“L’Alpinismo sovietico – appunti di storia” di Roberto Masoni

Annuario 2010

Da tempo mi riproponevo un’approfondimento sull’alpinismo sovietico.
Non solo, e non tanto, perché è oggetto di una manifesta oscurità storica ma, soprattutto, perché tale oscurità ha sempre taciuto una realtà molto diversa. Una realtà che niente ha, e niente ha avuto, da invidiare, in tema di alpinismo, alle più blasonate verità dell’Occidente. Per noi, che facciamo parte di una certa generazione, il fatto che all’est vi fossero abili alpinisti non è mai stato un mistero. Certo eravamo figli della nostra cultura, non a caso siamo cresciuti con i Bonatti, i Cassin, i Messner ma che oltre cortina vi fossero dei talenti naturali, sia in fatto di arrampicata che di alpinismo di alta quota, non ci era sconosciuto. Le notizie, poche e frammentarie, ci arrivavano soprattutto grazie a qualche sporadico articolo sulla Rivista o da qualche libro illuminato, ma la percezione che in Russia, anzi in Unione Sovietica, l’alpinismo svolgesse un ruolo di primaria importanza, che fosse una realtà ben radicata, non ci sfuggiva. Non ci sbagliavamo, ci era semmai più difficile capire dove, come e con quali modalità.
Con l’abbattimento delle ideologie e di qualche muro, i primi esponenti dell’est cominciarono a bazzicare le nostre falesie, inizialmente erano soprattutto polacchi. Era l’inizio degli anni ’90 e con una buona dose di discriminazione mettevamo al sicuro i nostri portafogli, nei risvolti dei nostri zaini appoggiati per terra, spaventati soprattutto dall’aspetto di questi arrampicatori. Erano vestiti male, anche se ripensandoci non eravamo molto diversi, utilizzavano materiali obsoleti, le facce erano poco rassicuranti. Al di là di queste preoccupazioni, che per la verità e per quella che è la mia esperienza diretta non crearono mai alcun episodio spiacevole ed alle quali mettemmo presto fine, ci colpì soprattutto il loro modo di arrampicare, avevano garbo, indubbie capacità e pochi fronzoli. Restammo meravigliati dalla loro capacità e ciò ci convinse, una volta di più, che all’est non si scherzava. Certamente la nostra spregiudicata ed arrogante cultura, costruita giorno dopo giorno nell’ottica di un centenario retaggio storico, subì uno scossone. Dovemmo convenire che anche all’est si arrampicava e nemmeno male … Col tempo le foschie si sono diradate ed oggi possiamo guardare all’alpinismo dell’est, in particolare a quello russo, come ad una realtà di prim’ordine, come ad una Scuola alla quale guardare con rispetto e considerazione.
Questo mio contributo, per quanto parziale (ci vorrebbe un libro), nasce paradossalmente grazie agli archivi dell’American Alpine Journal. Non esistono infatti esaurienti fonti russe per raccontarne la storia. Nell’ambito dell’attuale Federazione Russa opera la Russian Mountaineering Federation, un’organizzazione ben articolata eppure carente, ma forse solo per noi occidentali, di un archivio storico disponibile, tutto ciò che può interessare proviene quindi dalle restanti fonti a giro per il mondo.
La Catena montuosa del Caucaso (www.elbrus1.com)

Faccio una breve premessa, necessaria per meglio inquadrare la questione. Esistono due distinti periodi che tracciano, o meglio obbligano a tracciare, un quadro di riferimento: quello dell’ex Unione Sovietica e quello successivo nato dalla dissoluzione delle repubbliche che ne facevano parte. Del primo periodo, che è poi quello di cui parlerò, non conosciamo molto, sappiamo che in Unione Sovietica, e ciò vale a priori poiché stabilito dall’ordinamento giuridico stesso dell’ex Unione Sovietica, veniva, prima di tutto, un diritto di classe ove il cittadino, e in questo senso possiamo inquadrare anche gli alpinisti, era tanto più libero quanto meno entrava in contrasto con questo diritto di classe. Cosa vuol dire. Vuol dire che anche coloro che venivano formati all’attività alpinistica erano cittadini dell’URSS alla stregua di chiunque altro, lavoratori come chiunque altro. Il discorso cambiò radicalmente in quello che ho citato come secondo periodo, cioè dagli anni ’90 in poi, quando gli alpinisti sovietici, qualunque fosse il loro paese di origine, si trovarono nella condizione di doversi autonomamente inventare un mestiere che, li portò, in gran parte, a mettere a disposizione di imprese commerciali il loro talento e la loro esperienza. Un nome in particolare rende meglio di altri l’esempio: Anatolij Bukreev, di cui parleremo in seguito.

Una certa idea dell’ambiente alpinistico russo, vale la pena ricordarlo, coincise nella prima metà del ‘900, anche con una serie di spedizioni italiane nel Caucaso che, se tralasciamo, per ovvii motivi di spazio, quelle eseguite da Vittorio ed Erminio Sella nel 1887, 1889 e 1896, quelle di Vittorio Ronchetti nel 1907, 1908 e 1910 e quella di Piero Ghiglione nel 1913, prendono il via da quella di Ugo Ottolenghi di Vallepiana e Rolf Singer, Soci della nostra Sezione, ai quali si aggiungono Leopoldo Gasparotto e Albert Rand Herron. E’ in questa occasione, siamo nel 1929, che si colloca la prima ascensione e discesa con gli sci del Monte Elbrus. Passeranno molti anni prima che un gruppo di guide valdostane riceva l’invito per una presenza-scambio nella regione caucasica. E’ il 1962, il gruppo è guidato da Fabiano Savioz ai cui ordini operano sei guide, Marcello Bareux (Courmayeur), Luigi Barmasse (Valtournanche) Oliviero Frachey (Champoluc) e Franco Garda, Sergio Giometto e Adolfo Ourla (Aosta). Scaleranno la parete nord della Scheldy (mt. 4.310) per una nuova via. “Rientrati al campo e festeggiati dai russi con schieramento di manipoli di alpinisti  ed escursionisti al campo, offerta di fiori ed “urrah!” di sapore marziale, i sei Italiani godono un giorno di dolce riposo prima di prendere la via del ritorno …” . Paragrafi dal contenuto “eroico” narrati in un libro che ho il piacere di possedere e che ritengo ormai introvabile: Italiani sulle montagne del mondo scritto da Mario Fantin ed edito nel dicembre 1967 da Cappelli Editore in Bologna.
Nel 1965 una nuova spedizione di Giuseppe Bonis e Luigi Balzola, nel 1966 quella di Toni Gobbi e quella di un gruppetto di quattro italiani capeggiati da un certo Riccardo Cassin fra i cui partecipanti troviamo anche Paolo Consiglio. In ultimo citerò un personaggio che mi sta particolarmente a cuore: Nino Oppio da noi ricordato soprattutto per la via alla nord del Pizzo d’Uccello. Oppio parte nel 1968 per il Caucaso in compagnia di Nusdeo, Pizzocolo ed altri alpinisti sotto il patrocinio del Club Alpino Accademico Italiano. Purtroppo i tentativi di raggiungere la cima l’Ushba saranno tutti vani ma la loro presenza in Caucaso, a stretto contatto con alpinisti russi, non passerà inosservata.
Vorrei fare, adesso, un passo indietro. Vediamo cioè quali sono i gruppi montuosi più noti, più alpinisticamente degni di rilievo dell’ex Unione Sovietica anche se non sono, d’altronde, di difficile individuazione. Più difficoltoso, forse, individuare bene e con precisione quelli divenuti negli anni ‘900 il terreno di riferimento per le generazioni di alpinisti e arrampicatori sovietici. La catena montuosa alpinisticamente più nota è, come abbiamo visto, quella del Caucaso. E’ qui che si trova il Monte Elbrus di 5.642 metri di quota, la cima più alta di Russia e da qualche anno anche dell’Europa. Ma vi è una catena ancora più importante rispetto al Caucaso, questa regione è quella del Pamir. E’ una regione di smisurate proporzioni, è qui che troviamo il Peak Comunism (mt. 7.495) e il Peak Lenin ( mt. 7.134), due fra le cime di maggior richiamo, due fra le cime che godono di maggior considerazione, oggi come nell’ex URSS. A cavallo fra il Kirgyzstan e il Tajikistan si trova il Pamir Alay, una regione che ha riscosso negli ultimi anni una crescente attenzione da parte degli ambienti alpinistici mondiali, stiamo parlando di 800 km. di gruppi montuosi. A meridione troviamo i Monti Altai mentre ad oriente si sviluppano i gruppi del Verkhoyansk e della Kamchatka, la cui vulcanica Catena Centrale costituisce l’ossatura di tutta la penisola omonima e che ha come vetta principale il Icinskaja di 3.621 metri di quota. A ovest la catena dei Monti Urali. Questo il terreno di giuoco.
Già nel 1930 vi è nota dell’ambiente e della regione caucasica. E’ William Osgood Field a farlo sulle pagine dell’American Alpine Journal (Travel and mountaineering in the Caucasus – AAJ 1930 – pagg. 167-173). Field parla del “tremendo”, vulcano estinto dell’Elbrus che pare avergli procurato una forte impressione, e segnala, più in generale, come “le montagne del Caucaso [abbiano] molto da offrire in quanto a bellezza ed interesse attraverso le loro profonde e oscure valli. Vicino l’una all’altra sono abitate da gruppi di persone totalmente differenti da valle a valle, per lingua, costumi e storia”. Non si parla ancora di alpinismo vero e proprio ma Field ne traccia una pur primitiva stima descrivendo come, in  Caucaso, si possano trovare una gran varietà di salite pur nei limiti di quelle cime già scalate un numero di volte talmente sufficiente da ritenere definitive le loro vie di salita. Cita l’Ushba fra le montagne all’apparenza più ardue e spiega come fra gli abitanti della zona non esista né cultura, né pratica dell’alpinismo, essendo al massimo degli abili cacciatori.
Ciò, secondo Field, perché mai, fino ad allora, gli abitanti del posto sono stati coinvolti nella pratica dell’alpinismo essendo molte delle cime del Caucaso state scalate, per la prima volta, da guide svizzere con clienti al seguito. Forse questo il motivo per cui è indotto ad un’ultima valutazione, quella che per praticare alpinismo nel Caucaso, oltre indubbiamente alle capacità della guida, occorra solo “un minimo di attrezzatura da camping da usare nei bivacchi in quota che, nel Caucaso, prendono il posto dei rifugi alpini”.  Non dimenticate che siamo nel 1930.
il Monte Ushba (www.elbrus1.com)

Qualche anno dopo, nel 1934, viene pubblicato, sempre sull’AAJ, un articolo che riepiloga l’attività in URSS (Mountaineering Expeditions in the Soviet Union during 1933 – AAJ – Various notes 1934 – pagg. 270-275) premettendo che l’interesse per l’esplorazione alpinistica aveva avuto un forte incremento ed in misura crescente di anno in anno. Era vista, ancora, come un’attività ricreativa ma con un’ottica mirata soprattutto all’utilità che la ricerca scientifica traeva da quest’ultima. Non a caso tutto veniva svolto sotto gli auspici della Società del Turismo Proletario e l’Accademia delle Scienze. Le notizie contenute nella nota, si precisava, provenivano da interviste personali fatte a membri di varie spedizioni e perciò, data la loro importanza, sostanzialmente corrette. Nel corso del 1933 molte ascensioni di prim’ordine erano state portate a termine in gruppi montuosi diversi: Caucaso, Altai, Tien Shan, Pamir. In particolare nel Caucaso le spedizioni invernali, quindi sciistiche, erano iniziate nel 1931 per trovare poi continuazione nel 1932 e 1933. Alcune di queste avevano conseguito esiti rilevanti come ad esempio la salita dell’Elbrus con gli sci fino ad una quota di 17.450 piedi (5.318 mt.) o come nell’occasione, sempre all’Elbrus, in cui ben 110 persone, pensate, avevano raggiunto la cima della stessa montagna, 57 di loro, per lo più comandanti militari, scalarono l’Elbrus in massa. Non staremo qui a ragionare sul concetto che in URSS assumeva un’azione di massa, sappiamo tutti quanto fosse un concetto assimilato dall’ideologia di base, quanto corrispondesse ad una certa struttura mentale sovietica. Altre cime furono raggiunte nel 1931 e sempre nel Caucaso: il Koshtantau (mt. 5.145), lo Shkara (mt. 5.193), il Tetnuld (mt. 4.852), il Tiktingen (mt. 4.851), il Dongusorum (mt. 4.267), tutte cime raggiunte da alpinisti sovietici dei quali tuttavia ci è sconosciuto il nome.  Abbiamo notizia che, sempre nel Caucaso, nel 1933, furono realizzate anche una spedizione francese ed una svizzera che raggiunse la cima sud dell’Ushba (mt. 4.697). Molte spedizioni, in questi anni, operarono anche nel gruppo Altai e nel Tien Shan. Erano soprattutto spedizioni esplorative senza un’obiettivo definito nel corso delle quali, nel 1931, fu tuttavia scalato il Khan Tengri (mt. 6.990) ed altre cime.

Ben più complessa era, in questi anni, l’attività in Pamir. Già nel 1928 una spedizione mista, russo-tedesca, aveva raggiunto la cima del Merzbacher Peak, definito anche Mount Kaufmann, e considerato la cima più alta dell’Unione Sovietica. Questo il motivo per cui questa montagna venne ribattezzata Peak Lenin, nome poi tramandato fino ai giorni nostri. Una vecchia cartina presente nella prima edizione del “The Heart of Continent”, pubblicata nel 1896 e scritta da Lord Younghusband, definiva l’altezza del Peak Lenin (allora, come abbiamo visto, Mt. Kaufmann) in 23.000 feet (mt. 7.011) ed una quota vicina a 24.935 feet (mt. 7.601). A causa di motivi sconosciuti, la comunità alpinistica russa trascurò questa notizia fino al 1931 quando, con più realismo, le due quote furono identificate. Una fu riconosciuta come Peak Lenin per un’altezza di 24.600 feet (mt. 7.498) e l’altra, nemmeno a farlo apposta, fu battezzata Peak Stalin.
E’, più o meno, in questo periodo che balza alla cronaca un personaggio che diverrà uno dei padri nobili dell’alpinismo sovietico: Vitali Mikhailovich Abalakov. Nato in URSS nel 1906 è considerato, appunto, il padre dell’arrampicata sovietica. Rimangono di Abalakov molte prime salite, è stato, in ben dodici diverse occasioni, capo di spedizioni in alta quota, per ben dieci anni è stato campione di arrampicata dell’ex URSS ricevendo le più alte onorificenze del Paese. Il fatto di essere russo non gli precluse l’ingresso nella Commissione Sicurezza dell’UIAA, l’Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche, nella quale fu internazionalmente apprezzato per essere, non solo un esperto alpinista ma di svolgere anche una ricerca sistematica sia sui materiali che sui sistemi di assicurazione. Uno di questi, utilizzato per la progressione su ghiaccio, ci è stato tramandato con il nome, appunto, di “Abalakov”. 

Vitalji Abalakov (www.mybigwall.ru)

Il fatto di essere ingegnere meccanico di professione lo stimolò, inoltre, nella progettazione e nella realizzazione dei primi ramponi e dei primi chiodi in titanio, dei primi “nuts” di dimensioni variabili, delle prime “vere” viti da ghiaccio ma soprattutto fu il primo a capire, in largo anticipo sui tempi, l’utilità di superfici curve ad angolo costante. Detta così, per la maggior parte di noi, non significa molto, vediamo allora cosa vuol dire. Basandosi su delle spirali matematiche logaritmiche disegnate in modo che il peso producesse una forza rotatoria e, ancor più, potessero essere poste in fessure di diversa grandezza egli ideò quello che oggi conosciamo universalmente con il nome di “friend”.

Da questi studi, peraltro condivisi con tutta la comunità alpinistica, nacque nel 1972, grazie al grande intuito di Greg Lowe, il primo friend a molla anche se fu Ray Jardine, unanimemente riconosciuto come il padre del friend, a brevettarne, nel 1976, la versione definitiva.
Piccola divagazione su Ray Jardine a conferma del principio secondo il quale il mondo alpinistico, qualunque appartenenza abbia, è ed è sempre stato una fucina di idee, un comune terreno culturale. Con questo nuovo dispositivo Jardine stupì il mondo dell’arrampicata “liberando”, nel 1976, Crimson Cringe (7b) in Yosemite, ma soprattutto, qualche anno dopo, le incredibili Separate Reality e Phoenix. Proprio su Separate Reality introdusse un metodo che avrebbe fatto scuola, restare appeso ad un ancoraggio per meglio studiare i movimenti di arrampicata. Nel caso di Jardine l’ancoraggio era ovviamente un friend e quel metodo è oggi meglio definito “lavorato”. Ma torniamo all’alpinismo sovietico.
Fra le salite di Abalakov ricorderò la nord del Pic Lenin, il Pic Trapezia, il Pic XIX, il Khan Tengri ma anche altre sulle montagne della sua terra d’avventura preferita, il Caucaso, al Dychtau (inclusa la nord), al Schurovski, al Sahakhara, allo Shkelda, al Chanchahi e all’Ullutauchana. Nomi impossibili, montagne vere.
Notizie riguardanti realizzazioni alpinistiche coincidenti con il periodo della II Guerra Mondiale non ne abbiamo. Ma forse, per onestà, diciamo che è meglio dire non ne ho trovate. Proprio su Abalakov c’è una nota a margine, del 1950, nella quale viene definito come un brillante alpinista di cui si conosce l’ambizione di coronare l’ascensione del Monte Everest. Purtroppo Abalakov non riuscirà a coronare il suo sogno, dovremo aspettare il 1982 per vedere una spedizione russa all’Everest, evento di cui parleremo in seguito. Una nota del 1953, pubblicata su “Die Alpen”, rivista del Club Alpino Svizzero, riprende prontamente alcune pubblicazioni russe dove si afferma come l’alpinismo stia diventando, in Unione Sovietica, uno sport molto popolare. Si parla che nel Paese vi siano circa 17.000 persone dedite all’alpinismo, molte delle quali utilizzate nelle 26 spedizioni, realizzate in terra sovietica, fin qui organizzate. Spedizioni nelle quali, in taluni casi, hanno raggiunto cime diverse anche 50, 100 alpinisti contemporaneamente. Nomi non ne sappiamo, conosciamo solo le mete, molte delle quali in Pamir o nella penisola di Kamchatka. Sappiamo, invece, come un migliaio circa di questi appassionati abbiano preso parte a spedizioni nel Tien Shan dove si annota l’ascensione del Peak of the Centenary of the Russian Geographical Society alto 21.000 feet (mt. 6.400). Vi è voce, nello stesso periodo, di un tentativo russo all’Everest, forse dovuto al fatto che nel 1954 Sir John Hunt fu invitato a Mosca per ricevere l’Onorificenza di prima classe dell’Ordine di Montagna, ma è un tentativo rimasto solo a livello di “voce” non avendone alcuna notizia certa.
E’ del 1957 invece la pubblicazione di un libro, “Alpinisme Sovietque”, di A. Tcherepov, tradotto in francese, nel quale l’autore illustra la filosofia prevalente negli alpinisti sovietici. Parla soprattutto di salite realizzate al Khan Tengri che risultano “di alto profilo e ben eseguite, in condizioni difficili a causa della combinazione di altitudini himalayane con la prossimità della Siberia”. Tcherepov non esita a dichiarare che gli alpinisti sovietici non sono chiusi in loro stessi, ne giustifica semmai gli sforzi per l’amore primario nei confronti della scienza. Fra gli altri particolari svela anche un costume abbastanza in voga fra gli alpinisti sovietici, quello cioè di tumulare un ritratto di Stalin sulla cima delle montagne raggiunte. Sempre nel 1957 abbiamo notizia dell’ascensione della seconda montagna dell’Unione Sovietica in ordine di altezza,: il Peak Pobeda e dell’ascensione del Mustagh Ata (mt. 7.432) realizzata dalla spedizione condotta da E. Beletsky (è uno dei primi nomi conosciuti) che ha portato 19 alpinisti sovietici e 12 alpinisti cinesi sulla vetta. Nel 1959 viene pubblicato un libro di Mrs. Joyce Dunsheath il cui titolo è “Guest of the Soviets”. E’ in questo libro che vengono segnalati gli enormi progressi raggiunti, anche sotto il profilo organizzativo, dall’alpinismo russo nel Caucaso. Prima tappa della Sig.ra Dunsheath è Camp Dombai, nel Caucaso occidentale, dove riscontra un alto livello logistico e quindi, tappa successiva, l’ascensione del Monte Elbrus. In un periodo critico, per effetto della guerra fredda, la Sig.ra Dunsheath (che comunque era inglese) non esita a denunciare come il popolo sovietico sia mosso da un sentimento di amicizia nei confronti di ospiti stranieri dimostrato con tutte le premure del caso.
Oltre a Abalakov vi sono altri padri dell’alpinismo sovietico. Uno è Eugeny Beletsky e l’altro è Eugeny Tamm. Hanno curiosamente lo stesso nome proprio. Due parole su Beletsky: nasce a Sedlets, non lontano da Varsavia, nel 1908. Ha vissuto sostanzialmente a Leningrado in Ucraina, oggi Pietroburgo, fin dal 1925. Nel 1939, insieme ad altri alpinisti russi, entrò volontario nell’Armata Russa. Nel 1942 fu inviato in Caucaso, sul fronte Transcaucasico dove fu impiegato nella Scuola di Montagna che formava gruppi paramilitari particolarmente addestrati ai rigori e alla severità dell’ambiente montano. A guerra finita, ricevette numerosi riconoscimenti nazionali, fu il primo alpinista sovietico che possiamo definire di “alta quota”. Nel 1958 concluse, con Kovyrkov e Filimonov, una ricognizione tesa ad individuare vie di salita all’Everest, naturalmente dal versante nord. Una meta, quella dell’Everest, che gli fu negata per il precipitare della situazione politica fra Cina e Russia che non gli permise di partecipare a quella che avrebbe dovuto essere una spedizione congiunta e che invece, nel 1960, premiò solo la spedizione cinese. Le autorità cinesi lo premiarono tuttavia, nel 1962, con la Medaglia d’Oro riconosciuta ai vincitori del Mount Everest.
Mi permetto un’ulteriore parentesi: la spedizione cinese che raggiunse la cima dell’Everest nel 1960 fu la prima a realizzare l’ascensione lungo la via nord. Fu la prima se …. si esclude che Mallory ed Irvine l’avessero già raggiunta nel 1924. Del fatto ne ho parlato a lungo nel corso di qualche mia serata, è ovvio che il fatto, nemmeno troppo pellegrino, che Mallory abbia raggiunto la cima dell’Everest nel 1924 rimetterebbe in discussione anche la conquista di Tenzing Norkay del 1953. Conquista accreditata peraltro, per dovere di cronaca, anche a Edmund Hillary. Invito chi vuol saperne di più sul presunto ritrovamento di Andrew Irvine a consultare la pagina http://www.velocitypress.com/CopyIrvine.shtml nella quale Tom Holzel, sulla scorta di immagini aeree scattate da Brad Washburn nel 1984, dichiara di averne trovato il corpo sulla “fascia gialla” della nord. Andiamo avanti …
Viene pubblicato, nel 1960, “The Red Snows”, autori del libro sono Sir John Hunt e Christopher Brasher. Un libro che anticipa, in buona parte, il contributo di John Waterman, del 1974, che vedremo fra poche righe. The Red Snows descrive la situazione in Unione Sovietica come altamente propedeutica all’attività in se, gli alpinisti sono classificati in cinque categorie, i campi ben organizzati. Non può mancare nel libro un accenno agli sforzi sovietici per l’Everest. Si parla delle ricognizioni del 1958, del tentativo di organizzare una spedizione in comune con la Germania dell’est, della mancata ricognizione del 1959, della riuscita della spedizione cinese del 1960. Si registra nel 1967 la salita della parete nord del Dschigiti (mt. 5.170) in Tien Shan, una prima salita riuscita a Aleksander Riabukhin, Vladimir Samokhvalov, Valentin Makovetzki e Olga Trubnikova. Le salite si susseguono negli anni con una certa intensità, si aprono vie nuove, l’alpinismo sovietico raggiunge un alto livello di maturazione.
Si muove anche il fronte dell’arrampicata vera e propria. Sulle gare sovietiche abbiamo una interessante testimonianza che risale all’ottobre del 1974. Ne è Autore John Waterman, alpinista americano di grande talento e rara abilità. Per inciso dirò fra le altre salite Waterman detiene anche la prima solitaria (1973) della parete sud e la prima traversata completa delle cime del Mount Hunter in Alaska. Waterman rappresentò, insieme a John Griffith e Jineen Janetsky, l’American Alpine Club ad un incontro internazionale di arrampicata in Crimea (The American Alpine Journal, 1974, pagg. 131,134), un incontro incorniciato come Campionato Nazionale Sovietico. Waterman spiega come in Russia vi fossero, in quel periodo, cinque categorie di livello di arrampicata, lo abbiamo già visto parlando del libro di John Hunt: le prime tre basate sulle potenziali capacità individuali, la quarta comprendeva i candidati al titolo di “maestro di sport”, la quinta i maestri veri e propri.
Vi era, in effetti così risulterebbe, un’ulteriore categoria, utilizzata peraltro con parsimonia, che raccoglieva quella categoria di alpinisti che definirei, secondo la nostra mentalità, “emeriti”. Molti dei principianti che si dedicavano all’arrampicata erano scelti a priori dalle “associazioni sindacali”, chiamiamole così, che curavano la loro formazione attraverso la partecipazione a campi estivi sotto la supervisione di arrampicatori più esperti. Il grosso delle spese, circa il 70%, era a carico delle associazioni, colmava la quota il candidato stesso. Sicuramente Waterman rimase molto impressionato dal livello degli arrampicatori russi che era, evidentemente, molto alto. Sulle pareti, poste in prossimità del campo, all’incirca sui 120 metri di altezza, gli arrampicatori potevano scegliersi qualunque tracciato per i loro allenamenti per quanto, essendo oggetto di valutazione anche la velocità, scegliessero quelli di più contenute difficoltà. Dimostravano anche una grande forza atletica e forti doti di resistenza. Gli itinerari erano marcati da grandi punti verniciati sulla roccia, gli ancoraggi facili da trovare. “Il 6 ottobre arrivò – scrive Waterman –  e fummo portati ad una parete sconosciuta, luogo della competizione. Arrivammo ad un settore della parete dove vi era uno spazio adatto ad accogliere un gran numero di persone. Sedie per i giudici, molte bandiere ed anche un piccolo padiglione con un’area di primo soccorso. Alcuni settori della parete erano stati divisi da corde per delimitare i tracciati. […] La fine degli itinerari, approssimativamente di 45 metri, erano stati marcati con enormi quadrati di vernice rossa. […] Per le soste utilizzavano cavi di acciaio. L’assicuratore seduto su una sedia teneva l’arrampicatore con una sorta di “machine”. Era di grosso aiuto per l’arrampicatore sapere di disporre di un cavo piuttosto che il loro abituale assortimento di vecchie corde. […] Tutto era cronometrato. […] Per gli arrampicatori sovietici ciò era il culmine di mesi di allenamento”.
Quella sera stessa John Waterman si incontrò con alcuni esperti arrampicatori con i quali ebbe modo di capire un po’ della storia dell’arrampicata sovietica. Riferì che da molti anni, in Russia, si organizzava almeno un evento annuale di arrampicata anche se molte erano le resistenze al suo sviluppo. Gli organismi sovietici preposti guardavano, infatti, con più interesse all’ascensione di montagne di rilievo piuttosto che allo sviluppo dell’arrampicata su roccia. Le spedizioni organizzate per raggiungere obiettivi di alta quota erano considerate più importanti. Vedremo, infatti, come questa tendenza porterà alla riuscita di molte prime salite himalayane.
Troviamo, nel 1976, la descrizione di un fatto che aveva avuto già alcuni precedenti e che era destinato ad avere un seguito. Giunge a Seattle un team di alpinisti sovietici, invitati naturalmente dalle autorità statunitensi, che hanno in programma la salita del Mount Rainier, nello Stato di Washington, famoso per le sue innumerevoli cascate di ghiaccio. I russi, come scrive Alex Bertulis (AAJ – A Soviet First ascent in the North Cascades – 1976 pagg. 340-344) erano entusiasmati da una “hard first ascent”. Il team russo era composto da Vitaly Abalakov (non poteva mancare), Vladimir Shatayev, Vyacheslav “Slava” Onishchenko, Valentin “Valia” Grakovich, Anatoly “Tolia” Nepeomnyashchy, Sergei Bershov. Una delle cose che maggiormente impressionarono i sovietici furono le tende costruite in “rip-stop”, così come gli americani furono impressionati da molte soluzioni, inventate da Abalakov ovviamente, che servivano per la sicurezza in parete. Ma la cosa più interessante, soprattutto per gli americani che avevano, ed hanno, una mentalità completamente diversa dalla nostra, fu il metodo “pulito” di arrampicare dei russi. In sostanza quello che oggi chiamiamo più comunemente “clean climbing”. Degli scambi fra alpinisti russi e sovietici ci da notizia Rick Silvester (From Russia, with luck – AAJ – 1979 – pagg. 62-69) raccontandoci come dal 1974 ne erano avvenuti tre URSS-USA, invitati dalla Soviet Mountaineering Federation, e due USA-URSS, invitati dall’American Alpine Club.
Evgeny Tamm (www.russianclimb.com)

Ho parlato poco fa di Eugeny Tamm. Vediamo chi è questo personaggio di indubbio valore, a ragione considerato uno dei padri dell’alpinismo sovietico. Tamm è principalmente conosciuto per essere stato capo della prima spedizione russa, in assoluto, in Himalaya, spedizione che nel 1982 vinse la parete sud ovest dell’Everest. Tutti noi, appassionati di storia dell’alpinismo, sappiamo quanto merito ha avuto, nel 1975, la spedizione diretta da Chris Bonington che per prima superò questa immensa parete. Una parete dove le insidie e i pericoli sono pane quotidiano, soprattutto nel superamento della fascia rocciosa centrale dalla quale poi muoversi verso la cima. A raggiungere per primi la cima furono due autentici fuoriclasse che rispondono al nome di Dougal Haston e Doug Scott. A proposito della spedizione russa, “gli osservatori occidentali ipotizzarono con sicurezza che i sovietici avrebbero optato per la via normale lungo la cresta SE, trattandosi della loro prima importante spedizione himalayana e non volendo assolutamente fallire. […] mentre il valore politico di un successo era minimo, molte persone erano pronte a sfruttare ai fini di propaganda un fallimento. Fu dunque una sorpresa quando i russi scelsero una linea d’ascensione fino ad allora mai tentata e dall’aspetto difficile sulla parete SO” (Everest – Walt Unsworth – Cap. 21 pagg. 506-511). Eugeny Tamm non volle quindi arrendersi ad una, nemmeno scontata, ripetizione della via inglese ma intese aprire un nuovo itinerario che fosse perciò autonomo rispetto a quello tracciato, con tanta maestria, dagli inglesi nel 1975. Scelse il Pilastro Centrale, a sinistra della via inglese, al di sopra di quel budello di ghiaccio, chiamato Couloir Bonington, che permise agli inglesi di superare la fascia centrale di rocce e presentarsi di fronte al grande pianoro sommitale che era la chiave dell’Everest. Riuscì nell’impresa portando in vetta, fra il 4 e il 9 maggio 1982, 11 alpinisti, tutti russi e superando difficoltà, nel settore centrale della via, che ancora oggi vengono considerate il più alto livello su roccia mai raggiunto all’Everest quindi a quelle altitudini: “17 lunghezze su alcuni dei tratti più difficili mai visti sull’Everest” (o.c.).

Al di là delle questioni tecniche, comunque di prim’ordine, è necessario anche un giudizio complessivo dell’impresa, giusto per inquadrarla nella realtà dell’alpinismo sovietico. Per fare ciò approfitto di quanto scritto da J. Town su Climber e and Rambler del novembre 1983: “D’altra parte l’immagine di una macchina ben oliata in grado di portare in successione squadre di alpinisti in vetta è fuorviante. Alcuni dei tentativi finali spinsero i partecipanti al limite, se non oltre, e misero in luce lo strano contrasto tanto spesso presente nelle passate imprese dei russi: una enfasi organizzativa sulla sicurezza e la prudenza combinate con una squadra alpinistica molto generosa sul terreno, tesa all’inseguimento dell’obiettivo. […] Gli incidenti alpinistici sono spesso considerati in URSS una specie di fallimento individuale o di gruppo. Il fatto che Tamm permise la prosecuzione delle ultime ascensioni ne dimostra il coraggio e la comprensione. Sarebbe stato facile far discendere tutti dalla montagna e partire per gli onori di Mosca”. In ultimo, doverosamente, i nomi di coloro che raggiunsero la cima: Eduard Myslovsky, Vladimir Balyberdin, Mikhail Turkevitch, Sergei Bershov (4 maggio),, Valentin Ivanov, Sergei Ephimov (5 maggio), Kazbek Valiev, V. Khrisshchaty (8 maggio), Yuri Golodov, Vladimir Puchkov, Valery Khomutov (9 maggio).
Spedizione sovietica all'Everest - 1982 (www.poxod.ru)

A margine, ed anche se purtroppo diminuiscono lo spazio a mia disposizione, due considerazioni. La prima: sul versante nord, nei giorni in cui i russi vincevano il Pilastro Centrale della parete SO, Chris Bonington, abile capo di quella spedizione che per prima vinse la parete, era immerso in una nuova spedizione il cui obiettivo era quello di raggiungere la cima dell’Everest attraverso l’inviolata ed integrale cresta nord est. Pochi giorni dopo il successo della squadra russa, il 15 maggio 1982, due uomini che facevano parte della spedizione scomparvero senza lasciare traccia. Si trattava di Peter Boardman e Jo (Joseph) Tasker, due autentici, straordinari alpinisti. Ma questa è un’altra storia …

La seconda: non vi sono, a tutt’oggi, molte vie aperte sulla parete SO. L’ultima in ordine di tempo è stata aperta dal coreano Park Young-Seok che già dal 2001 fa parte della famiglia di coloro che hanno raggiunto la cima di tutti i 14 ottomila, ottavo alpinista a riuscire nell’impresa. Nel dettaglio della nuova via coreana risulterebbe una diversità, da qui il problema posto alla comunità alpinistica mondiale, riguardo alla quota, dichiarata dall’allora URSS Sports Committee, relativa al Campo V della spedizione russa utilizzato anche dai coreani. Credo francamente che ciò non tolga niente al merito di Eugeny Tamm.
Eduard Myslovsky sulla cima dell’Everest il 4 maggio 1982 (poxod.ru)

Siamo quasi al termine di questo mio contributo, mancano pochi anni alla inevitabile dissoluzione dell’URSS, da quel momento non parleremo più di alpinismo sovietico ma di alpinismo Khazako, Uzhbeko, Russo. Nel 1986 muore Abalakov, l’America gli renderà omaggio ricordando, con trasporto, che Vitalji era membro onorario dell’American Alpin Club fin dal 1976. Nel 1988 Vladimir Shatayev, che abbiamo già incontrato parlando del team sovietico che scalò il Mount Rainier, pubblica Degrees of difficulty. Nella realtà il libro parlava poco di gradi di difficoltà e molto dell’ambiente alpinistico sovietico, peraltro in modo molto critico nei confronti delle donne che praticavano quest’attività. William Garner sottolinea, nella sua recensione del libro, come Shatayev avesse raggiunto un buon livello di disciplina ed indipendenza attraverso la pratica dell’alpinismo e come questa esperienza ne abbia molto sviluppato il carattere. Ma la cosa più interessante del libro, che sostanzialmente è un’autobiografia dell’autore, è la descrizione critica nei confronti della società sovietica altamente burocratizzata anche negli aspetti che riguardavano la pratica reale dell’alpinismo. Una critica che non taceva tutti gli ostacoli che un alpinista di professione doveva superare per svolgere serenamente ciò che amava di più.

Mi corre l’obbligo chiudere con Anatolji Bukreev, soprattutto conosciuto per quanto accaduto all’Everest nel 1996. Ne parleremo fra poche righe.
Nasce nel gennaio 1958 a Korkino, uno dei tanti sperduti centri abitati ai piedi dei Monti Urali. Si laurea nel 1979 all’Università di Pedagogia di Chelyabinsk ed a 21 anni si trasferisce ad Alma Ata, in Kazakhyzstan, dove prende parte con profitto ai vari corsi di alpinismo previsti dall’ordinamento sovietico. Nel 1989 partecipa alla spedizione, che sarà la seconda in assoluto nella regione himalayana nella storia della dell’Unione Sovietica, che ha come obiettivo la cima del Kangchenjunga, la terza montagna più alta della Terra. Capo della spedizione è quel Eduard Myslovsky che abbiamo già incontrato parlando della spedizione del 1982 alla parete sud ovest dell’Everest. Fanno parte di questa seconda spedizione himalayana 32 alpinisti, fra cui Bukreev. La spedizione coronerà tutti i propri obiettivi permettendo a quasi tutti i partecipanti di raggiungere la cima del Kangchenjunga e realizzandone la prima traversata completa delle quattro cime da due diversi team di alpinisti. Dissolta l’Unione Sovietica, Bukreev acquistò la cittadinanza kazakha dando un forte contributo all’attività alpinistica nella regione. Ha raggiunto la cima di sette ottomila, è morto nel dicembre del 1997, trascinato dal distacco di una cornice di ghiaccio, nel tentativo di aprire una nuova via alla parete sud dell’Annapurna in compagnia di Simone Moro.
Torno per un attimo sulla questione Everest 1996. Non tanto per discuterne vicende e circostanze, già sufficientemente dibattute, quanto per dare un mio umile contributo alla memoria di Bukreev, uno dei più grandi alpinisti della nostra storia. Molti di voi, molti di più di quanti hanno letto “Cronaca di un salvataggio impossibile” di Bukreev, avranno invece letto “Aria Sottile” di Jon Krakauer, giornalista-scrittore che mastica qualcosa di alpinismo e che, nel 1996, è stato pagato dalla rivista “Outside” per raccontare a una vasta platea di lettori cosa comporti scalare, possibilmente raggiungere la cima dell’Everest. In quell’occasione qualcuno raggiunse la cima, qualcuno ci lasciò la pelle.

Bukreev era una guida pagata dalla Mountain Madness, impresa commerciale specializzata in salite di grandi montagne, società fondata da Scott Fisher, ottimo ed esperto alpinista, purtroppo fra coloro che ci rimisero le penne. Nel libro Aria Sottile, Krakauer non lesinò critiche ed accuse al comportamento di Bukreev, purtroppo l’inesperienza e la presunzione fanno talvolta brutti scherzi. Non intendo essere l’avvocato difensore di Bukreev né intendo dire che all’Everest, nel 1996, non furono sbagliate certe valutazioni. Ma se qualcosa andò nel verso sbagliato, gran parte  di questa responsabilità è da ricercare nell’affollamento che i tanti clienti di Mountain Madness ma anche della Adventure Consultants di Rob Hall (morto anch’egli nella stessa occasione) e di altre compagnie, crearono lungo un unico itinerario, quello del Colle Sud, per di più con il tempo che velocemente andava peggiorando.

Poster della spedizione sovietica al Kangchenjunga

Per come la vedo io, quella tragica esperienza è stata un’occasione mancata. Un’occasione mancata perché avrebbe, invece, potuto essere quella giusta per riflettere, non tanto su presunte colpe dell’uno o dell’altro come, nella fattispecie, ha fatto Krakauer, quanto sull’utilità, sull’operato e sull’ambizione culturale delle società commerciali. Questa, secondo me, la lente sotto la quale mettere a fuoco quanto avvenuto all’Everest. Qualcuno ci ha provato senza raggiungere alcun risultato, le spedizioni commerciali seguitano a portare clienti sull’Everest. L’Everest stesso seguita ad essere preso d’assedio, ed in modo esponenziale, da chiunque abbia soldi sufficienti per pagarsi una guida, un viaggio, bombole di ossigeno poi abbandonate dove capita. Qualcuno ogni tanto muore, qualcuno vivaddio ce la fa per il piacere di raccontare la sua folle esperienza ai nipoti. Il Sig. Krakauer non è l’unico ad avere scritto un libro che rievoca fatti e circostanze di quella tragica esperienza, ve ne sono altri e secondo me anche migliori. Charlotte Fox, cliente di una delle spedizioni commerciali all’Everest nel 1996, scrisse un contributo per l’AAJ il cui titolo poteva aprire un’interrogativo o chiudere definitivamente ogni dibattito. “A time to live, a time to die”, era intitolato, un tempo per vivere ed uno per morire. Scrisse :”… battevo le braccia ed urlavo nel vento per il dolore che il freddo mi procurava quando improvvisamente apparve Anatolji nel fascio della mia pila frontale. Fece cadere una bombola di ossigeno davanti a Sandy e disse “Venite con me”. Dopo aver portato in salvo le due donne, Bukreev ripartì altre tre volte per raggiungere Yasuko e Beck, clienti di Rob Hall  dispersi al Colle Sud. “Egli fece il massimo che potesse fare in quelle condizioni, e alla fine anche molto di più di chiunque altro… gli sforzi di Anatolji per recuperarci furono veramente quelli di un eroe, capì cosa provavamo come se si trattasse della propria persona … la stampa purtroppo ha spesso necessità di elaborare un fatto al solo scopo di generare una storia di maggior interesse”. (AAJ – 1996 pagg. 27-36 “A time to live,a time to die – Tragedy on the southeast ridge of Mount Everest). All’alba, anche se esausto, si mise in cerca di Scott Fisher, un ultimo, disumano sforzo per soccorrere ancora qualcuno. Trovò Fisher morto, a sedere. Si tolse il piumino e lo coprì, capì che era tempo di scendere. Questo è tutto.

Chiudo qua, cosciente del fatto che per esaudire qualunque curiosità sarebbe stato necessario uno spazio che purtroppo non abbiamo. L’alpinismo sovietico è stato una realtà ben radicata, una realtà forse esasperata da una cultura che prevaleva, in ogni settore di attività, sul puro divertimento premiando una meritocrazia affatto scontata.
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