Annuario 2009
Il crinale tosco-romagnolo
Dopo 5 minuti di cammino, siamo già in zona popolata di cervi. Arrivando da Firenze, si attraversa Stia diretti verso il Passo della Calla, si oltrepassa Papiano Basso e si prosegue fino al chilometro 12; qui, a una piazzola di fronte a un capannone, si parcheggia e ci si avvia a piedi; all’inizio del sentiero n° 78, dopo poche centinaia di metri, si attraversa un rimboschimento dove è possibile incontrare dei cervi al pascolo; per favore non disturbateli e continuate verso l’agriturismo di La Chiusa e poi su verso il Poggio La Mazza.
La meta di questa «indagine cartacea» è il crinale dell’appennino tosco-romagnolo: da Badia Prataglia a poggio Scali, dal passo della Calla al monte Falterona è tutto un regno della natura. Siamo nel pieno del «parco delle foreste casentinesi» che, dopo anni di attesa, ora ha fatto carriera e dal 1989 è parco nazionale; la quota dello spartiacque va dai 1200 ai 1650 metri, il panorama è sempre apertissimo verso le province di Arezzo e Forlì: verso la Romagna scendono ripide creste e vallate strette e profonde, anche un po’ franose, mentre il versante toscano è decisamente meno impervio, in particolare nel settore casentinese che si abbassa con dolci pendii fino al larghissimo fondovalle percorso dall’Arno. Dicevamo, a La Chiusa si inizia a salire più decisamente (attenzione, questo tratto è anche percorso per le MTB), si superano le case Volta all’Acero — si passa proprio sulla vecchia aia dei contadini — il sentiero nel bosco sale, si superano i mille metri, si prosegue verso il Poggio La Mazza, si sale verso il Poggio Acerone e il bosco si fa più fitto. I cervi non si fanno più vedere né sentire, in breve si arriva al crinale tosco-romagnolo, che coincide con il Passo Porcareccio, a 1400 metri.
1 – la riserva
A questo punto, dirigersi verso destra vorrebbe dire andare verso Camaldoli, invece a sinistra si entra nella zona di valore naturalistico «più protetta» della nostra regione: la riserva naturale integrale di Sassofratino, area protetta ad evoluzione spontanea, nella quale è consentito l’accesso solo per motivi di studio e su autorizzazione. La stradina, che da tanti anni è chiusa ai mezzi motorizzati, passa accanto al limite «meridionale» della riserva, che si trova tutta alla nostra destra, in Romagna, mentre sulla nostra sinistra, in Toscana, c’è un altro pezzo di riserva che si chiama La Pietra. Dunque siamo in presenza di un’area protetta, si guarda (senza andare dentro) e che cosa si nota? niente, si resta quasi delusi, si pensa di non aver capito …… perché questo pendio boscoso ha un così grande valore naturalistico?
Infatti l’unica differenza rispetto a tutte le foreste che conosciamo, e anche rispetto al bosco che la circonda, è che gli alberi sono – diciamo – disordinati, che sul terreno ci sono tronchi caduti, muschio, funghi, eccetera; possiamo cioè osservare il bosco allo stato naturale, come sarebbero tutti i boschi se l’uomo non facesse mai né tagli né raccolta di legname né rimboschimenti. Ci sono abeti (intendo l’abete bianco) e faggi, ontani, tigli, aceri, specie forestali più piccole come il sorbo e il maggiociondolo; nel sottobosco giglio martagone, genziana e anemone, ecc.
Nel 1959 il prof. Pavan, insegnante universitario di Pavia e il dr. Clauser, direttore delle Foreste Demaniali, riuscirono a ottenere la protezione integrale su questa zona, ritenuta allora l’ultimo residuo in Europa delle immense selve che in epoca Würmiana (11.000 anni fa) dopo l’ultima grande glaciazione, ricoprivano il nostro continente. Tempo fa, quando ero studente, e cioè nel secolo scorso, il successore di Clauser nell’amministrazione delle foreste casentinesi, il dottor Michele Padula, mi disse che, per essere precisi, non è proprio «foresta vergine», ma la sua posizione di difficile accesso l’aveva salvaguardata dalle utilizzazioni e conservato la natura originaria di bosco misto di conifere e latifoglie; alcuni segni dello sfruttamento dell’uomo c’erano anche qui negli anni ’50 — tracce di sentiero, piccole aie da carbonai e molti toponimi che fanno risalire a piccole segherie — ma il cuore di questa foresta era antico di migliaia di anni.
Sassofratino esprime esattamente quali specie vegetali dovrebbero costituire i nostri boschi, l’Appennino come era e come vorremmo che ritornasse a essere; un sistema vegetale e animale equilibrato e ricco. Questo lembo di foresta è ora riservato a usi scientifici, può essere visitato solo se accompagnati e per seri motivi di studio e ricerca. L’area protetta ha un’estensione di 764 ettari e va da «la Lama» a sud a «il Poggione» a nord da una quota di 750 (a est) a 1500 m (a ovest).
All’interno della zona protetta ha prosperato il più grosso abete d’Italia, una pianta che aveva una forma a candelabro, dovuta allo sdoppiamento del fusto: in termini tecnici si dice un albero «policormico». È vissuto molti secoli, non è stato mai potato e verso la metà degli anni ottanta è morto; dopo alcuni anni, il tronco senza vita del grosso abete è crollato a terra. Ora, dal 1991, questa specie di monumento della natura è disteso lungo il pendio (notare che era lungo oltre 40 metri) e, aggredito da microrganismi e insetti, si è trasformato in humus per dare nutrimento agli altri alberi.
A poggio Scali si arriva velocemente, ormai il grosso del dislivello è fatto; quasi non ci si accorge di essere arrivati «in cima», perché è un pratone, solo che la posizione è dominante. Anche Ludovico Ariosto rammentò questo punto panoramico, scrivendo che da qui «l’occhio scopre il Mare Schiavo e il Tosco».
Il sentiero prosegue verso nord in leggera discesa, in direzione del Poggione, sempre con l’area protetta sulla destra.
Nota tecnica escursionistica: 3 ore fino a Porcareccio, poi 45 minuti.
2 – il parco
Il «Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna» si estende per circa 36.400 ettari a cavallo del crinale, suddividendosi fra le province di Forlì, Arezzo e Firenze (solo per una parte dei comuni di San Godenzo e Londa). L’elemento ambientale più importante è costituito dalle foreste, che ricoprono più dell’80 per cento della superficie totale del Parco: la loro estensione, la loro varietà e la loro bellezza ne fanno un complesso forestale eccezionale, articolato attorno al nucleo storico delle Foreste Casentinesi. La fauna conta circa 1.200 specie, fra cui 160 specie di vertebrati (84 di uccelli e 42 di mammiferi); importante la presenza del lupo, che all’interno del parco vive e si riproduce, e di ben cinque «ungulati»: abbiamo già detto del cervo e nelle frazioni di Stia, nella stagione degli amori, si sentono i «bramiti» da casa; gli altri sono il capriolo, il daino, il muflone e, ovviamente, il cinghiale. Sono presenti anche altre specie più comuni come l’istrice e il gatto selvatico e vari pipistrelli. È tornata anche l’aquila reale, nel senso che è censita proprio una coppia regolarmente nidificante.
Le foreste casentinesi sono miste di abete e faggio con altre latifoglie che ho già citato sopra. Le formazioni erbose delle radure e della prateria di sommità sono di due tipi diversi secondo il terreno, se calcareo o siliceo; fra le specie in pericolo, la «epipactis» e la rarissima «tozzia alpina» che ha qui l’unico suo «domicilio» appenninico. Nelle radure fra i faggi, cresce il botton d’oro, in una delle rare «stazioni» appenniniche.
Il Parco Nazionale è impegnato in un lavoro di divulgazione dei valori e degli obiettivi della protezione della natura. Escluso Sassofratino, le foreste casentinesi offrono ai turisti 72 sentieri segnati, oltre a molte aree attrezzate per picnic, rifugi, centri visita che sono dei piccoli musei di storia naturale. Allo scopo di stimolare la curiosità, i centri visita offrono tutti una presentazione generale del territorio e, separatamente, affrontano ognuno un tema specifico. Così per esempio a Bagno di Romagna abbiamo la geologia, a Premilcuore la fauna, a Tredozio il capriolo, a Badia Prataglia l’uomo e la foresta, a Camaldoli il museo ornitologico; a Stia si trova il planetario, struttura unica nel territorio di un Parco Nazionale: dono del Museo della Scienza di Firenze, ricostruisce la volta celeste così come la vedremmo in un posto lontano dalle luci delle città: è così possibile riconoscere le varie costellazioni, i principali movimenti, i pianeti e imparare a orientarsi con le stelle. Del «museo dello sci» di Stia, ne parlò il Bollettino in un articolo di Giuliano Pierallini dell’anno scorso.
Tre dei centri, Bagno di Romagna, Badia Prataglia e Santa Sofia, non chiudono mai, per gli altri bisogna andare di domenica, nei mesi primaverili e estivi.
Sono stati organizzati i «sentieri natura», brevi itinerari con descrizioni delle situazioni ambientali che si incontrano lungo il cammino, con degli appositi opuscoli. A Campigna e Badia Prataglia i «sentieri per tutti i sensi» sono percorsi appositamente studiati per consentire l’accesso ai disabili che possano usufruire degli allestimenti realizzati lungo il sentiero. Sono stati infine individuati 20 percorsi per mountain-bike, segnalati sulla carta e sul territorio con indicazioni specifiche; per evitare il disturbo degli escursionisti a piedi da parte dei ciclisti, è consigliato di seguire questi percorsi appositi o, in alternativa, soltanto le strade forestali, e di evitare assolutamente i sentieri.
All’ interno del territorio del Parco, abbiamo ben 6 trekking definiti da varie istituzioni: la GEA, il GCR, il SOFT, il CT, il SA e infine l’AM. Fanno ridere tutte queste sigle? In tutto questo proliferare di percorsi trekking segnati da vari Enti, c’è anche molta ripetitività: a volte, troviamo dei sentieri contemporaneamente segnati in giallo, in verde e in rosa-azzurro e così via, quando in definitiva il sentiero è solo uno, sempre lo stesso e i segni importanti — diciamo la verità — sono soltanto quelli bianco-rossi.
Dentro il Parco, i cartelli in legno che trovate a ogni bivio riportano dei tempi di percorrenza arrotondati per eccesso: se c’è scritto 40 minuti, ne sono sufficienti 25, se c’è scritto 1 ora e 10, si arriva in 45 minuti.
Ma scendiamo un po’ nei particolari: la GEA è la «Grande Escursione Appenninica», composta di 25 tappe da Bocca Trabaria fino a congiungersi all’Appennino Ligure, di cui cinque interessano l’Appenino tosco-romagnolo e sono fra le più affascinanti:
1) da Chiusi della Verna a Badia Prataglia;
2) da Badia Prataglia a Camaldoli;
3) da Camaldoli al passo della Calla;
4) dalla Calla al passo del Muraglione;
5) dal Muraglione a Casaglia.
Il SOFT è «Sorgenti di Firenze Trekking», una serie di anelli che interessano principalmente il Mugello ma in buona parte anche questa zona: l’anello principale segue il crinale, si stacca in corrispondenza del m. Falco per proseguire verso il Falterona, monte Acuto, valico di Croce a Mori. Poi ci sono almeno tre anelli secondari che sono interamente compresi nella zona Parco: il primo, anello del Falterona, il secondo, anello di m. Massicaia e il n° 22, anello dell’Acquacheta. Il CT è «Casentino trekking» che ripercorre in grandi linee la GEA. GCR vuol dire «Grande Circuito della Romagna», e si sviluppa in 13 itinerari dalle colline del gesso dell’imolese fino alle colline del Montefeltro, passando anche nel territorio del Parco, fra San Benedetto e Corniolo, fra Ridracoli e Bagno di Romagna. Ultime due sigle: SA è il «Sentiero degli Alpini» da Forlì al m. Falco; AM è «Anello di Marradi» che interessa molto marginalmente il Parco nella zona nord.
3 – Camaldoli
L’Eremo fu la sede originaria dell’Ordine dei Camaldolesi, fondato dal Beato Romualdo nel 1012 e citato anche da Dante nel 5° canto del purgatorio, ebbe anche grande importanza culturale, specialmente nel 15° secolo quando fu sede dell’accademia umanistica voluta da Lorenzo il Magnifico. Da visitare la chiesa interna, dedicata ai santi Donato e Illariano, il refettorio dei monaci, la farmacia e il chiostro. Si può anche alloggiare alla Foresteria, in una suggestiva atmosfera medioevale; inoltre, immergersi nel clima di spiritualità — stavo per scrivere francescano, ma i camaldolesi sono addirittura precedenti a S. Francesco — dei seguaci di frate Romualdo.
Vicino al monastero si trova la prima pianta esotica delle foreste casentinesi, un cedro del Libano alto oltre 20 metri, messo a dimora nel 1861. Il bosco intorno al Sacro Eremo è stato coltivato dai monaci per quasi novecento anni e gli abeti alti e affusolati sono stati molto sfruttati per costruzione. I monaci camaldolesi cominciarono a piantare abete bianco nella particella di foresta intorno all’Eremo nei secoli 11° e 12°. Come si è detto, l’abete bianco era spontaneo nella zona, anche se in formazione mista con il faggio e altre latifoglie e secondo i frati era immagine di speranza e di meditazione. La restante parte della foresta apparteneva ai conti Guidi, ma dalla fine del Trecento fu data in gestione all’Opera del Duomo di Firenze.
L’impalcatura di S. Maria del Fiore fu dunque fatta di legname casentinese; anche le navi della Repubblica Marinara di Pisa e più tardi, le traversine dei binari delle ferrovie. Questo per dire che l’intervento umano è stato importante, ma non irrazionale: anche ai tempi del granduca Leopoldo 2° di Lorena, fu un tecnico forestale proveniente dalla Boemia, Karl Siemon, a collaborare con la popolazione locale nel salvare queste foreste dal taglio «a raso» che avrebbe devastato i pendii.
La vita dei monaci, fatta di ascolto di Dio e dell’uomo, aveva bisogno di silenzio: ecco la scelta della foresta, in uno scambio in cui i monaci garantivano la vita alla foresta e questa dava loro il silenzio per la meditazione. È interessante notare come nelle «regole» dei frati camaldolesi che si sono succedute nel corso dei secoli, tutte si sono occupate di pianificare il rapporto fra il monaco e la foresta, ma nessuna ha dei capitoli riservati alla cura degli alberi e del bosco; queste norme sono inserite nei sezioni che si occupano delle questioni fondamentali per la vita dell’eremo e questo a partire dalle «costituzioni» del 1279, emanate dal priore Gerardo, per proseguire con la «legislazione» del 1520, del Beato Paolo Giustiniani, per finire con quelle del 1850.
Nel 1866 le foreste dei monaci passarono al neonato Stato unitario e dal 1975 sono regionali, con esclusione di Sassofratino e delle «riserve biogenetiche» di Badia Prataglia, Campigna e Camaldoli, che sono gestite a livello nazionale, anche se sono foreste coltivate e non naturali; hanno continuato a dare legname ma in base a criteri selvicolturali che si sono fatti gradualmente più naturalistici.
I «boschi da seme», detti anche «riserve biogenetiche» sono boschi di elevata qualità e produttività, sani e resistenti, che forniscono le sementi (anche piante intere) per la realizzazione di rimboschimenti. Esiste un registro nazionale, sulla base di norme europee, controlli e sanzioni. Per fare qualche esempio, i boschi da seme di abete bianco sono in val Maira, val Visdende, Lavarone, e così via; da noi Abetone, Consuma, Vallombrosa e qui. In Toscana abbiamo anche boschi da seme di pino a Migliarino, Cecina, ecc. di faggio all’Abetone, di cipresso a Sesto.
4 – i segni dell’uomo
Attualmente all’interno del Parco vivono circa 1.500 persone, infatti anche queste vallate hanno conosciuto lo spopolamento che nella seconda metà del secolo, quando i terreni meno favorevoli videro un esodo di massa verso le nuove opportunità offerte dalla rapida crescita economica. I segni del passato sono però ancora evidenti nelle belle case di pietra, nei mulini, nei ponti e nella fitta rete di sentieri e mulattiere recentemente recuperati per uso escursionistico. A queste tracce lasciate dalla vita quotidiana di generazioni e generazioni di montanari si uniscono poi antichi borghi, castelli, pievi e luoghi della fede: l’influenza di centri monastici come Camaldoli e il Santuario della Verna, che è all’estremità sud del Parco, superano di molto i confini locali e anche quelli nazionali e tramandano fino ai giorni nostri testimonianze di spiritualità che affondano le loro radici nel Medioevo.
5 – Falterona
Il monte Falco è l’importante nodo orografico dal quale la dorsale del Pratomagno si stacca dal crinale appenninico ed è la vetta più alta della zona. Il suo «gemello» è il Falterona, più conosciuto a noi fiorentini anche grazie a Dante Alighieri che cantò la sorgente dell’Arno: l’Ente Parco, allo scopo di proteggere la zona, nel 2003 ha acquistato dai privati 135 ettari di bosco intorno alla sorgente.
La quota delle due vette differisce di tre – quattro metri, i dintorni sono coperti di bosco, il sentiero offre ogni tanto delle aperture panoramiche verso la Toscana dolce e verde; però bisogna aggiungere che, dal punto di vista dello sforzo fisico, i percorsi che possiamo fare non sono mai troppo ripidi: i sentieri che percorrono il crinale sono di salita progressiva e anche l’ascesa a queste due vette è poco faticosa a meno che non si voglia proprio andare a cercare i canali, in inverno.
A nord, lungo il sentiero che proviene dal giogo di Castagno, a quota 1380 ai confini del Parco, si trova la «capanna» delle Fontanelle, un rifugio sempre aperto con disponibilità di legna e acqua potabile. Questo rifugio è stato oggetto di trattative, qualche tempo fa l’Ente Parco lo aveva offerto in gestione alla nostra sezione, ma non se ne è fatto di nulla.
A valle del monte Falco, sopra Pian Cancelli, c’è un’area di tutela nata per la salvaguardia di alcune specie di piante del sottobosco e di fiori. Il vecchio sentiero non è più praticabile, perché anche solo camminando si rischia di danneggiare gli esemplari. Cito solo le 4 specie più importanti di quest’area: la Viola di Eugenia, la Genziana Verna, l’Anemone Narcisiflora e la Saxifraga Oppositifolia. Io personalmente questa flora non l’ho vista (anche perché c’è il divieto) ma solo tante mosche !
A sud della cima del Monte Falterona e a dieci minuti di cammino da Capo d’Arno, si trova il «lago degli idoli» che è il più importante sito archeologico casentinese. Qui sono state raccolte interessanti testimonianze del culto del mondo etrusco. Per almeno tremila anni è stato un piccolo specchio d’acqua, detto Lago di Ciliegieta; nel 1838, una pastorella ritrovò per caso sulle rive del lago una statuetta di bronzo raffigurante Ercole; allora a Stia si formò un gruppo di amatori con lo scopo di effettuare ulteriori ricerche. Gli scavi portarono al prosciugamento dello specchio d’acqua (infatti ora c’è solo un laghetto molto più piccolo) e al ritrovamento di uno dei più ricchi complessi votivi del mondo etrusco, che fece assumere al sito la denominazione di Lago degli Idoli. Furono recuperati infatti oltre 600 bronzetti, però la gran parte di questi fu venduta sul mercato antiquario: in pratica, nel 1840 l’intera collezione era già dispersa per pochi soldi; per fortuna, alcuni dei pezzi sono andati a finire al British Museum di Londra e al Louvre di Parigi. Ancora oggi c’è chi, saltuariamente, continua le ricerche e gli ultimi ritrovamenti consegnati alla Soprintendenza Archeologica della Toscana risalgono al 1971, ma si tratta di frammenti. Probabilmente erano doni alle divinità per le capacità curative del luogo, oppure il laghetto era considerato allora la primaria sorgente dell’Arno.
6 – Vallucciole
Non mi sono preso una fissazione sulla Resistenza, ma questa è una vicenda a cui bisogna accennare, anche se brevemente, perché (rispetto a Sant’Anna, Vinca e così via) se ne è sempre parlato poco. Fu il primo caso in Toscana di rappresaglia non mirata, la prima strage indiscriminata.
Vallucciole oggi è un villaggio di 4 case che si trova al confine delle foreste casentinesi, in direzione del Mugello; il 13 aprile 1944, qui si consumò un feroce eccidio: 108 vittime, in maggioranza donne, anziani e bambini; nei giorni immediatamente successivi, furono catturati 17 giovani partigiani, poi fucilati a Stia.
Per assicurarsi la piena disponibilità logistica della zona e la sicurezza delle strade secondarie — essendo inagibili le principali, sotto i bombardamenti — la strategia tedesca era di scacciare dal territorio gli abitanti, distruggere i centri abitati, dare qualche feroce esempio. L’occasione venne il 12 aprile, quando, in uno scontro a fuoco, 2 ufficiali tedeschi furono uccisi dai partigiani. All’alba del 13 ci fu la mostruosa rappresaglia: alla fine di quella giornata, Vallucciole non esisteva più, solo case in fiamme. Nella stessa giornata del 13 un’altra colonna di 600 – 700 soldati delle SS passò per San Godenzo e investì il Castagno d’Andrea; le distruzioni ebbero una durata di 4 giorni. Abbiamo detto degli oltre cento deceduti di Vallucciole, ma considerando anche Stia, le frazioni di Pratovecchio e il Castagno, è difficile conoscere il numero esatto delle vittime casentinesi.
7 – La Lama
25 anni fa, quando ero già laureato ma studente di un corso di specializzazione, ebbi occasione di visitare la zona detta La Lama: questa è una specie di «spot pubblicitario» delle foreste, un luogo incantato, una radura verde immersa fra gli alberi di alto fusto (c’è anche una sequoia secolare di oltre 40 metri); era il luogo dove si concentravano le attività del bosco, ora c’è la «caserma» del corpo forestale e l’area picnic. In auto non è possibile arrivare: le strade forestali che portano qui (sia dall’Eremo di Camaldoli che da Badia Prataglia) sono sbarrate e la fortuna è stata quella di essere accompagnato da dei ragazzi di una cooperativa forestale, che avevano tutti i permessi. Oggi il Corpo Forestale organizza dei viaggi in navetta, su prenotazione; in ogni modo, si può arrivare qui in meno di due ore a piedi da passo Fangacci, per il sentiero 227 in discesa. Quel pomeriggio, facemmo una scarpinata fuori sentiero, seguendo il fosso della Lama in direzione dell’invaso di Ridracoli, alla ricerca di tracce e nell’illusione di incontrare …… lasciamo perdere, gli animali selvatici non si fecero proprio vedere ! La nostra camminata ci portò, al crepuscolo, alle case Seghettina, a valle del confine di Sassofratino: sono dei casolari disabitati con vista sul lago di Ridracoli, una zona che da poco è stata unita al Parco, un ambiente che sta tornando allo stato selvaggio, solamente boschi a perdita d’occhio.
In queste foreste a me piace camminare in silenzio sul sentiero, ascoltando gli uccellini; non si deve mai uscire dal sentiero, primo perché si disturba la fauna, secondo perché ci si può anche perdere.
Concludo qui queste brevi osservazioni sul crinale tosco-romagnolo; ho cercato di essere sintetico per non annoiare gli eventuali lettori; però spero di avere un po’ incuriosito quei pochi che ancora non conoscono questi bellissimi luoghi.