“La scomparsa dell’Aletsch” di Marco Gori

Gennaio 2006

In una fresca mattina di metà luglio esco di buon ora dal piccolo rifugio sulla morena laterale e mi incammino tra i pascoli fioriti di Märjelensee,  verso il grande fiume di ghiaccio di cui intravedo già la sponda …

E’ il ghiacciaio dell’Aletsch, un immenso serpente bianco che cala dalle mitiche vette dell’Oberland (il famoso Eiger, il Mönch, lo Jungfrau, e ancora il Fiescherhorn e l’Aletschhorn) e avanza per 22 kilometri fin qui nel Vallese. La sera prima, durante la cena a base di fonduta (che da queste parti ha uno strano sapore acidulo, al punto da chiedermi ogni volta se non fosse corretta col genepy), la mia attenzione era tutta per una foto d’epoca appesa al muro,

Ghiacciaio dell'Aletsch nel 1856

un’immagine che risaliva probabilmente alla fine dell’800 e che ritraeva quello stesso posto in cui ci trovavamo, cosa che si intuiva più dalla corona di alte montagne che la circondavano che dall’aspetto generale. Märjelensee appariva chiusa da un muro di ghiaccio, tanto alto e compatto da aver creato un lago di sbarramento che occupava quasi tutto il resto della valle: dopotutto il toponimo stesso testimonia l’antica presenza di un grande lago, ora totalmente scomparso se si esclude qualche piccolo acquitrinio relitto e, ovviamente, il lago artificiale alle spalle del rifugio.

Scendendo verso l’Aletsch mi accorgo che il paesaggio era molto cambiato dai tempi in cui fu scattata la foto: la vallecola non era più sbarrata e per salire sul ghiacciaio vero e proprio diventava necessario aggirare una serie di blocchi di ghiaccio azzurro che dovevano essere quanto rimaneva della massa che un tempo, spinta a forza dall’avanzata del ghiacciaio retrostante, risaliva le prime rocce di Märjelensee. Sin dal mio arrivo nel Vallese, una romantica regione svizzera a due passi dal confine italiano, fui accolto dalle immagini pubblicitarie che inneggiavano al ghiacciaio più grande delle Alpi, patrimonio dell’UNESCO, un patrimonio in pericolo a dire il vero, in quanto minacciato dal famoso riscaldamento globale. Da anni ormai gli scienziati denunciano un progressivo riscaldamento della Terra dovuto all’immissione di gas (principalmente anidride carbonica) nell’atmosfera, in quantità molto superiori a quelle che possono essere sopportate dal delicato sistema di equilibri su cui la Terra si basa. Tali gas creano uno strato permeabile all’irradiazione solare che riscalda il suolo ma impermeabile poi alla dispersione del calore verso il cosmo, dando vita al tanto famigerato “effetto serra”. E, cosa ancora più importante, questi gas provengono principalmente dall’attività antropica, che da una parte l’immette nell’atmosfera (dalle ciminiere, dai tubi di scappamento delle nostre auto, dagli incendi più o meno dolosi), mentre dall’altra distrugge le grandi foreste, unico sistema di riciclaggio della CO2. Il ben famoso trattato di Kyoto, accordo internazionale per la riduzione delle emissioni di gas inquinanti e CO2, manca proprio delle firme dei paesi principalmente responsabili dell’inquinamento mondiale, mentre altri governi stanno seriamente pensando di recedere dal trattato. Come spesso accade, quando un allarme scientifico entra nelle nostre vite quotidiane si riduce di solito ad argomento di conversazione adatto a momenti particolarmente noiosi, inquinato com’è da considerazioni personali quanto da voci contrarie che annunciano nuove ere glaciali.

Forse ci attendiamo le tempeste polari di certi film, e quindi il fatto di avere il solito agosto caldo, o un usuale gennaio freddo, ci tranquillizza non poco. Oppure al contrario cerchiamo i segni della catastrofe ecologica nel temporale particolarmente intenso che ci ha scoperchiato la casa, o nell’inverno poco nevoso che ci ha impedito di sciare. Quello che dimentichiamo è che gli sconvolgimenti climatici, persino quelli di origine antropica, che pure sono caratterizzati da un’impressionante velocità di evoluzione, sono molto difficili da registrare nella breve esperienza di un individuo. Quanto alle misure, agli allarmi del tipo “la terra si è riscaldata  di 1,6 gradi dagli anni 50”, fanno sicuramente meno scalpore di un rincaro della benzina.  Ma torniamo alla nostra storia, perché lì, tra le montagne svizzere, abita un antico testimone del mondo che cambia. Il gigante di ghiaccio, la cui vita è ben più lunga di quella umana, registra fedelmente tutte le variazioni climatiche succedutesi nel tempo, e i segni della sua agonia sono inequivocabili. Appena salito sul dorso crepacciato del ghiacciaio mi accorsi di un chiaro segno del suo ritiro: i fianchi delle montagne presentavano una fascia più chiara giusto sopra il ghiaccio, alta un centinaio di metri o forse più, qualcosa di simile allo scalino senza vegetazione che rimane scoperto lungo il corso dei fiumi durante la stagione secca. Erano rocce pulite, senza vegetazione e non alterate, così fresche che, pensai, dovevano essere rimaste scoperte meno di duecento anni fa. Era chiaro che il grande ghiacciaio si stava ritirando a una velocità sorprendente. Lungo il cammino verso Konkordiaplatz, l’anfiteatro verso cui convergono le lingue che danno origine al Grosse Aletschgletscher, mi accorsi che era persino cambiata la topografia rispetto alla carta che avevo, probabilmente basata su un vecchio rilevamento: la lingua glaciale del Mittelaletschgletscher, ad esempio, sarebbe dovuta confluire nel ghiacciaio principale senza soluzione di continuità, mentre davanti a me vedevo solo un deposito morenico, e solo molto più sopra si intuiva lo scintillio del primo ghiaccio.

Ghiacciaio dell'Aletsch nel 1985

L’Aletsch stava morendo, scompariva in una rete di torrenti di acqua di fusione che scorrevano limpidi e impetuosi sulla superficie bianca, in canali di un blu profondo, per poi scomparire all’improvviso in un inghiottitoio. Un ghiacciaio non è un terreno qualsiasi, si muove, crepita, si spacca e risuona di schianti profondi, ricordando in ogni momento che si sta camminando su qualcosa di vivo, che avanza in modo impercettibile ma continuo. Venni a sapere che nella sola torrida estate 2003 il ghiacciaio aveva perso quasi l’8% del suo volume, e che lo spessore diminuiva di 30 cm ogni anno, una cifra calcolata negli anni ’80 ma che andava aumentando di anno in anno. E seppi che i ghiacciai alpini non rappresentavano più una barriera geografica come un tempo, tanto che numerose specie di piante di origine meridionale stavano sconfinando verso nord.

Giunto al rifugio Konkordia vidi le targhe che misuravano i livelli del ghiaccio nel passato, e che ricordavano a chi saliva la lunga scala di metallo che il rifugio non era sempre stato così alto sulle rocce. La sera dalla terrazza del Konkordia potevo sentire i rumori del ghiacciaio in movimento, uno sciame di suoni cupi che ricordavano l’agonia di un gigante ferito a morte. E pensai che quello spettacolo unico, quell’emozione immensa di chi si trova di fronte alla grandezza della Natura, non sarà disponibile per i nostri figli, se non fermeremo le armi che stanno uccidendo il Grosse Aletschgletscher.

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