Annuario 2009
Ritrovare se stessi andando in montagna e praticando yoga:
modi apparentemente diversi ma con tanti punti in comune e complementari
L’alpinismo oggi, nelle sue disparate discipline, sottopone il praticante a un certo livello di stress psicofisico e di affaticamento dell’apparato locomotore: questi producono come risultato finale un quadro sintomatologico che si differenzia di poco tra i vari alpinisti. Mi spiegherò meglio: l’escursionista così come il climber o lo sci-alpinista tendono tutti, durante l’ascesa, a sovraccaricare la colonna vertebrale così come gli arti inferiori; inoltre, vuoi per le condizioni di sforzo isometrico imposte dall’attività alpinistica che per le condizioni di alta quota, la frequenza cardiorespiratoria e i valori pressori aumentano.
Essendo stato praticante assiduo di arrampicata sportiva per molti anni, mi sento di affermare, serenamente, che questa disciplina, rispetto alle altre citate, porta ad esaurire in più breve tempo le riserve di ossigeno (in quanto attività anaerobica); inoltre le articolazioni sono piuttosto sollecitate per via delle acrobatiche evoluzioni che spesso effettuano gli arrampicatori.
Ecco che puntualmente sono sempre di più gli alpinisti che oggi si approcciano allo yoga e trovano in questa disciplina una fonte sia terapeutica sia di allenamento per le proprie performances.
La parola sanscrita “yoga” tradotta vuol dire “unione” ossia congiungimento del potenziale fisico con quello mentale. Da questa affermazione si potrebbe scrivere un’intera biblioteca ma per amor di concretezza mi fermo solo su due degli otto saperi citati da Patanjali (primo “guru” yogico) nei suoi “sutra”: le “asanas” ossia le posture yogiche, utili a riallineare il corpo, allungarlo e fortificarlo e il “pranayama” riguardante tutta la gamma delle tecniche di respirazione che, attraverso la pratica, modificano il ritmo dell’aria che entra ed esce dai polmoni fino a creare una ventilazione lenta e profonda. A questo punto è chiaro che se un alpinista di media o alta quota pratica esercizi di pranayama prima dell’ascesa per regolarizzare il respiro e una serie di asanas dopo, per smaltire l’acido lattico, allungare e defaticare la muscolatura dalle ore di cammino, ne trarrà solo benefici. Allo stesso modo un climber che durante i passaggi “chiave” ha interesse a non perdere la concentrazione (per il sovraccarico di fatica e adrenalina) potrà praticare il pranayama per calmare la mente attraverso il respiro e se vorrà migliorare la sua mobilità in parete per risolvere meglio i passaggi “acrobatici” dovrà eseguire delle asanas più avanzate specifiche per le anche e gli adduttori.
Dopo queste premesse, se qualcuno sarà interessato allo yoga, concludo dicendo che oggi esistono molte scuole con differenziate metodologie didattiche: da quella più meditativa – trascendentale a quella più tecnica e psicofisica. Secondo il mio modesto parere ognuno dovrebbe scegliere quella che più corrisponde al proprio modo di essere ma, sicuramente, se gli alpinisti vogliono migliorare le loro prestazioni, il mio consiglio è di orientarsi allo yoga tecnico. Attualmente le metodologie più riconosciute a livello mondiale sono l’Yengar e l’Asthanga Vinyasa.
“Il cammino dello yoga è come scalare una montagna: alla cima si può arrivare con sentieri diversi. Ciascuno può trovare il sentiero più adatto a sé, ma non esistono scorciatoie”.
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