“Percorsi in senso verticale” di Giorgia Contemori

Annuario 2009

…“Di guide alpine per vocazione, come i Detassis, Bonatti, come Cassin, non ne esistono quasi più; oggi la guida è cittadina, vive tra strade e semafori ed ha cambiato la montagna, ma soprattutto il modo di andare in montagna” … era il 1985 e così parlava Gigi Mario ad una intervista su La Repubblica (Dentro la città col sesto grado). La sua lunga esperienza nella direzione tecnica dei corsi AGAI – l’Associazione nazionale delle guide alpine parlava in un momento storico preciso: quell’anno, dal 29 di giugno e fino ad ottobre, fu installata al Foro Italico di Roma una palestra artificiale e da quella struttura, larga 9 ed alta 14,5 metri passarono oltre seimila persone. Ed inoltre in luglio a Bardonecchia per la prima volta veniva svolta una competizione internazionale, e così un nuovo sport: l’arrampicata sportiva.
Non più pareti da scalare, non più attrezzature pesanti, caschi,scarponi, staffe, bensì scarpette leggere e abbigliamento technicolor … Basta avvicinamenti di mezza giornata, pareti incerte e temibili, perchè più vicino alla città si può frequentare la falesia, e lì entra in gioco il bicipite d’acciao  e la mossa del giaguaro.
Federigo Bagnoli

Sono trascorsi oltre venti anni e molti discutono dell’alpinismo nell’attualità: finito? cambiato? possibile?  Forse l’aspetto che maggiormente è cambiato è la dimensione dell’avventura e della battaglia con l’alpe, oggi la parete non rappresenta una dimensione da espugnare ed il gesto eroico è venuto meno anche perchè le montagne sono state già “scoperte” e di vette inviolate ne restano solo alcune … Certo è cambiato il rapporto con l’ambiente ma non solo questo, è rilevabile un grande cambiamento verso la cultura dell’alpinismo. Non è più la lettura di Bonatti ad ispirare, ma si potrebbe dire che non c’è più bisogno di sapere chi sia Detassis, Comici, Cassin, Buhl (solo per citarne alcuni) per cercare di sapere della montagna. Forse quelle emozioni e quelle esperienze sono l’immagine di un periodo storico, di un legame di uomini e luoghi che non è ripetibile, ma che di fatto può appartenere a tutti. Lasciando da parte le nostalgie, va detto che la vita cittadina lascia solo certi tempi a disposizione per praticare attività in ambiente aperto e poi sicuramente c’è l’aspetto della sicurezza. Se salta la presa in falesia è un conto, se salta in montagna è diverso, la definizione “via classica” è nota a tutti e dice quanti pochi chiodi è possibile trovare in parete. Il primo a porsi un problema sull’arrampicare senza ausili – chiodi, staffe, scale, picchetti, corde – è Paul Preuss che il 28 luglio 1911 parte, solo e senza corda sulla parete est del Campanile Basso in Brenta. Scala in  2 ore la parete di 120 metri aprendo una nuova via, naturalmente scende disarrampicando dalla stessa via. Inizia una filosofia dell’arrampicare etico, rivolto al “saper salire” la montagna, molto criticato dai suoi contemporanei che credono i chiodi irrinunciabili per la sicurezza durante le scalate ma, evitabili come mezzi di progressione. Il suo integralismo lo portò a rinunciare perfino alla corda di assicurazione (cosa che gli causò la morte in seguito a una caduta).

Gli Stati Uniti con le grandi pareti di granito sono state fin dagli anni ’50 l’ambiente in cui l’arrampicata libera è cresciuta tecnicamente, andando così a modificarsi i gradi di difficoltà. Arrampicata libera diventa allora lo stile nel quale l’arrampicatore nella progressione utilizza il solo corpo: mani nude, piedi, ma anche appoggiando e incastrando il corpo intero o sue parti. Questo non esclude a priori l’uso delle attrezzature, come la corda, l’imbrago, i discensori, i moschettoni, i nuts, i friends e i rinvii, usati esclusivamente per l’assicurazione per limitare i danni in caso di caduta. Forme di arrampicata senza assicurazione è il bouldering che viene effettuato su piccoli massi fino a 5-6 metri di altezza. Si può arrampicare su roccia, in pareti e ambienti naturali, su ghiaccio superando ghiacciai, cascate ghiacciate, su terreno misto cioè affrontando tipologie diverse come roccia e terra, ghiaccio e roccia, ghiaccio e neve ed in questo caso occorre maggiore preparazione tecnica e maggiore esperienza. Per allenare alle uscite su roccia le palestre di arrampicata si sono sempre più sviluppate ed attualmente le palestre di arrampicata indoor stanno assumendo sempre maggiore affermazione. Oggi si può dire che l’arrampicata indoor goda di una propria autonomia , è sport autonomo e non più semplicemente propedeutico all’arrampicata alpinistica.
La dimensione indoor è presente in tutta Italia e consente tanti approcci, dai più facili ai più difficili, e tende all’essere uno sport urbano di massa. A Firenze la palestra  indoor gestita dalla sezione fiorentina del CAI è posta all’interno del Mandela Forum ed è una struttura articolata, con parete boulder, pareti verticali attrezzate e pareti strapiombanti con percorsi assai atletici. L’arrampicare offre la possibilità di muoversi in tante dimensioni e di poter stare in ambienti naturali di grande bellezza, ad esempio sul mare. Molti luoghi sono abbastanza accessibili e consentono di essere frequentati famiglia inclusa e quindi per il fine settimana. Arrampicare è naturale e questo tipo di esperienza anziché essere solo una sfida nel verticale può essere un metodo attraverso il quale misurarsi con il proprio corpo, conoscerlo in profondità ed imparare a percepirlo in maniera nuova. Si è sempre parlato della dimensione della montagna come dimensione interiore, ma arrampicare può offrire un’esperienza intensa e personalissima. Nello svolgimento dei movimenti non c’è solo la componente della tensione muscolare e dell’agonismo proteso alla competizione atletica, l’esperienza è complessa e completa nella dimensione di chi la svolge. Il movimento nell’arrampicata può dare a chiunque ampie esperienze perchè conduce a se stessi, e a  misurarsi con le proprie aspettative e la propria performance.
Mandela Forum

Federigo Bagnoli è un socio CAI e giudice di gara FASI (Federazione Arrampicata Sportiva Italiana), nella palestra del Mandela si allena e partecipa ampiamente alle attività, ma per certi versi una voce distinta nel coro.

Federigo: “il mio approccio all’arrampicata è simile credo a quello della maggioranza di quelli della mia generazione. Ho praticato in gioventù sport come il calcio, il basket, il tennis, la corsa e sono andato in montagna per molti anni in estate a camminare. Ammiravo chi praticava l’alpinismo e andava in parete cosicchè un giorno mentre ero in Val Gardena con Roberto, che aveva allora sei anni, mi venne l’idea di chiedere all’Ufficio Guide di fare qualcosa e loro mi  proposero una ferrata. Ero preoccupato di soffrire di vertigini ma in realtà era paura del vuoto; quella ferrata è stata l’apertura di una porta su un altro mondo. Proseguii questa nuova esperienza con un amico, Maurizio Cellini e sua moglie Ippolita, che avevano frequentato un corso di roccia, andando a muovere i primi passi in verticale su una paretina in Roveta e lì ho incontrato la mia passione per l’arrampicata. Ho incominciato ad allenarmi con loro per lo più a Vecchiano, per poi in estate andarci a confrontare con le vie di montagna in Dolomiti. All’inizio si andava con la guida per conoscere le vie che poi ripetevamo da soli, finchè abbiamo iniziato ad esplorare vie nuove in autonomia. L’arrampicata sportiva, che in quegli anni in Italia era agli esordi, è venuta dopo, quando frequentando le falesie è cresciuto in noi il gusto di affrontare e cercare di risolvere difficoltà sempre maggiori. Questo percorso nel mondo dell’arrampicata e un certo interesse per le gare che era cresciuto negli anni, mi ha portato anche ad essere un giudice di gara FASI; pensavo che mi avrebbe permesso di restare in contatto col mondo dell’arrampicata anche in età avanzata. Oggi posso anche svolgere il ruolo di presidente di giuria ma adesso mi piace fare il giudice nelle gare giovanili perché trovo in esse una spontaneità e senso del gioco che mi piacciono molto”.
Giorgia: “arrampicare all’inizio è entusiasmante ma poi non è automatico fare un percorso di crescita in questa attività, non è facile trovare quella motivazione che consente di praticarla regolarmente e superare le complicazioni dell’organizzarsi, allenarsi, fare fatica etc. E’ da mettere in secondo piano l’aspetto atletico e la componente muscolare per certi tipi di difficoltà?”.
Federigo: “credo che ciò che ci spinge verso qualunque attività sportiva (almeno quelle non professionistiche) o comunque di svago motorio in genere, sia il bambino che abbiamo ancora, e vorrei dire per fortuna, dentro di noi. E’ il ricordo del piacere del gioco che ci portiamo dentro dalla nostra infanzia, che ci fa alzare presto la mattina per raggiungere un luogo in cui possiamo esprimere questa esigenza profonda di divertimento, o che ci fa faticare ore e ore per riuscire poi a “giocare” meglio e quindi in modo più gratificante. Ma al di là dell’aspetto puramente ludico credo che ognuno di noi abbia la possibilità di utilizzare questa, come tante altre opportunità che la vita ci offre, per compiere un’esperienza esistenziale e di crescita personale. L’arrampicata è un’attività complessa che ci permette di entrare in contatto col nostro corpo in maniera profonda e totale e già questa è un’esperienza importante.  Poi ci mette in contatto coi nostri limiti, con la nostra capacità di accettarli e la conseguente volontà di superarli. Il fatto stesso che si svolga in ambiente verticale, e quindi assai poco naturale per noi, ci obbliga a confrontarci con qualcosa che ci respinge piuttosto che accoglierci e che noi dobbiamo riuscire a trasformare in accogliente. C’è anche l’aspetto della necessità di valutare bene come muoversi, sia per evitare di “volare” (come dicono i francesi,  “ca và mieux ne pas tomber!”) sia per rendere il più possibile efficace ed economico il movimento stesso. Sono tutti processi che ci permettono esperienze che vanno al di la del solo arrampicare per raggiungere un “Top” o una “catena” o la cima di una montagna. E in montagna poi le esperienze si arricchiscono di tutti quegli aspetti, ambiente, tempo, solitudine, paura, solidarietà coi compagni di cordata, a volte necessità di decisioni rapide e allo stesso tempo ponderate, etc che tutti noi conosciamo.  Ma oltre a quella primaria che ho prima citato, vi sono altre motivazioni del tutto personali, che possono essere conscie o inconscie, che ti portano in una falesia o su una montagna o in palestra e in modo soggettivo ti fanno chiedere – cosa voglio fare? – Vorrei praticare la parete con le sue complessità? Vorrei fare il 6a o il 7b o magari l’8c? etc, etc. A me ha sempre affascinato cercare nella difficoltà il modo di renderla più facile e poi riuscire a compiere gesti impegnativi in maniera naturale e armoniosa. Arrampicare per me è anche ricerca di armonia e nella mia percezione spesso la associo mentalmente alla danza, con la quale credo che abbia molti aspetti in comune. Certo, arrivare è gratificante, ma mi piace di più arrivare alla fine di una via sentendo che il corpo si è mosso bene e in sintonia con la mente. Dove arrivare è un’esperienza personale ed ancora più personale è come poterci arrivare e percepirne la completezza. Questa è una visione particolare più legata al concetto di come ti poni in genere di fronte alle difficoltà. Si tratta di entrare in una dimensione fatta di  più componenti; fisiche, mentali, motivazionali, e non ultima la visione ed il senso del mondo esterno. Quando li sintetizzi in un gesto quel gesto cambia di valore. La mia storia personale, come credo quella di molti, si è svolta seguendo un percorso interiore; conoscendomi meglio ho apprezzato delle difficoltà che altrimenti non avrei compreso, vissuto e superato. Ovviamente c’è sempre un limite personale da tenere ben presente ma anche quello può essere riconsiderato positivamente e se possibile migliorato.
Riguardo all’aspetto più prettamente atletico e della forza muscolare, credo che per iniziare ad arrampicare non sia necessaria una preparazione fisica particolare; in questa fase conta molto di più la motivazione. Quando ho cominciato ad arrampicare la mia tonicità e forza muscolare era prevalentemente negli arti inferiori. Le prime difficoltà mi fecero capire che la forza aveva la sua importanza e cominciai a frequentare la palestra facendo pesi e trazioni a carico naturale per rinforzare la parte toracica e così si è formato quel minimo di massa muscolare che mi ha permesso un approccio diverso all’arrampicata. Con la forza migliora anche il senso di sicurezza che consente di superare alcune difficoltà senza sentirsi al limite; poi può venire l’affinamento della tecnica. Quando ho cominciato non c’erano palestre indoor con boulder o pareti attrezzate. Senza entrare nei particolari tecnici, che lascio a chi ne sa più di me,  posso dire che al Mandela si può fare un lavoro sulla forza e sulla resistenza, ambedue importanti e lavorare anche sul gesto dell’arrampicata, ovvero della ottimizzazione dei movimenti specifici dell’arrampicata che poi potrai fare in parete. Dall’attività di base si può passare a quella più mentale e delle strategie che è la più evoluta dell’arrampicatore ed anche molto personale, e nella quale non mi avventuro, per la specificità e complessità della materia e la necessità di essere trattata non superficialmente”.
Giorgia: “arrampicare è un’esperienza che tutti possono praticare, cominciare fin da piccoli è importante, ogni età consente molte opportunità”.
Federigo: “cominciare fin da piccoli è un vantaggio in molte attività, sportive e non; e fa si che quell’attività diventi più facilmente “parte di te”. Io ho iniziato in età piuttosto avanzata, ma posso dire che la passione può, entro certi limiti, sopperire alle carenze dell’età se sorretta da una grande passione. Inoltre per me l’età è anche un atteggiamento mentale, ed è bene che non diventi una scusa. Con gli anni c’è una trasformazione fisica è ovvio, ma non è poi così rapida e scontata come si è abituati a pensare. Mantenere una certa “tensione” aiuta comunque a conservare una prestazione soddisfacente e a continuare a provare il piacere di fare un’attività fisica anche intensa. ”Tirare i remi in barca” è un atteggiamento mentale che ti fa ritirare da un’attività  come dalla vita. Ho un caro amico che alla tenera età di 76 anni si fa quasi ogni anno la  Messina – Reggio a nuoto (proprio quest’anno ha stabilito il suo record temporale!) e in anni molto recenti anche traversate ben più lunghe come l’Elba – Follonica . Personalmente ancora oggi mi pare di fare dei piccoli progressi e mi considero comunque in crescita perchè non si deve prendere in considerazione solo il piano fisico; come dicevo prima, le motivazioni e i conseguenti aspetti valutativi, sono diversi e se è vero che l’uomo è corpo mente e spirito o anima,  allora anche i campi valutativi possono essere davvero molteplici. In una società competitiva come quella in cui viviamo si tende a focalizzare la valutazione sul “rendimento” in senso stretto, ma se lo prendiamo in considerazione a 360 gradi e con positività allora il senso può cambiare completamente”.
Giorgia: “a proposito di rendimento il Mandela è una struttura articolata e ampiamente attrezzata; le pareti strapiombanti però non sono molto frequentate”.
Federigo: “è vero, ma sebbene impegnative, potrebbero sicuramente essere più frequentate; penso che a molti occorra superare quel reverenziale senso di impraticabilità che inducono. Credo che sia sempre interessante da sperimentare quel – vediamo cosa riesco a fare – oppure – e ora cosa faccio? – per me sono i momenti più stimolanti e quando ne esco bene mi sento arricchito, e quando ne esco male, seppur con un po’ di delusione momentanea mi resta comunque la voglia di riuscire ad uscirne bene”.
Giorgia: “sperimentare e rischiare o mettersi nel pericolo sono dimensioni assai diverse e da considerare responsabilmente”.
Federigo: “sperimentare e qualche volta rischiare sono  il sale della vita, fanno parte del gioco e rendono la vita più interessante e stimolante; mettersi nel pericolo in modo gratuito lo considero quantomeno poco rispettoso nei confronti di se stessi e della vita che abbiamo ricevuto in affidamento. Io qualche volta sono stato imprudente, ma non considero mai il rischio in modo scontato, e soprattutto in montagna il rischio c’è e non può essere sottovalutato. Superare le difficoltà offre l’opportunità di conoscere se stessi con modalità altrimenti inaccessibili. Il pericolo non l’ho mai cercato ma qualche volta mi è capitato di incontrarlo e in quelle fortunatamente rare circostanze ho anche scoperto in me aspetti e risorse insospettati, come ad es. riuscire a mantenere una certa calma e lucidità mentale. In condizioni estreme o comunque seriamente pericolose, si muovono meccanismi impensabili, a volte negativi, spesso positivi; capisco, ad es. che attività come il “free solo”,(ovvero arrampicare senza corda e altri mezzi artificiali) possono mettere in relazione molto profonda con se stessi, con le proprie paure, con la ricerca dei propri limiti, con la capacità di autocontrollo, e quindi cambiare un’avventura in un’esperienza umana profonda, ma il rischio è di quelli che non lasciano scampo e l’imponderabile è sempre in agguato. La mia opinione è che quando arriva la tentazione della ricerca volontaria del pericolo convenga provare a pensare alle tante opportunità e motivi che la vita offre per continuare ad essere vissuta. Mi piace pensare che uno degli scopi primari della mia esistenza sia quello di diventare quello che sono; questo mi pare un obbiettivo piuttosto difficile da raggiungere e richiede applicazione e tempo, e chissà se mi basterà questa vita per raggiungerlo. Vorrei davvero che questo impegno non fosse vanificato da spinte autodistruttive”.
E così può essere per tutti.
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