“Partire presto, fare presto, tornare presto” di Massimo Fanfani

Gennaio 2009

“Partire presto, fare presto, tornare presto”. Con questa semplice regola M. affrontava ogni sua uscita in montagna, o perlomeno quando doveva affrontare qualcosa di impegnativo. Una regola acquisita da chi la montagna l’ha conosciuta e vissuta davvero, evidentemente. D’altronde non essendo un  alpinista vero, M. non si stancava mai di imparare qualcosa da chi invece lo era veramente, o almeno  in grado di insegnare qualcosa comunque.
Quel giorno di un luglio di pochi anni fa, partì da Firenze in auto per andare, appunto, in montagna. Era circa mezzogiorno. Il viaggio sarebbe dovuto durare almeno due ore e mezzo se tutto fosse andato regolare, ma per aver sbagliato un bivio dopo Castelnuovo, ci vollero poco più di tre ore. Si può affermare che la sua attrezzatura tecnica fosse di buon livello, tutta o quasi di marche professionali. Nel lungo periodo che aveva impiegato per riuscire ad acquistarla, aveva sempre cercato di avere il meglio che c’era sul mercato, come fosse quasi una vera e propria ossessione. Forse nel suo inconscio poteva vedere nei materiali perfetti quello che non vedeva in se. Come se avere lo scarpone “come Dio comanda” lo potesse fare più bravo nelle salite o portare agganciato il martello della Cassin lo facesse un buon rocciatore. Quel giorno comunque non avrebbe dovuto arrampicare, si trattava di una salita al monte Pisanino per la “via della Bagola Bianca”, una difficoltà di I°. Quello che doveva fare era solo una gran fatica per migliorare il fiato in vista di un’ascensione sulle Alpi Pennine. Con se aveva comunque tutto l’abbigliamento necessario e naturalmente tutto di marche specializzate in prodotti tecnici; la sua debolezza e insicurezza caratteriale erano così meno difficili da sopportare: tutta la sua attrezzatura lo faceva assomigliare a chi ammirava di più, lo faceva sentire come avrebbe voluto essere per dimostrare al mondo e a se stesso che anche lui qualcosa di buono poteva fare.
Sì, nel realizzare qualcosa in montagna vedeva non una semplice passione ma una rappresentazione di se stesso. Attribuiva alla montagna una importante filosofia collegata alla vita sociale di tutti i giorni: le sensazioni che provava alla vista di un panorama erano fortissime ma soprattutto uniche, per cui assumevano grande importanza anche nella vita di città; dove praticamente i sentimenti di valore e le emozioni erano pressoché  assenti. Tra le poche sicurezze che aveva c’era senza dubbio quella di aver sbagliato ad innamorarsi di una donna a cui piaceva il mare in modo esagerato. I. era stata la donna della sua vita e si era innamorato di lei fin dall’età dell’adolescenza; e allora, ancora non poteva distinguere una vera passione come quella per la montagna da una semplice preferenza su dove passare le vacanze. I. al contrario sapeva bene quali erano i suoi gusti e al mare non poteva rinunciare, infatti aveva spudoratamente rinunciato a lui senza troppi problemi. Gli uomini maturano più tardi delle donne ma quando lo fanno lo sono più di loro; lo credeva fermamente. M. ne  aveva avuto la riprova dal comportamento di I. che, secondo lui, aveva distrutto la loro storia d’amore in modo meschino, senza nessun rispetto per il valore che aveva avuto negl’anni, per quello che significava per lui e per la sofferenza che gli procurava. Davanti alla scelta fra un gioco con gli animatori turistici sulla spiaggia bruciante e la necessità di lui di avere spiegazioni sulla fine della loro storia, I. aveva optato senza indugio sulla prima. Questo era stato il segnale inequivocabile che a tutto quello a cui aveva creduto M. fino ad allora, avrebbe dovuto rinunciare.
Così trovava nell’ affrontare una montagna l’unico modo per rintracciare affidabilità, serietà, verità. Quasi fosse un’entità viva, la montagna era per M. meritevole di tutta la sua attenzione, paragonabile ad una compagna fedele, nel bene e nel male. Quel giorno si trovava in macchina da solo e sentiva dentro se  emozione per questa salita, avrebbe affrontato tutto quello che gli offriva il Pisanino in solitaria e ciò rendeva tutto più intenso. Poteva riempire il vuoto costante che sentiva dopo la storia d’ amore con I. e che mai era riuscito a colmare con nessun’altra donna. Portare a compimento quella escursione era come potersi sentire di nuovo vivo; emozionarsi di nuovo, ancora una volta dopo tanta delusione. Andare da solo gli rendeva questa sensazione più forte di quella che provava normalmente quando arrampicava con il suo compagno, capo cordata. Definirla più forte però non è esatto. Potrei paragonare la sensazione che provava M. da solo in montagna a quando si beve una bottiglia di buon vino tutta in una volta invece che, la stessa bottiglia, in più occasioni. E’ chiaro che la quantità del vino è la stessa ma a berla tutta insieme ha un effetto talmente forte da divenire incontrollabile; pian piano però il piacere viene prolungato e anche se meno intenso, nasce dallo stesso sapore, ha lo stesso valore.
La salita cominciava subito dura con l’ attacco proprio accanto al rifugio. Sarebbe arrivato fino a lì con la macchina. La strada era asfaltata fino alla mèta anche se molto disconnessa, piena di buche e avvallamenti, in più con il rischio di trovarsi di fronte, dopo una curva, un camion grandissimo carico di blocchi di marmo, con poca propensione ad usare i freni. Per fortuna il tratto brutto era abbastanza corto e terminava dove terminava il viaggio e il fatto di essere quasi arrivato gli fece superare quella scocciatura senza troppi lamenti. Per tutto il tempo dei preparativi alla macchina (calzare gli scarponi, chiudere lo zaino, scegliere cosa indossare e farlo) M. aveva come sottofondo l’inquietante ringhiare di un cane lupo, il quale certo non metteva a proprio agio chi si fosse trovato lì vicino, ma avendolo conosciuto già in altre occasioni, ne gustava la veridicità, la purezza di quel suono che nasceva da una bestia pura. Era la reazione naturale di un animale abituato solo ai propri istinti, niente di fallace, come invece spesso gli uomini sono. Per questo a M., quel ringhiare lo poneva subito a contatto con il mondo che cercava; gli piaceva, era il segnale che la città con le sue logiche artificiali era lontana.
Appena prima di cominciare la vera salita bisognava lasciarsi alle spalle il letto del fiume in quel luglio completamente asciutto, dirigersi un poco a destra e lambire delle rocce affioranti dal prato in modo dolce e delicato. Curiosa posizione per quelle rocce che facevano capolino dal prato rigoglioso e vivo. Lì tutt’intorno le pietre dominano la scena con la loro selvatica erosione e trovarne di quasi orizzontali e lisce aveva spinto M. a fermarsi per osservarle e toccarle. Subito aveva sentito una bella sensazione passargli dalla mano fino a dentro l’anima più profonda. Erano le prime rocce che toccava da quando era arrivato, appartenevano già al  Pisanino ma adesso non erano più solo di esso: M. ne aveva goduto, per il tempo che aveva appoggiato la mano erano divenute anche parte di lui. Da lì in poi, verso l’alto, non c’ era più tanto spazio per la riflessione o per i pensieri profondi: doveva lavorare duro con le gambe ed i polmoni, cercare di non fermarsi mai. Il sentiero aveva l’andamento classico di quelli che si arrampicano violenti, pieno di tornanti uno dietro l’altro, vicini quanto basta per non far girar la testa; come succede ai bambini che si fanno girare nelle giostre forte forte e quando ne scendono procedono di un lato traballanti. M. era catturato solo dal paesaggio che cambiava quasi ad ogni passo, col procedere così ripido, velocemente le montagne circostanti cedevano il loro nascondiglio. Le creste più in basso lasciavano scoperti pezzi di vallate, parti di paesi arroccati o distesi lungo le sponde di un lago. La sua concentrazione nello sforzo doveva essere ferma; la regolarità della respirazione e dei passi era fondamentale per riuscire ad effettuare la salita in un buon tempo e poter essere utile così all’allenamento del corpo. Solo dopo essere arrivato si sarebbe concesso allo spettacolo che gli avrebbe offerto la visuale dalla cresta del Pisanino.
Quel giorno di luglio M. stava per raggiungere il punto che da il nome alla via ed erano ormai le ultime ore del pomeriggio. In quel periodo il sole aveva ancora forza e si vedevano spuntare dall’altra parte della cresta le cime dei cumuli, i quali, dopo essere stati a riposare qualche minuto sulla montagna, si spostavano per poi scomparire mutando i profili e lasciando il posto ad altri. M. sentiva bruciare gli occhi sempre più forte e poi riempirsi di liquido, poi, al primo battere di ciglia, gli erano rimaste attaccate per quasi un secondo ed infine, dopo riaperte, quel liquido [in più] gli era scivolato giù per mezza guancia. Era sulla cresta, la Bagola Bianca. Non immaginava che quel posto sarebbe stato tanto bello; tutto ad un tratto poteva vedere la cresta affilata fino all’inverosimile che scendeva in un numero infinito di saliscendi fino a quasi perdersi alla vista. Dall’altra parte, in salita, la cresta era più regolare ma di dimensioni gigantesche, con delle gobbe impossibili da percorrere e che mettevano il gelo nel sangue per la loro ripidezza. Da lì M. vedeva i cumuli che sfregavano la montagna ad una velocità doppia di quella che gli avevano fatto immaginare durante la salita; a momenti alcuni lembi di nebbia lo avvolgevano e gli nascondevano ogni cosa ma poi tutto cambiava e tornava alla vista tutto quel ben di Dio. Stava coi piedi proprio nel punto che aveva tante volte osservato da lontano e che, come lui, tanti lo avevano additato e spiegato a chi non lo conosceva. Il tempo impiegato per la salita era stato buono e la soddisfazione, mescolata all’emozione per lo spettacolo che ora vedeva, gli avevano procurato quella improvvisa inondazione dentro gli occhi. Sicuramente se fosse stato insieme a qualcuno non gli sarebbe successo, ma sopportare tutte quelle forti emozioni da solo gli era difficile. Era conscio che la bellezza di quel momento l’avrebbe vissuta per quegli istanti soltanto e che mai con nessuno al mondo l’avrebbe ricordata; questo gli dispiaceva assai e gli aumentava quell’effetto agli occhi.
Mentre M. si rimetteva lo zaino sulle spalle, che si era tolto per la sosta, pensava che solo una piccola distrazione sarebbe bastata per finire giù e insieme, smettere di vivere: lo spazio per camminare era molto stretto e il controllo dei propri movimenti era fondamentale. Questa era la cosa più importate per M.: avere la morte a distanza di un passo, ma assolutamente non farlo. Controllare, riuscendo ad evitare di precipitare la situazione, era il modo per sentirsi vivo, M. aveva in queste situazioni il solo modo per avere della stima di se; dalle persone a cui teneva di più aveva ricevuto solo rifiuti, per non parlare di I. da cui aveva avuto il no più pesante. Ripreso il cammino la via adesso era meno faticosa ma più pericolosa, doveva aggirare le incredibili guglie di terra e roccia ora da destra ora da sinistra. Ogni volta che si trovava dal versante della Val  Serenaia le tracce di sentiero lasciavano posto a delicati traversi su placche lisce, quasi mai era necessario usare le mani ma doveva fare molta attenzione. Lo zaino poteva sbilanciarlo perché si era portato tutto il necessario per dormire, il suo peso non era eccessivo ma sufficiente a spostare il baricentro in modo pericoloso in quel luogo. Nella sera ormai iniziata di quel giorno, M. era arrivato in cima. Si era emozionato di nuovo per essere riuscito a realizzare quella salita che non si aspettava così bella. Prima di scrivere qualcosa sul libro di vetta aveva scoperto più di una targa a ricordo di speciali persone decedute, amanti di quelle montagne, oltre che una inattesa piccola statua della Madonna. Aveva scattato un paio di foto con l’autoscatto e subito telefonato al suo compagno capo di cordata per dirgli quanto aveva fatto e come intendeva continuare la sua escursione; si era soffermato principalmente sulla salita e il tempo impiegato, questo per evitare l’imbarazzo di un racconto altrimenti colmo di emozioni e commozioni.
Prima che il Sole decidesse di allietare l’altra parte della Terra sarebbe passata solo un’ora circa e la priorità adesso doveva darla alla ricerca di un posto comodo per dormire. Aveva abbandonato la sua originaria intenzione di passare la notte in vetta, sia per il tempo che aveva a disposizione, sia per il consiglio ricevuto via telefono. Allora M. aveva cominciato la discesa non senza qualche disagio, inoltre il sentiero procedeva in modo poco logico cioè non lasciava intuire che la direzione fosse nel verso della destinazione, cioè la testa della Val Serenaia. Sempre per la necessità di aggirare gli enormi ostacoli, il sentiero lo portava nel versante opposto a quello da lui seguito e per questo cominciava ad avere premura e a dubitare che sarebbe riuscito a trovare un buon posto per coricarsi e riposare. Fin tanto fosse rimasto su quel sentiero che non voleva saperne di scendere come si deve, non poteva fermarsi e distendere il materassino in gomma; lì era tutto ripido: tolta la traccia di sentiero largo appena a sufficienza per i suoi scarponi di marca, non c’era niente di pianeggiante. Più passava il tempo e più il cielo si imbruniva ma ancora M. non aveva trovato niente che faceva al caso suo, così, all’ennesima deviazione che lo portava dalla parte opposta della valle, decise di non seguire più la traccia ma di puntare diritto giù verso il basso. Solo laggiù il terreno cedeva alla pendenza impossibile e affioravano dal verde, ormai pieno di ombre scure, grosse pietre e placche rocciose che parevano in piano, giuste per stendersi con il sacco a pelo. Più facile a dirsi che a farsi! Infatti in quel punto andare giù diritti non era semplice perchè il terreno era insidioso. Tra rocce rotte e terra M. doveva affrontare in molti punti una vera e propria arrampicata, un paio di volte aveva trovato fissati degli spit, utili forse per le salite su quel pendio d’inverno. Il tempo lo metteva alle strette, non poteva farsi trovare lì quando fosse arrivata la notte perché arrampicare in discesa al buio era impossibile. Aveva la sua lampada frontale, sì (come poteva mancare nella sua attrezzatura un oggetto così indispensabile?), ma sarebbe servita a poco in una discesa con faccia a monte. Nella sua corsa contro l’oscurità aveva capito che avrebbe vinto quando le difficoltà diminuirono e la pendenza era ormai molto ridotta. Vinto per non essere rimasto bloccato dal buio ma rimaneva ancora da trovare un luogo adatto per stendersi. Appena visto alcuni grossi pietroni, aveva deciso di provare ad andarci sopra e sperare che almeno uno fosse pianeggiante. Il cielo era praticamente nero quando finalmente trovò quello che cercava: forzatamente aveva seguito la direzione suggerita dalla presenza dei pietroni, ma questo era meno importante, l’indomani, con la luce, si sarebbe rimesso nella direzione giusta.
Ora si era acceso la lampada frontale e ripulito la roccia dai sassi, disteso il materassino e coricato nel sacco a pelo. Ancora la notte doveva cominciare ma da solo in quel luogo solitario poteva solo mettersi a dormire o almeno cercare di farlo. Stava sorgendo anche una Luna appena visibile e le stelle stavano comparendo sempre più fitte, era un momento bello ed era piacevole stendersi e finalmente riposare tutti i muscoli del corpo. Ad M. venne in mente tra le mille cose anche una descrizione, letta di recente, della notte, in un libro di Conrad, che calzava a pennello con quello che vedeva: “Una quiete meravigliosa pervadeva il mondo, e le stelle, con la serenità dei loro raggi, parevano effondere sulla terra la garanzia di una sicurezza eterna. La falce della luna nuova, che luccicava bassa ad occidente, era come un truciolo sottile piallato da un lingotto d’oro,…”. Quello era un momento magico perché oltre alla bellezza del cielo stellato, M. ripensava a tutta la salita compiuta, a come aveva dovuto stringere i denti, ai passaggi più pericolosi della discesa, alla forte commozione che gli era passata dagli occhi sulla cresta e non c’era niente di più bello che ripensarci stando al caldo e sicuro, avvolto dal suo sacco a pelo tecnico. Non aveva però ancora fatto i conti con la notte della montagna; appena svegliati “gli abitanti” della notte, la quiete si spense e M. dovette dare un nome a tutti i rumori che aveva cominciato ad udire sempre più forti e frequenti. Non a tutti i suoni riusciva a dare spiegazione e via via che il sonno si faceva più intenso, udiva suoni e rumori sempre nuovi, i quali lo facevano quasi sobbalzare e non prendere sonno. Non si può dire che la paura fosse presente ma qualcosa di simile sì, perché solo nel mezzo alla montagna deserta, buttato su un masso senza niente sulla testa, era una situazione poco familiare.
In questa altalena di veglia e sonno leggero aveva passato la notte. Molteplici pensieri gli erano passati per la testa mentre guardava quel cielo incredibilmente vivo e mobile fatto di nero e stelle ed ora, che la luce stava ammutolendo il bosco degli animali notturni, si sentiva decisamente bene. Sentiva sul corpo e dentro di se quanto quella montagna e quella situazione fosse lontana dalla lue del mondo e della città. Si era riposato male per le poche ore di sonno ma nonostante questo, stava quasi in estasi perché non pensava più alla sua eterna condizione di disagio e solitudine. Si sentiva la mente libera da qualsiasi brutto pensiero, non gli sembrava neppure di aver conosciuto I., di aver attraversato dolori, umiliazioni e sconfitte. Metteva le cose a posto nello zaino con lentezza godendosi la frescura mattutina, M. pensava solo al silenzio che aveva intorno, alzava lo sguardo per ammirare le cime tutt’intorno e poi proseguiva con azioni lente e leggere. Ad ogni movimento più accentuato sentiva i muscoli dolcemente tirarsi, gli procuravano quel lieve dolore prodotto dall’acido lattico e che spesso genera sensazioni di appagamento; un dolore piacevole.
Appena ripreso il cammino M. aveva trovato una distesa sbalorditiva di piante di lamponi con i quali stava finendo di fare colazione; trovare nutrimento in quel modo naturale e spontaneo era motivo di ancor più soddisfazione e gioia dentro di lui. Non poteva chiedere di più da quell’inizio di giornata ma ancora un pensiero, nato dallo sbirciare della macchinetta segnatempo, gli aveva aumentato la felicità: ancora il sole doveva tirar giù dal letto la maggior parte della gente della sua stessa longitudine. Lui stava rientrando dalla sua fatica e aveva davanti ancora tutto il tempo di un mezzo giro di Terra, quello che sapeva sulla regola montana di tornare presto aveva adesso la massima realizzazione. Sebbene lì non avrebbe corso nessun pericolo a non rispettarla, sentiva lo stesso la bontà di averne riguardo, sulla pelle e nello spirito. Passo dopo passo aveva lasciato quel campo stracolmo di cibo dolce e colorato e, camminando sul sentiero ormai nei pressi del rifugio da cui era partito il giorno prima, incontrava le prime piccole comitive in partenza per le loro gite e gioiva al pensiero che per lui, al contrario, le fatiche stavano finendo.
Nel sentiero praticamente pianeggiante e largo quanto l’asse di un quattro ruote, poteva pensare soltanto; i passi nascevano da soli e dovunque erano sicuri. La bellezza nei suoi occhi e lo spirito allegro gli avevano ricordato come anche una donna, incredibilmente, gli aveva procurato tanto benessere. A. non era stata mai insieme a lui ma l’aveva conosciuta e subito corteggiata per via dell’irrefrenabile necessità che lo invadeva. Tutto era durato pochissimo tempo ma aveva lasciato in lui un segno indelebile. Nella vita di A. c’era già un uomo e per questo, appena scoperto, l’aveva lasciata al suo giusto destino. Il ricordo di quella donna era rimasto bello perché lei non lo aveva rifiutato mai in modo devastante ogni volta che l’aveva incontrata. Anche quella montagna lo aveva accettato come era, e anche adesso era lui che decideva di lasciarla al suo destino, era riuscito a viverla fino in cima e tornare giù, a godere di tutto quello che gli aveva offerto.
Nei pressi del rifugio il sentiero lasciava posto alla strada asfaltata e già camminarci sopra era brutto nella stessa misura in cui è brutta una strada di montagna trafficata da cacofoniche motociclette; il passo sempre uguale con nessuna sensazione trasmessa dalla pianta del piede: tutto liscio e piatto, il nuovo passo già stanco e colmo di vecchiezza. Questo però non impediva ad M. di restare di buon umore, aveva accelerato il passo e finito presto quel tratto. Dopo salutato con uno sguardo amico il cane lupo, anche questa volta borbottante in modo selvaggio, si era messo in viaggio per il ritorno a casa. Durante questo lungo passare di piccoli paesi e infinite curve bordate dai confini dei giardini  di villette, ben curati e abbelliti, non si era soffermato su nessun pensiero particolare, era quasi come procedere in uno stato di estasi; il bagaglio interno pieno di sensazioni piacevoli stava fermo dentro di lui.
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