“Il borgo di San Pellegrino in Alpe” di Stefano Seniori Costantini

Gennaio 2009

Il borgo di San Pellegrino in Alpe è un insediamento molto antico e si trova lungo una delle direttrici principali che attraversano l’Appennino fin dai tempi più remoti.  La via Bibulca, il cui nome significa che poteva essere percorsa da un carro tirato da due buoi, collegava Modena e Reggio alla Garfagnana ed ebbe grande importanza nell’ Alto Medioevo, perchè permetteva ai Longobardi di raggiungere i loro possedimenti nella valle del Serchio. In seguito l’imperatore Federico Barbarossa affidò la manutenzione della strada all’Abbazia di Frassinoro, fondata nel 1071 sul versante emiliano da Beatrice di Lorena, madre di Matilde di Canossa. L’Abate doveva curare la manutenzione dei ponti  di fondovalle sul Secchia e sul Dolo e la strada fino a Chiozza in Garfagnana, ben oltre quindi il Passo delle Radici  e San Pellegrino, in compenso aveva il diritto di richiedere il pedaggio ai viandanti.
Era naturale che su questo percorso sorgessero dei rifugi per dare ospitalità a pellegrini e mercanti: il primo documento pervenutoci, che attesti l’esistenza di un ospitale a San Pellegrino, risale all’anno 1110. Esso era amministrato da una confraternita e per provvedere all’ospitalità dei viandanti la comunità si sosteneva con l’allevamento delle greggi e con le  offerte raccolte in Toscana e nella pianura padana. Sul versante emiliano, in località San Geminiano, sorgeva una struttura analoga, di cui però non è rimasta più alcuna traccia. Questa direttrice mantenne la sua importanza attraverso i secoli e infatti molto tempo dopo  passerà da San Pellegrino anche la strada che il matematico Domenico Vandelli iniziò a costruire nel 1739, su incarico del Duca Francesco III d’Este, per collegare Modena a Carrara. La via Vandelli passa proprio sotto la galleria, che separa l’ospizio dalla chiesa. Oggi i locali destinati in passato ad accogliere i pellegrini e i mercanti sono stati restaurati e ospitano il museo etnografico della provincia di Lucca “Don Luigi Pellegrini”. Nelle sue sale sono esposti attrezzi agricoli e artigianali, suppellettili domestiche e mobili utilizzati in Garfagnana e nell’alto Appennino modenese e reggiano a partire dall’inizio dell’Ottocento fino a qualche decennio fa.
Tenendo conto della storia passata, non ci si può meravigliare se oggi si è mantenuta una situazione particolare per quanto riguarda la suddivisione amministrativa di questo territorio. Quando si accompagna a San Pellegrino qualcuno che non c’è mai stato, la prima cosa che si racconta è che all’interno della chiesa in una teca di vetro, posta sotto un tempietto marmoreo dello scultore e architetto lucchese Matteo Civitali (1436-1502), sono conservate le reliquie di San Pellegrino e del suo compagno di eremitaggio San Bianco e che i due santi hanno la testa in Emilia e i piedi in Toscana; all’inizio si stenta a credere a questa affermazione, perchè è evidente che lo spartiacque tra le due Regioni corre ben più a monte del piccolo borgo. Però effettivamente parte del Santuario e della piazza, le abitazioni di cinque nuclei familiari e altre estensioni di terreno, che costituiscono il nucleo fondamentale del paese, sono un’isola amministrativa del Comune emiliano di Frassinoro; questa giurisdizione  viene ribadita anche nei pannelli informativi, che questo Comune ha posto all’interno dei suoi confini lungo le principali vie di comunicazione.
La questione dell’attribuzione del territorio di San Pellegrino è stata esaminata da numerosi storici, primo tra tutti Lodovico Antonio Muratori nel secolo diciottesimo, ma forse non può dirsi ancora conclusa, perchè il comune di Castiglione Garfagnana, che circonda da tutti i lati l’isola amministrativa emiliana, contesta ancora l’attuale ordinamento. Anche la leggenda, che ci è pervenuta in un codice conservato nella Biblioteca Statale di Lucca, riflette una rivalità tra le popolazioni dei due versanti dell’Appennino: San Pellegrino era figlio del re di Scozia (o d’Irlanda), che sulla via del ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, decise di fermarsi su questi monti per vivere da eremita. A quel tempo sull’Appennino modenese si stendeva un’immensa foresta infestata da numerosi demoni; dopo anni di lotte con questi il Santo riusci’ alla fine a rendere sicuro il passaggio ai pellegrini che si recavano a Roma, i romei, e pertanto le dette il nome di Selva Romanesca. La fama della sua santità si diffuse ben presto tra la popolazione e dopo la morte, quando fu ritrovato il corpo, sorse subito la questione sul luogo in cui conservare i suoi resti: i “lombardi” volevano trasportarlo nella loro pianura, ma i toscani si opposero. Sul posto si recarono anche Geminiano e Severo, vescovi di Modena e di Ravenna, i quali si adoperarono per trovare una mediazione: fu deciso cosi’ di attaccare al feretro con il corpo di San Pellegrino due torelli non domati e che esso rimanesse poi là dove venisse condotto. Le due bestie si mossero con tale mansuetudine da sembrare domate e arrivate nel luogo detto Termae Salonis si fermarono e non si spostarono più. I vescovi, riconoscendo l’intervento divino, decisero di costruire in quel luogo una Basilica in onore del Santo.
Numerose sono state le personalità del passato che si sono recate a rendere omaggio a San Pellegrino: due lapidi nel Santuario testimoniano la venuta di Pietro Leopoldo granduca di Toscana e di Francesco III duca di Modena nel secolo diciottesimo, ma oltre a questi possiamo ricordare anche le visite di Arrigo figlio di Federico II nel 1216, dell’imperatore Lodovico il Bavaro e di Giovanni di Lussemburgo re di Boemia nel secolo quattordicesimo, di Lodovico Ariosto, quando era governatore della Garfagnana, di Michelangelo Buonarroti, della regina Cristina di Svezia nel 1658, di  Lodovico Antonio Muratori,  di Lazzaro Spallanzani, del poeta inglese Shelley e più recentemente di Giovanni Pascoli.
La devozione per San Pellegrino si è mantenuta attraverso i secoli nelle popolazioni dei due versanti dell’Appennino e ancora oggi i fedeli partecipano in suo onore  alle processioni del primo di agosto, mentre numerosi sono i gitanti  che si recano alla tradizionale festa del giorno 15 dello stesso mese. Nei pressi del borgo di San Pellegrino c’è un luogo detto il Giro del Diavolo, dove è possibile osservare una distesa di grosse pietre; non è raro anche sull’Appennino trovare ai piedi delle più ripide pareti rocciose una petraia, quello che stupisce in questo caso è il fatto che, pur essendo vicini al crinale, siamo in una zona quasi pianeggiante; li’ vicino però  un pannello informativo ci spiega l’arcano: questo è il posto in cui secondo la leggenda il Diavolo, indispettito per non essere riuscito a far cadere in tentazione San Pellegrino, gli dette uno schiaffo cosi’ violento da farlo girare tre volte su se stesso. Memori di questo episodio i pellegrini, che desiderano espiare le loro colpe, portano fin quassù una grossa pietra e, dopo aver fatto per tre volte il giro del luogo, la buttano nel mucchio. Se qualcuno volesse seguire questo esempio, non dimentichi però che il peso della pietra da portare al Giro del Diavolo deve essere proporzionato alle colpe commesse.
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