“Le miniere d’oro del Monterosa” di Marco Bastogi

Gennaio 2009

Nelle Alpi occidentali, in una fascia compresa tra le Alpi Graie e le Alpi Pennine, sono abbastanza diffusi, anche se raramente in concentrazioni utili allo sfruttamento economico, depositi auriferi. Il concentramento maggiore si presenta tra la Val d’Aosta e la Val d’Ossola.

Manifestazioni aurifere sono presenti nelle rocce di tutte le unità tettoniche alpine, generalmente sotto forma di intrusioni di origine magmatica, composte prevalentemente da quarzo e note come vene o filoni. In questi filoni possono essere presenti solfuri (una classe di minerali utili in cui l’atomo di un metallo:

Carrelli

Ferro, rame, piombo ecc., si lega allo solfo). L’oro, è raramente visibile ad occhio nudo, per lo più appare con relativa facilità al microscopio ad ingrandimenti dell’ordine dei 300 x, come riempimento di micro fratture nei solfuri (spesso nella pirite che è un solfuro di ferro o nell’arsenopirite che è un solfuro di ferro ed arsenico), oppure al contatto tra i granuli di questi minerali.

Il raggruppamento più noto, anche perché è stato il più produttivo ed intensamente coltivato, è quello della valle Anzasca; la valle di Macugnaga che termina contro la parete est del Monte Rosa. Il centro estrattivo più importante è stato Pestarena; qui le mineralizzazioni aurifere sono state oggetto di intensa attività estrattive fino agli anni ’60. Oggi di questa storica attività rimangono soltanto gli imbocchi delle vecchie gallerie ed alcuni vecchi fabbricati di servizio. Le prime notizie riguardanti l’attività estrattiva in questa valle montana, sono ancora oggi argomento di leggenda. I primi pionieri, secondo Plinio e Strabone, sarebbero stati i Romani. Notizie più certe sulla ricerca dei metalli preziosi in valle Anzasca, sono attestate dal XIII secolo. Nel trattato di pace e di concordia datato 16 Agosto 1291, tra i valligiani di Macugnaga e della valle Anzasca da un lato, ed il conte di Biandrate con gli uomini delle valli di Saas e S. Nicolao dall’altro; in particolare nel documento si cita: “Homines Argentarii, que faciunt officium argenterie de Valenzasca et morantur ad Argentaris Valenzasche”. Secondo lo storiografo E. Bianchetti (1878), questa citazione, fa pensare agli operai ed alle officine ove si trattava il minerale aurifero con il mercurio, denominato fin dai tempi di Plinio “Argentum Vivum”.

Da antichi documenti conservati nell’archivio della famiglia Borromeo all’isola Bella sul lago Maggiore, troviamo che il 2 Dicembre 1463 a Giovanni III Borromeo venivano concessi da parte di Francesco Sforza, i diritti ad intraprendere la ricerca e la coltivazione di oro, argento, ferro ed altri metalli nel vasto comprensorio dei territori “Novarensis”. Nel 1481 i Borromeo richiesero ed ottennero dal Duca Giovanni Galeazzo Maria Sforza, maggiori privilegi su tutte le loro terre, in particolare sulla ricerca ed il perdurare della concessione con l’estensione a tutti i successori. Lo sfruttamento pratico ebbe luogo attraverso società nelle quali erano ben stabilite le spettanze tra i Borromeo ed il socio gestore. Già nel 1642, si hanno notizie sulla prima attivazione delle miniere di Pestarena ad opera del Cavalier Giorgio D’Adda che in precedenza aveva già sperimentato la ricerca dell’oro in val Sesia. Egli fece alcuni incoraggianti sondaggi a Pestarena senza tuttavia impiantare una vera e propria miniera. Nel 1647 si ha notizia che tre fratelli di una famiglia della zona, Antonio, Bartolomeo e Giovanni Rabaglietti, conducevano un’impresa a carattere famigliare a scala ridotta, per l’estrazione del minerale che, dopo il trasferimento a valle utilizzando manodopera femminile, veniva macinato a mano. La redditività dell’impresa poi crebbe così che si utilizzarono veri e propri molini e l’opera specialistica di tre lavoranti “Todeschi”.

Filone

In questo periodo (1650), Il Magistrato Ordinario dello stato di Milano, ordinò al notaio Brusati di trasferirsi a Macugnaga, dove si estraeva oro e argento senza licenza violando il diritto Borromeo. Così grazie ai minuzioso inventano del notaio, si conoscono le attrezzature in uso al tempo. Nel 1650, la miniera di Pestarena, consisteva in una galleria larga 2 m ed alta 7 m, profonda circa 24 m; il minerale veniva frantumato nella vicina “Pista” (frantoio) e poi macinato più finemente nei cinque molini ad acqua che erano in attività presso Macugnaga. La sabbia prodotta, veniva poi selezionata in contenitori. Quando il metallo prezioso era in quantità notevole, veniva estratto ancora con acqua (levigazione), oppure con amalgama1 di mercurio sotto macine di marmo dei molinetti. Il mercurio In eccesso veniva poi spremuto attraverso una pelle di camoscio e recuperato, seguiva poi una successiva separazione a caldo.

Ulteriori notizie si hanno attorno alla metà del 1700. In questo periodo spicca la figura del capitano Bartolomeo Testoni, che già interessato all’esercizio di alcune miniere, fu nominato da Federico VI Borromeo, fiduciario delle miniere di valle Anzasca. In questo momento le imprese minerarie ebbero un grosso sviluppo. Nel 1783, per il solo distretto di Pestarena, erano In attività ben 17 miniere e cioè: Valletta, Minerone, Valler, Lavanchetto, Pozzone, Scarpia, Trappola, Alpetto, Caccia, Venna, Bruttone, Brusone, Bosco di Fornalei, Quarazza, Hatte, Cavetto ed altre abbandonate perché sterili. La miniera Pozzone, già coltivata in passato e poi abbandonata a causa di un’inondazione che distrusse l’ingresso, fu recuperata dal Testoni per mezzo di un pozzo (da cui il nome), che raggiunse la galleria, in un punto più elevato del filone.

Anche De Saussure, il padre dell’Alpinismo, la descrive nel suo “Voyage dans le Alpes”(1789), insieme alle tecniche di lavorazione del minerale. G. Jervis (1874), ci Informa sul tenore in oro che veniva ricavato da un’altra miniera gestita da Testoni: il Minerone (così denominata per la grande quantità dl minerale che si estraeva), che era di 4 grammi per ogni quintale. Testoni aveva a quel tempo, in

Molinetto

Pestarena, 86 molinetti per l’amalgamazione del minerale con il mercurio; ogni molinetto poteva trattare 1000 libbre di minerale (circa 386 Kg), alla settimana e per la lavorazione erano occupati, nelle varie miniere della valle, circa quattrocento operai. Si narra che il Testoni, rimasto completamente a corto di denaro e pieno di debiti, ebbe la fortuna di imbattersi in un “nido” (incrocio di due filoni) dal quale in soli 22 giorni ricavò 126 libbre e 12 once di oro puro. A seguito della rivoluzione d’oltralpe le regalie spettanti ai Borromeo furono date alla nazione Cisalpina con la legge del 29 Fiorile VI (18 Maggio 1796). In un inventano redatto a seguito di quanto detto vi è riportata la media delle entrate tra il 1735 ed il 1744; le miniere in questo periodo resero lire 12.916, mentre gli altri cespiti feudali (dazi, censi e proventi della pesca) lire 39.153.

All’inizio dell’800 i deputati Croppi e Strologo (1802), in risposta ai quesiti proposti dall’amministrazione dipartimentale, stendono un rapporto sulle miniere ossolane; per la sola Macugnaga, elencano oltre 50 filoni auriferi tra coltivati ed abbandonati. In totale elencano 150 miniere per la Val d’Ossola, 110 delle quali, nella sola Valle Anzasca.

Con la Restaurazione veniva affidata al nuovo Regno di Sardegna ogni nuova scoperta e le vecchie miniere abbandonate. Fu ripristinato l’antico ordine delle cose cosicché i Borromeo concessero in affitto al Dott. Fantonetti (1817), tutte le miniere attive della Valle. Si riattivò per due anni, anche la vecchia miniera del Pozzone, ottenendo come affermato da G. Jervls (1874), 2-3 grammi d’oro per quintale al titolo 700-750 millesimi di fino. Complessivamente, secondo quanto ci lascia scritto G. Jervis, nel 1824 erano 284 i molinetti attivi in Valle Anzasca dei quali: 172 a Macugnaga, 40 a  S. Carlo di Vanzone, 24 a Calasca e 48 in Val Toppa. Per 225 giorni di lavoro medio (9 mesi dell’anno) fornivano circa 85,600 Kg di oro “rosso” (argentifero). Nel 1826, sotto la guida del Dott. Moro, che già da due anni aveva intrapreso i lavori in verticale a Pestarena per raggiungere i diversi filoni localizzati sotto il livello del fiume, fu deciso un nuovo piano di lavori per “..l’escavazione di piriti ossia di filoni auriferi in uno scoglio di soda montagna..”. Termina così il periodo delle improvvisazioni e degli sfruttamenti a cielo aperto. Ci fu un nuovo rifiorire di attività con nuove società che si occupavano di ottenere nuovi permessi di escavazione; la miniera Peschiera, a Pestarena, già attivata nel 1825, nel 1832 produsse 48 – 250 Kg di oro (1.500 once). La produzione annuale fu di circa 83 Kg (Barelli, 1839), e di 142 Kg per le 6 miniere che erano attive di Pestarena (Ferrari, 1980). Il 20 Novembre 1859 fu stabilita la definitiva proprietà statale delle miniere e cessarono definitivamente i privilegi dei Borromeo. E’ dal 1860 che si hanno i primi dati attendibili sul prodotto delle miniere: a Pestarena la pirite aurifera da dell’oro al titolo di 800 di fino (G. Jervis, 1874).

Nella seconda metà dell’800, le miniere videro un cospicuo sfruttamento da parte di una società inglese, la “Pestarena United Gold Mining Company Limited”. Specialmente negli anni 1894-1900, queste miniere rappresentarono il complesso aurifero più importante d’Europa (Russia esclusa). L’Ing. A. Spezia, nel 1862, propone un piano per la coltivazione a grande scala delle miniere di Pestarena. I lavori in galleria, cioè in orizzontale, sono i più diffusi ma anche i meno redditizi: i pozzi, profondi fino a 100 metri sotto il livello del fiume, erano tenuti asciutti con apposite macchine idrauliche, anche se con molte difficoltà. E’ di questi anni (Spezia, 1852), l’idea di una grande galleria di ribasso che dal Morghen, un rilievo localizzato nella parte medio alta della valle, doveva attraversare i vari gruppi di filoni nelle zone più profonde non ancora raggiunte per una lunghezza di 2.200 metri fino a Pestarena. Si dovette attendere tuttavia fino al 1925 per la sua realizzazione. Secondo quanto riportato da G. D’Achiardi (1883), insigne mineralogista pisano, la produzione nel 1881 fu di 150 – 305 Kg di oro su 5.286,5 tonnellate di materiale, con una resa per tonnellata di 28,43 grammi; la produzione media italiana tra il 1875 ed il 1879 sarebbe stata di 100 Kg annui. L’attività decrebbe poi rapidamente durante i primi anni del secolo e si annullò dopo vari tentativi di ripresa nel corso della Prima Guerra Mondiale.

Dopo la guerra, su insistenza di alcuni minatori che trattavano il minerale per proprio conto, riprese la coltivazione P.M. Ceretti. Nel 1939 si ebbe il passaggio ad una società statale, l’A.M.M.I. (Azienda Minerali Metallici Italiani), ed ebbe inizio il periodo di più intensa coltivazione sotto la direzione dell’Ing. R. Bruck (1937-1945). Nello stesso periodo fu introdotto un impianto per la flottazione e la cianurazione dei concentrati. La produzione di oro che nel 1937 fu di 60 Kg, aumentò fino al suo massimo nel 1948 con 579,6 Kg, per poi calare nuovamente dopo una stasi di 4-5 anni nei quali si mantenne sui 300 Kg di media. Negli anni ‘50 il tenore medio in solfuri auriferi che alimentavamo l’impianto di trattamento era 7 – 8%; negli anni precedenti era più alto grazie alla coltivazione selettiva ed alla cernita manuale poi sostituita con un impianto di arricchimento per densità (flottazione). La cianurazione si faceva nell’impianto che sorgeva a Campioli, dove venivano trattate 350 tonnellate giornaliere e si otteneva un fango aurifero contenente anche altri metalli. Secondo Roggiani (1981), negli ultimi anni di attività, si può considerare normale una media di circa 30 – 35 Kg mensili. La consistenza totale di oro nelle miniere di Pestarena si dovrebbe valutare a circa 2.000 – 2.500 Kg. Il tenore medio fornito dai filoni negli ultimi anni di attività variava tra circa 8 e 10 grammi a tonnellata di minerale cernito. Nel 1961, a causa del forte aumento dei prezzi di trasporto (determinato dalla scarsa viabilità tra i vari gruppi di miniere), la costanza del prezzo dell’oro e la difficoltà di estrazione delle acque dalle gallerie, fu deciso di chiudere definitivamente le miniere e di smantellare gli impianti. Attualmente, a parte ricerche esplorative condotte dalla Società Rimin negli anni 1981 e 1982, l’unica testimonianza della passata attività mineraria è rappresentata da coltivazioni a livello artigianale che sfruttano ancora il vecchio ma funzionale sistema dei “molinetti”.

I molinetti sfruttavano l’energia delle acque dei torrenti. Erano le donne che cernevano il minerale aurifero e, ridotto in pezzi di dimensioni minori, lo mettevano nei molinetti.  Dopo circa due ore di macinazione, veniva aggiunto il mercurio che essendo molto pesante, andava a depositarsi sul fondo del mulino. Anche l’oro, che ha un peso maggiore del materiale roccioso, precipitava verso il basso e mescolandosi col mercurio formava l’amalgama. L’operazione di frantumazione doveva continuare per almeno altre otto ore prima di procedere al lavaggio che serviva ad eliminare il fango ed i detriti eventualmente presenti. Terminato il lavaggio, sul fondo del mulino rimaneva solo l’oro mescolato al mercurio. Il composto veniva allora versato in pelli di capra o camoscio che hanno la caratteristica di essere molto resistenti. Strizzando le pelli, esse fungevano da filtro: il mercurio usciva dai pori e nella pelle rimaneva l’oro che in questa fase non aveva ancora l’aspetto familiare a causa della presenza dei residui di mercurio. Quest’ultimo veniva eliminato definitivamente solo con la fusione in un crogiolo. Questa era una fase molto pericolosa perché i vapori sono mortali. Il mercurio evapora a circa 300°gradi e per ottenere l’oro puro, si doveva raggiungere 1000°gradi.

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