“Quando si parla di speleologia” di Michele Cuccurullo

Annuario 2010

Quando si parla di speleologia, nell’immaginario collettivo si pensa unicamente ad ambienti senza luce, per lo più freddi e molto stretti in cui si calano personaggi strani vestiti in maniera bizzarra. Ed è tutto vero, ma, per fortuna, non c’è solo questo. Infatti, l’attività speleologica è talmente ampia e variegata che spesso non s’immagina quanto si deve studiare e capire il “fuori” prima di esplorare il “dentro”.
Al Gruppo Speleologico Fiorentino siamo fortunati, dalla fine degli anni ottanta fino ad ora un manipolo di soci ha rivoltato gli abissi di mezza Italia (e di un po’ di mondo… ), scoprendo percorsi nuovi con una naturalezza disarmante e reinterpretando l’attività come nessuno mai si sarebbe immaginato. I nostri hanno cominciato ad interessarsi non solo all’acqua, che scorre e modella a proprio piacimento le viscere delle montagne, ma anche all’aria, che soffia instancabile su e giù per gli abissi, preoccupandosi solo di invertire il moto quando cambia la stagione da calda a fredda e viceversa (in grotta le mezze stagioni non ci sono mai state… ).
Grazie a tanto furore esplorativo in Carcaraia, il nostro palcoscenico preferito, abbiamo una cinquantina di chilometri di grotte conosciute e probabilmente moltissimi ancora da scoprire. Ma non è solo frutto di pratica sportiva di eccellenti atleti, è il risultato di un’attenta analisi dell’esterno, messa in continua relazione con i rilievi delle nuove esplorazioni in grotta.
Sempre più spesso così negli ultimi anni abbiamo intensificato la ricerca sul territorio, molte volte collaborando con gli altri gruppi che lavorano in Carcaraia. Tutto parte da una carta dell’area carsica, rielaborata con tutti gli ingressi conosciuti e i rilievi delle grotte più rilevanti, dati che sono sapientemente conservati grazie al catasto regionale, curato dalla Federazione Speleologica Toscana. Una volta individuata la zona che ci interessa si prendono in esame le cavità già viste: consultando il catasto se ne guarda il rilievo e si cercano le relative pubblicazioni degli esploratori, per capirne storia ed eventuali potenzialità, si riarmano e si cercano nuove prosecuzioni, che possono essere finestre non viste, fessure da allargare o frane da scavare.  Contemporaneamente si cominciano le battute esterne per cercarne di nuove, mettendo il naso in tutti i buchetti sperando di percepire un minimo di circolazione d’aria, che in estate soffia dagli ingressi bassi e viene aspirata da quelli alti e in inverno fa il contrario. Se questa condizione è soddisfatta si scava subito grazie a piede di porco, mazza e scalpello, che non devono mancare mai, per capire se il nostro buco soffiante è degno di futuro interesse. In tutti i casi, se abbiamo fortuna, comincia il bello: si parte ad armare percorsi inesplorati e mai calpestati da piede umano, senza dimenticare le cautele che questa condizione impone, si scendono pozzi, si superano strettoie, magari si cammina in gallerie cercando l’acqua che ha scavato e seguendo l’aria che ci fa da guida.L’adrenalina ci farebbe proseguire per chissà quanto, ma non bisogna dimenticare il rilievo, la documentazione fotografica, le temperature da registrare ed eventuali presenze d’insetti. Tutto deve essere a beneficio di un lavoro che è solo all’inizio.
Una volta a casa si dimentica il freddo sofferto e le fatiche patite, siamo combattuti tra la voglia di tornare immediatamente in montagna e l’esigenza di capire dove siamo stati. Così si restituisce il rilievo effettuato, mettendolo subito in confronto con la mappa esterno/interno e, dando vita ad una miriade di congetture, sempre in bilico tra fantasia e razionalità, si aprono discussioni sulle potenzialità del lavoro svolto e gli scenari che potrebbe aprire, in attesa spasmodica del sabato successivo.
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