“Fra passato e presente” di Carlo Marinelli

Annuario 2010

Fa molto caldo, mi siedo all’ombra dei cipressi che costeggiano il viale d’accesso all’Abbazia del Buonsollazzo. Appoggio schiena e testa al tronco di un cipresso, chiudo gli occhi e, come per incanto, la mente torna  indietro nel tempo, a tantissimi  anni fa, quando questi luoghi erano “vivi”, abitati da moltissime persone e non abbandonati come sono ora. Mi sembra di vedere gruppi di monaci in preghiera, contadini intenti al lavoro nei campi, carri pieni di fieno trainati dai buoi, mi par di sentire perfino le voci allegre dei ragazzi e quelle delle donne che li chiamano per dare una mano nel lavoro.

l'Abbazia

Smetto di sognare, torno in me, ma il silenzio e la gran pace che mi circondano fanno sì che io richiuda gli occhi e col pensiero torni a questa mattina, quando, lasciato alle spalle l’abitato di Tagliaferro, frazione del comune di San Piero a Sieve lungo la statale 65 della Futa e superato il Carza, ormai ridotto a un rigagnolo, mi sono incamminato per il sentiero 00 che porta a Monte Senario. La giornata è bella, la strada poderale che ho percorso, prima tra verdi campi coltivati a foraggio poi attraverso un bosco dove è in corso un “taglio”, è tutta al sole. Oltrepassati i poderi Carzavecchia e Camporomano, dove la strada finisce e comincia il vero sentiero, ho iniziato la salita, a volte anche ripida, attraverso un bosco che, a causa di un recente taglio, non mi procura gran frescura.

Durante il cammino non ho potuto fare a meno di pensare che stavo calpestando terreni ricchi di storia, di lotte politiche e contrasti religiosi. Il Mugello (perché siamo nel Mugello), tantissimi anni fa, era sotto la giurisdizione della diocesi di Fiesole e dei potenti Feudatari locali. Questa situazione non piaceva né alla Diocesi fiorentina, che avocava a se questi territori, né alla Repubblica di Firenze, che vedeva intralciata se non impedita la sua espansione commerciale con la pianura padana. La contesa si risolse con una guerra tra le due parti citate e così, nel 1125, con la vittoria di Firenze, il Mugello passò sotto la Diocesi fiorentina, per quanto riguardava l’ordinamento della chiesa e sotto la Repubblica di Firenze per il potere politico.
Le Sodere

I miei pensieri “storici” sono improvvisamente cessati quando, finita la salita e il bosco, si è presentato, ai miei occhi, un vasto pianoro dominato a destra dalla grandiosità dell’Abbazia del Buonsollazzo. Ho quindi attraversato questo pianoro, che una volta doveva essere un fertile campo lavorato, e poi, volgendo le spalle al monastero, mi sono goduto un panorama bellissimo. Lo sguardo dominava tutta la valle, da San Piero a Sieve a Borgo San Lorenzo, dal Castello del Trebbio a Scarperia e, alzando gli occhi, sulla catena appenninica dalla Futa al Giogo di Scarperia fino alla Colla di Casaglia.

Dopo questa panoramica sul nostro Appennino mi sono concesso un riposino all’ombra dei cipressi: dove mi trovo adesso. Questi luoghi, ancor oggi pieni di grandi silenzi e spiritualità, hanno visto sorgere, nei secoli, i monasteri di Montesenario e San Donato a Polcanto, quelli non più esistenti di San Niccolò alla Pila e San Clemente a Montecaroso, ed infine la Badia del Buonsollazzo il cui nome vero è Sanctus Bartholomoeus de Bono-Solatio. Tracce storiche fanno risalire la sua edificazione a prima del mille per volere del marchese Ugo di Toscana che, dice la leggenda, perdutosi nei boschi della zona, ebbe tremende visioni e fece voto,se salvato, di edificare ben sette Badie una delle quali in quei luoghi: quella del Buonsollazzo. Col passare dei secoli vari ordini monastici si sono insediati nell’Abbazia come i Benedettini, i Cistercensi, la congregazione di San Bernardo in Italia e i Trappisti che vi rimasero fino al 1782 quando il Granduca Pietro Leopoldo la soppresse vendendo parte del patrimonio al Marchese Sigismondo Lotteringhi della Stufa.
Solo nel 1877, quando i Camaldolesi ne presero possesso insediandovi un seminario per la formazione dei propri monaci, il complesso tornò a essere Abbazia fino al 1990 quando, non più utilizzata, fu alienata. Per fortuna, all’atto della vendita, la sovrintendenza ai beni artistici e storici pose un vincolo che presupponeva un’autorizzazione da parte sua per ogni futuro intervento. Nonostante ciò anni fa apparvero sui giornali avvisi di vendita d’appartamenti realizzati nell’Abbazia stessa. Gran polverone, anche a livello politico, il solito rimpallo di responsabilità tra proprietà, agenzia immobiliare, ecc… Da allora tutto tace. Oggi, anche se “spogliata” di tutto ciò che era al suo interno, l’Abbazia giace lì abbandonata ma come una vecchia nobile signora, ancora piena di storia, di fascino e di mistero. Quale il suo destino? Mi auguro non sia quello di essere ad albergo o beauty-farm (altra idea ventilata) ma che sia riportata al suo antico splendore, destinandola ad attività culturali, convegni, a qualche cosa più consona alla sua storia.
Che fai seduto, bighellone?” Alzo la testa e mi volto per vedere chi mi rivolge questa frase. E’ Gianni (Giovanni Bassi) che transitando sulla strada mi ha visto. “Tutte le volte che passo di qui” gli dico “sono colpito da tanta bellezza, sia dell’Abbazia sia del panorama; mi sono fermato per godere di tutto questo e della pace che qui regna” gli rispondo.
Gianni racconta ...

Tu sai che abitavo qui vicino” mi dice “sapessi com’erano questi posti prima e dopo la guerra fino a quando i frati non sono andati via; i campi sembravano giardini. Con la partenza dei monaci è cominciato pian piano il degrado e l’abbandono dei poderi che appartenevano all’Abbazia, ben cinque: I Ciliegi, Le Sodere, La Tassaia, il Belvedere e il Buonsollazzo.

Guarda, quella costruzione in alto, sulla destra, era la casa delle suore che venivano qua a trascorrere l’estate mentre in quella vicina abitava il contadino e il cosiddetto lattaio che raccoglieva il latte dai vari poderi e lo lavorava.  Per questo, come vedi, poco più sotto la casa, c’è la burraia, per la lavorazione del latte e la conservazione dei prodotti. Davanti a questa, dove ora è tutto prato, c’era il vivaio e più giù l’orto del convento.
Devi sapere che, quando ero piccolo e fin dopo la guerra, non avevamo la corrente elettrica: i frati se la producevano con un generatore a legna.  Non si lavorava solo nei campi; qui c’era una fornace per la cottura di mattoni e tegole a uso del convento. Vedi, qui a destra, quei resti di pilastri in mattoni? Ebbene è ciò che rimane della copertura della fornace la cui bocca di fuoco sprofonda nel terreno dentro a quei rovi. Ma ora devo andare, non sono come te, ho tante cose da fare, ciao Carlo”. Ciao Gianni e grazie di tutte queste notizie. Dopo poco anch’io lascio con rammarico questo luogo al suo destino e proseguo, sempre sul sentiero N° 00 verso Monte Senario. E’ al fresco, sale dolcemente dentro un   bosco di castagni  lievemente mossi da:
Il vento, che degli alberi la cima
al suo volere fa or piegare,
suoni porta con se e più di prima
piacevole diventa il camminare.
Verso il Monte proseguo or l’andare
gustandomi questa dolce armonia
che il vento porta, e, ad ascoltare
tendo l’orecchio sperando ci sia,
(La tua risata di C. Marinelli 2009)
Accompagnato da questi suoni arrivo ad una vasta zona non alberata (vecchi campi) in dolce salita: sono al podere Le Sodere ormai abbandonato, regno di rovi che risparmiano solo la vecchia casa colonica ancora   integra mentre gli edifici come la stalla sono quasi   crollati. La struttura architettonica è quella classica e stupenda delle case coloniche toscane con la piccola aia antistante, il lavatoio, il tradizionale albero di noce e di fianco, tra i rovi, s’intravede quello doveva essere l’orticello per le necessità della famiglia. E’ situata in una posizione bellissima, la vista spazia su gran parte dell’Appennino come dalla Badia ma da una posizione più elevata.
Proseguo il cammino in dolce salita prima in mezzo ai prati poi per un bosco di  querce, lecci e carpini fino a giungere alla Croce del Melago. Il sentiero prosegue a destra, prima costeggiato da una “siepe” di castagno (ributti di un recente taglio), poi, all’ombra in un bosco di castagni, carpini e abeti fino a giungere a un tabernacolo da dove inizia il viale che porta al Santuario di Monte Senario che credo non abbia bisogno di presentazione.
Con Padre Piergiorgio

Mi fermo comunque perché Padre Piergiorgio, dei Servi Di Maria, deve darmi alcune notizie su una costruzione che troverò proseguendo il cammino. Dopo averlo salutato aggiro sulla destra il monastero per immettermi sul sentiero che con un   tracciato bellissimo, prima sullo spartiacque tra i comuni di Firenze e Vaglia poi rivolto sulla Faentina, scende dolcemente fino ad incrociare il sentiero n° 2 che porta a Polcanto. Da qui piegando a destra, e dopo aver traversato un vasto prato, giungo in breve a una caratteristica costruzione di forma cilindrica sormontata da una cupola in mattoni: La Ghiacciaia.

Mi siedo su un’improvvisata panchina e ammiro questo pezzo di storia e dell’ingegno umano, che oggi ha dell’incredibile. Tanti anni fa la cupola terminava con una lanterna che faceva raggiungere al complesso un’altezza, fuori terra, di 17metri. Dico fuori terra perché la ghiacciaia continua in profondità per circa 14metri.
Questa di Monte Senario, che fu fatta costruire ai frati tra il 1842 e il 1844 e pare sia tra le più grandi d’Europa, aveva il compito di conservare il ghiaccio che si formava nella stagione invernale in vari laghetti, allora esistenti. Il ghiaccio, una volta prelevato dai suddetti laghetti, veniva stipato, a strati intervallati da paglia, nell’enorme “pancia” sotterranea della ghiacciaia e conservato così per la stagione estiva quando il ghiaccio era trasportato a Firenze, di notte, in botti avvolte di sughero, per essere venduto ai “signori” dell’epoca ed agli ospedali.
L’avvento dell’industria che produceva ghiaccio portò lentamente all’abbandono delle “ghiacciaie”. Anche questa subì la stessa sorte e cessò l’attività alla fine del 1800. Il ghiaccio “industriale” continuò a essere prodotto ed ebbe un grandissimo consumo fino a tanti anni dopo la guerra, quando, chi se lo poteva permettere, acquistava i primi frigoriferi mentre gli altri continuavano a conservare il poco cibo con l’aiuto del ghiaccio”industriale”. Chi ha vissuto il periodo post-bellico si ricorderà bene che per le strade passava un carretto che vendeva ghiaccio alle famiglie.
Dopo la guerra, non essendo più utilizzata, fu deciso di recuperare dalla Ghiacciaia il materiale che serviva per restaurare case coloniche.Fu così asportato tutto il rivestimento esterno sia della parte bassa sia della cupola, fu distrutta la lanterna  e venne abbattuto anche un tabernacolo che si trovava sulla facciata. Di questo rimane qualche traccia come la scultura che adornava la sua parte alta.
La Ghiacciaia

Attualmente è ridotta ad uno stato di pietoso abbandono e presenta anche qualche pericolosità tanto che è recintata e non è possibile vedere il suo enorme interno se non da lontano e da una piccola finestrella. La ghiacciaia, comunque, sembra resistere al tempo e all’abbandono; la sua imponenza è sempre un richiamo di curiosi muniti di macchina fotografica. Recentemente (1988) è stata è stata oggetto di una tesi di laurea (architetto Barbara Aterini) che ne ha ipotizzato il suo restauro conservativo: ma come sempre mancano i soldi.

Mi alzo, poche centinaia di metri e sono sulla strada asfaltata che piano piano mi porterà a casa. La gita è finita: ma quanti secoli di storia ho attraversato con questa passeggiata!
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