cima Grande di Lavaredo. E’ qui infatti che, nel luglio 1958, fu aperto un itinerario che, stando ai critici più severi, segnò veramente una svolta epocale nel modo di concepire, ed consapevolmente di realizzare, un alpinismo che mostrava tutti i segnali di un cambio nella filosofia del progredire in parete. A causare tutto ciò fu l’uso, anche se per niente incondizionato, del chiodo a pressione; una scelta che non poteva non scatenare accese polemiche. Ma prima di svelarne i tratti essenziali – vi prego un attimo di pazienza – debbo ricordare un retroscena che ha la sua importanza in questa formidabile storia che ha per interprete principale questa dominante ed, ai più, impalpabile parete.
Nell’autunno del 1956 due giovani alpinisti risalgono lentamente le ghiaie che portano ai piedi della nord. Sono forti, audaci, ambiziosi almeno quanto il loro indiscusso talento. Fanno parte di quel prestigioso Gruppo che ha segnato pagine indimenticabili di storia alpinistica: gli Scoiattoli di Cortina. I due giovani si chiamano Candido Bellodis e Beniamino Franceschi. Sanno bene, salendo alla base della parete, che la nord è considerata impossibile ma nei loro animi c’è il ricordo di Nino Oppio e Serafino Colnaghi. Anche la sud del Croz dell’Altissimo era considerata impossibile eppure, contrariamente ad ogni previsione, Oppio e Colnaghi hanno saputo tracciare su quelle levigate placche una via di incredibile modernità e bellezza. Candido e Beniamino attaccano la nord al centro, esattamente nel punto che contiene meno alibi ma, oggi lo possiamo ben dire, nel punto considerato meno propizio alle conoscenze alpinistiche dell’epoca. Salgono un’ottantina di metri sopra le ghiaie, hanno con se anche chiodi ad espansione, insomma … chiodi a pressione. Chiodi che, giunti alla sommità di un pilastrino, decidono di non usare per progredire. Si ritirano, non possono prevedere che di lì a poco, quella stessa estate, un certo Dieter Hasse, studente di Berlino ovest, avrebbe messo gli occhi sulla stessa linea di salita.
Nell’agosto del 1957, pochi giorni prima che Philipp e Flamm iniziassero la loro avventura sulla nord-ovest della Civetta, Hasse torna al Locatelli con il compagno Peter Voigt. Convinto che una sola cordata sia insufficiente per una parete come la nord, Hasse recluta Willi Zeller e Toni Reiter ospiti nello stesso rifugio e mai conosciuti prima. Il 3 agosto 1957 giungono ai piedi della parete, passano accanto al punto d’attacco del fallito tentativo dei cortinesi e decidono di attaccare più a destra. Si alzano per diversi metri, Hasse e Zeller si alternano al comando fin sotto un marcato tetto. Lo superano e decidono che Voigt e Reiter si calino in doppia per raggiungere il vicino rifugio. Hasse e Zeller bivaccheranno in parete sulle amache in attesa che, il mattino seguente, i due compagni portino loro cibo e generi di conforto. Fatto nuovo per l’epoca che pare segnare, con circa dieci anni di anticipo, quasi una primordiale paternità di quella che diverrà una caratteristica costante dell’ alpinismo californiano di fine anni ‘60. Reiter non sta bene, rinuncia. Voigt risale le corde fisse fino a raggiungere i compagni. Ripartono per il quinto tiro, i primi quattro sono già sotto di loro, ma trovano grandi difficoltà a forare con il punteruolo questo tipo di dolomia particolarmente duro. A malincuore devono rinunciare, bivaccano di nuovo in parete e la mattina seguente si calano ai piedi della grande muraglia. Il primo assalto è fallito ma ha consentito un discreto bagaglio di conoscenze.
Il loro tentativo ha suscitato grande scalpore, arrivano in zona altri alpinisti: due cordate vengono da Lecco, altre provengono dalla vicina Cortina dove si è improvvisamente risvegliato un certo interesse per la Grande, altre arrivano dalla Germania. Non c’è un minuto da perdere, siamo già a fine agosto. Hasse e Voigt, come nella precedente occasione, fanno amicizia con due alpinisti arrivati al Rifugio Locatelli; si chiamano Siegfried Low e Jorg Lehne. Siamo già ai primi di settembre, i quattro si alzano a fatica lungo le corde fisse poste in parete, il tempo è micidiale, raggiungono la sosta al termine della quarta lunghezza di corda. Dopo un bivacco segnato dal gelo decidono di porre fine a questo nuovo tentativo. Per quest’anno è finita.
Ai primi di luglio del 1958 Hasse torna al Locatelli. Con lui c’è un certo Lothar Brandler, installatore di funivie di professione e perfetto rocciatore. Insieme a loro anche Low e Lehne. E’ proprio Lehne a suggerire la strategia da adottare, saliranno due distinte cordate: la prima, formata da Hasse e Brandler attaccherà con un giorno di anticipo; la seconda, formata da Lehne e Low, gli seguirà il giorno seguente. Si rivelerà una strategia vincente. Resteranno in parete cinque giorni complessivamente. Brandler e Hasse daranno prova di grande capacità su una parete dove tetti e strapiombi sembrano non risparmiare i pochi audaci che accettano la sfida, riusciranno a superare tutte le difficoltà, tutte le trappole che la nord ha preparato per loro. Il 10 luglio 1958, dopo quattro bivacchi, i quattro alpinisti escono in vetta alla Cima Grande. Una delle più grandi conquiste alpinistiche del secolo scorso è giunta a termine. La Hasse-Brandler (come comunemente viene chiamata dimenticando troppo velocemente la presenza ed il contributo dato da Lehne e Low), la “Direttissima” alla nord della Grande è una realtà.
Non termina qui invece la nostra storia. Vale la pena accennare, non fosse altro per tentare un approfondimento di cultura alpinistica, alle polemiche che l’uso dei chiodi a pressione causarono. Polemiche non molto diverse, guardate, da quelle che oggi si nutrono e si alimentano dall’uso degli spit che altro non sono se non i discendenti del chiodo a pressione. Polemiche che, all’epoca, verrebbe naturale pensare sarebbero state mosse dagli ambienti alpinistici italiani e che invece, inaspettatamente ma fino a un certo punto, vennero alimentate anche da quelli tedeschi. Berg Echo, un periodico del Soccorso Alpino Germanico, parlò senza mezzi termini dell’uso di mezzi elettrici ed, a tale proposito, che “questa tanto discussa direttissima … non ha in realtà nulla da fare con l’alpinismo”. Su Der Bergsteiger, altro organo competente, scrissero che “ciò che oggi vien fatto in parete nel campo dell’artificialismo non può più essere definito “arrampicare”. Sulla Hasse-Brandler erano stati messi 180 chiodi, di cui 14 ad espansione. E in Italia? Sicuramente Bellodis e Franceschi avevano abbandonato il loro tentativo proprio per non voler usare i chiodi a pressione, facile quindi capire l’antipatia nei confronti dei tedeschi. Molta stampa al di là delle Alpi si chiese come, già nel 1957, fosse stato possibile parlare nell’ambiente cortinese di “pistole elettriche”, termine creato peraltro dallo stesso Lacedelli, sottovalutando, credo, il fatto che comunque le pareti di casa erano tenute sott’occhio, a maggior ragione quando nelle loro vicinanze si presentavano cordate “straniere”. Sia Bellodis che Franceschi, nel 1958, si erano portati sotto la parete ad osservare i progressi della cordata di Brandler. Ma ciò rientrava abbastanza nella normalità, almeno a quei tempi. Franceschi, in arte “Mescolin”, rispondendo ad un’intervista pubblicata sul volume, edito nel 1989, sulla storia degli Scoiattoli, dichiara come lui e Bellodis erano “scesi pur di non forare artificialmente la roccia. Quando sono arrivati i tedeschi non abbiamo detto nulla, solo, volevamo che loro stessero alle regole e, per noi, la regola principale era quella di non usare i chiodi a pressione. Ricordo che durante la loro salita sono andato cinque volte sotto la nord per osservarli e quando ho visto che usavano il perforatore allora sì che mi sono sentito derubato! In quel modo chiunque avrebbe potuto salire, era sleale”. Da parte sua Bellodis dice che “Con la Hasse-Brandler le cose cambiarono … da quel momento il fronte del no ai chiodi a pressione fu meno forte … non si trattò di una vera crisi, ma piuttosto di un momento di evoluzione”.
Ecco finalmente la parola magica: evoluzione. Termine che significa crescita, sviluppo, progresso. Si può considerare il chiodo a pressione un’evoluzione dell’alpinismo? Mah … certo nelle parole di Franceschi si percepisce come, se lui e Bellodis avessero voluto, anche quella parete sarebbe stata vinta dagli Scoiattoli. Certo avevano il talento e l’ingegno per farlo. Semplicemente, a quanto ci è dato sapere, non lo fecero e considerarono sempre sleale quello che Brandler e compagni portarono a compimento. Certo è che nel 1959, solo l’estate successiva, proprio gli Scoiattoli aprirono due itinerari di alta difficoltà alla Cima Ovest nei quali fecero largo uso di chiodi. Uno fu la conquista di quello spigolo, poi chiamato, appunto, lo Spigolo degli Scoiattoli nel quale impiegarono 190 chiodi; l’altro fu l’apertura della direttissima, con il contributo di due alpinisti svizzeri, nel quale ne impiegarono 370. Cesare Maestri che realizzò la prima ripetizione della Hasse-Brandler non ebbe dubbi a dichiarare come “i tedeschi avessero rinunciato ai mezzi artificiali ogni volta che avevano trovato un tratto superabile in libera, pur sfiorando talora i limiti dell’impossibile. … l’uso del trapano per altro non è più compromettente di quanto possa esserlo quello di un buon vecchio chiodo, arrugginito e tradizionale”. Le vicende del Cerro Torre, pochi anni dopo, confermeranno la vocazione di Cesare al trapano.
Concludo qui lasciando ai lettori ogni riflessione personale. Nel prossimo numero parleremo di altre due conquiste che compiono oggi 70 anni e che rivestono nella storia dell’alpinismo un’importanza sostanziale. La prima salita dello Sperone Walker alle Grandes Jorasses portata a termine da Riccardo Cassin, Ugo Tizzoni e Gino Esposito e quella di cui ho parlato in tanti miei incontri, la conquista della parete nord dell’Eiger, salita per la prima volta dal grande Anderl Heckmair in compagnia di Ludwig Vorg e due alpinisti austriaci.