“Hichory, un legno per lo sci” di Sergio Rinaldi

Gennaio 2006

L’idea di costruirci un paio di sci ci venne nel 1946, avevo sedici anni, quando mio zio Attilio che era imbarcato su una nave ci parlò di un legno chiamato Hickory … dal colore bruno chiaro, proveniente dalla Norvegia o dall’America del Nord, che in quei giorni veniva scaricato dalla stiva della sua nave nel porto di Genova. Con l’amico Dria, che lavorava con me nello Stabilimento “Meccanico” di Genova Sampierdarena, cogliemmo l’occasione al volo e trascurando le future difficoltà costruttive ci imbarcammo nell’impresa. Mio zio Attilio avrebbe trovato il modo per farci passare la Dogana sotto la Stazione Marittima. Per il trasporto dei tavoloni ci facemmo imprestare dai pescatori locali di Cornigliano un carretto a mano.

Disegno di S. Rinaldi

Anemmo!” – dissi al Dria, e così partimmo a piedi, ma con tanto entusiasmo, per i 10 chilometri che ci separavano dal Porto di Genova. Avevamo già sentito parlare dei pregi di questo legno elastico ma resistente e flessibile, adatto allo sci, ma che restando per noi un mito tecnologico ed economico era inarrivabile. Sapevamo che sci di frassino avevano già riempito i negozi specializzati ma, pur essendo flessibili essi erano meno duraturi e più rigabili. Poi si passò a quelli di frassino compensati, per contenere la svergo-latura, quindi si iniziò a sfruttare il prezioso Hickory dapprima come strisce dure di irrobustimento sui bordi laterali degli sci, specie per quelli delle corse di fondo, e poi come legno base per l’evoluzione attuale dell’epoca. Era un sogno che anche noi ci preparavamo a realizzare. La leggenda degli sci per “camminare” sulla neve non ricordo come si era diffusa in noi, ma mi sovviene di un giorno, negli anni 1943/44, quando con mio fratello Gian si disfece una robusta botte per vino nella nostra cantina piemontese per utilizzare quattro doghe di rovere leggermente ricurve, legate poi con chiodi e spaghi ai nostri miseri scarponcelli per scorrazzare nella neve alta delle colline del Monferrato. Quello fu il nostro primo tentativo di “galleggiamento” sulla neve, finito amaramente con tanto di raffreddore e di scappellotti materni. Ora l’avventura era un’altra: si trattava di costruire un nuovo mezzo di locomozione per correre su quella coltre bianca. Io e il mio amico Dria, incoraggiati dai nostri sedici  e diciotto anni, senza una lira in tasca, partimmo da Cornigliano con il nostro carretto a mano.

Mio zio Attilio regalò qualche pacchetto di sigarette ai doganieri del porto e così potemmo passare fino al molo dove era attraccata la sua nave. Scaricammo sei tavoloni lunghi almeno due metri e mezzo e li legammo strettamente al carretto. Poi salutammo mio zio e ci mettemmo in cammino a piedi per ritornare a Cornigliano, uno davanti e uno dietro. Fu una lunga marcia, ma allora quello era un mezzo di trasporto assai privilegiato. Dopo lo stoccaggio dei legni nella mia cameretta modificai l’orografia dei scarsi mobili esistenti, con l’aiuto di Gian e del Dria, per fare spazio alla lavorazione degli sci. Avevo fatto disegni dettagliati di tutte le zone trasversali e longitudinali del legno da lavorare. Passammo da un falegname amico per farci asportare con la sega a nastro l’eccedenza esistente per costa, poi iniziammo a mano, a casa, l’asportazione del contorno e della piallettatura e finitura generale, controllando le misure con un calibro. Fu un lavoro lento, di precisione, fatto nelle ore di tempo libero, con sommo disappunto di mia madre disperata per i trucioli e la segatura nella mia cameretta. Con una sponderuola intaccammo i bordi longitudinali sottostanti per creare la sede 5×1 mm. della laminatura in ferro dolce lunga circa 20 cm. per ogni tratto e fissata con piccole viti lunghe 4 mm.

Questo HICKORY era un legno piuttosto duro da lavorare, simile al noce, ma che forse ci avrebbe fornito in seguito più garanzia di resistenza ed elasticità. L’impresa per ricavare tre paia di sci non fu semplice, dato i mezzi scarsi disponibili in quell’epoca. Quando passammo alla fase di piegatura della punta ideammo un congegno fatto di morsetti in tiraggio mossi alternativamente dopo una passata di acqua calda stesa con pennello sulla superficie da flettere, riscaldata ed essicata da una fiaccola a gas accesa. L’alternanza dei movimenti fatti da me e dall’amico Dria ci permise di piegare la punta avendo cura di non abbrustolire il legno. La parte curiosa fu che dopo la piegatura, una volta raggiunta la curvatura indicata dalla sagoma, non si ebbe un ritorno elastico del legno, ma esso rimase sempre stabile nella sua nuova forma. Ci stringemmo la mano contenti di questa incognita risolta. Passammo poi all’esecuzione della scanalatura centrale sottostante e al montaggio delle lamine metalliche laterali, alla verniciatura e alla laccatura “bordeaux” inferiore, che avrebbe dovuto assicurare, com’era in auge in quei tempi, un migliore scorrimento superficiale. I “legni” erano finalmente pronti con quell’HICKORY proveniente da qualche albero dei paesi nordici. Il montaggio delle ganasce fu una cosa piuttosto semplice, una volta identificato il baricentro, preferendo in anteprima montare degli attacchi tipo “Kandhaar” con cavetto e leva di tensione. Il lavoro era finalmente terminato ed io e il Dria ne eravamo fieri e li facemmo vedere agli amici che ne rimasero sorpresi e un po’ invidiosi.

Poi partimmo subito per qualche giorno nella zona del Mongioje, sulle Alpi Liguri, desiderosi di farne il collaudo. Avevamo 18–20 anni e il nostro entusiasmo non bastò da solo a superare o mitigare le insidie e i disagi derivati dai nostri scarponi poco allacciabili e inzuppati di “sugna”, le fascette attorcigliate avvolte sui polpacci a mo’ di ghetta non certo impermeabile, la nostra moderata esperienza scialpinistica, la traccia rossa lasciata dalla lacca che seguiva il nostro passaggio, le tessilfoche ricavate da striscia di canapa presto inzuppata e indurita, da cavetti di acciaio che spesso si spezzavano con le basse temperature. Ma nonostante queste ed altre difficoltà quegli sci di HICHORY, desiderati e costruiti con tanta passione ed orgoglio ci permisero di galleggiare e di correre sulla neve, di superare brillantemente pendii esposti e blocchi di valanghe e di vivere giorni semplici e felici che cementarono, anche per il futuro, la nostra passione per la neve.

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