“Strada ferrata e montagne” di Neri Baldi

Annuario 2009

 

Il CAI è da sempre è impegnato nell’uso del treno in modo particolare sulle linee secondarie, come mezzo di trasporto per la riscoperta di luoghi  non ancora stravolti dal progresso. La Sottosezione di Scandicci nel cui interno sono presenti  alcuni appassionati vuol far conoscere qualcosa di più ma soprattutto di diverso rispetto a quello che si può trovare normalmente.


Littorine a Ronta
Cosa c’entra la ferrovia con la montagna?
Forse sarà questo il primo pensiero che verrà in mente a chi sfoglierà l’annuario. A ben vedere il riferimento è però assai pertinente.

Dalla metà del XIX secolo la strada ferrata cominciò a rendere possibili collegamenti celeri fra i centri urbani e a mettere in comunicazione effettiva popolazioni che fino allora erano rimaste più o meno separate a causa delle caratteristiche orografiche del territorio: le ferrovie sono state strumento di grande sconvolgimento economico ed effettivo rinnovamento della società, tanto che a suo tempo Pio IX ebbe a dire di esser contrario al treno perché oltre che persone e merci faceva muovere anche le idee.

La strada ferrata fu il primo concreto elemento di unificazione della popolazione italiana, da secoli divisa in staterelli regionali, anche in conseguenza dei confini imposti dalla natura: basti pensare che l’adozione di un’ora unica per tutta la penisola fu la conseguenza della necessaria standardizzazione imposta dall’adozione dei primi orari ferroviari che – ovviamente – dovevano avere un unico rifermento.

In questo contesto nascono i grandi trafori alpini, che consentono di superare in poche ore distanze che prima, attraverso i valichi in quota, spesso richiedevano anche giorni di viaggio, e con la strada ferrata vengono raggiunte località fino allora sostanzialmente isolate. Le opere ferroviarie dettero grande impulso all’economia e furono elemento di rinnovamento – o forse di sconvolgimento – per aree remote rimaste fino a quel tempo ai margini della collettività.

 

Costruzione della Faentina (coll. N. Baldi)

Tali considerazioni valgono più in particolare anche per la Toscana: gli Appennini sono il confine naturale della regione e per essere valicati con la macchina a vapore richiesero imponenti lavori. Ecco quindi il nesso che lega il treno alla montagna, che l’uomo col passare del tempo e con l’evoluzione tecnica da sempre cerca di superare in modo via via più agevole.

Questo piccolo scritto vuole poi essere un mio modesto contributo per ricordare Roberto Frasca, istruttore del corso di scialpinismo che frequentai diversi anni or sono (in cui fu amichevolmente ribattezzato Capilene), che condivideva con me questo insolito interesse per il binomio montagna-ferrovia.

Non voglio tediare il lettore con uno sterile – e forse per molti incomprensibile – elenco di nozioni ingegneristiche o ferroviarie in senso stretto, ma evidenziare come al di là della tecnologia il fattore uomo resta comunque determinante per vincere la montagna anche col treno, laddove le forze della natura – soprattutto in inverno – cerchino di prendere il sopravvento. E per far ciò penso che la cosa migliore sia di dare voce ai ricordi – raccolti dalla viva voce di chi li ha vissuti 1 – che rendono testimonianza della lotta infinita uomo-natura.

Se poi saranno piaciuti … ci potrebbe essere un seguito!

L’ambientazione è sulla Faentina, inaugurata nell’aprile del 1893 come seconda ferrovia transappeninica (la prima era stata la Porrettana) progettata per collegare Firenze con la Romagna e, quindi, mettere in comunicazione diretta Adriatico e Tirreno. La linea fu pesantemente danneggiata dai guastatori tedeschi durante la seconda guerra mondiale e venne ricostruita con esasperante lentezza, tanto che la tratta Borgo San Lorenzo-Vaglia-Firenze fu riaperta all’esercizio solo nel 1999. Fino ad allora il collegamento fra Toscana e Romagna avveniva attraverso il solo ramo di Pontassieve. Il superamento della catena appenninica si ha con la galleria detta “Degli Allocchi”, situata fra Ronta e Crespino, in una zona praticamente disabitata ed esposta alla violenza degli agenti atmosferici.

 

Da Borgo San Lorenzo a Firenze (coll. Carnesecchi)

Negli ultimi tempi della trazione a vapore – siamo negli anni sessanta, caratterizzati da inverni particolarmente rigidi –  il servizio di sgombraneve sulla Faentina era garantito da una locomotiva a vapore del deposito di Firenze, appositamente distaccata a Borgo. Era la macchina che la mattina effettuava la coppia di merci da e per Pontassieve e che per il resto della giorno stazionava presenziata in rimessa, sonnacchiosa col suo imponente vomere. Non sempre era però possibile attivarla tempestivamente per evitare la chiusura della linea e l’interruzione del collegamento attraverso la montagna.

Ogni volta che nevicava si ripeteva l’eterna lotta dell’uomo con la Natura.

Sgombraneve

Non era la prima volta che mi assegnavano il servizio di sgombraneve che, il più delle volte, si risolveva in ben poca cosa. Infatti, nonostante a quel tempo nevicasse assai più di frequente che oggi, ce n’erano di assai più gravosi. Dopo aver ricevuto le consegne per l’indomani penso quindi che, tutto sommato, non mi è andata male.

Dopo cena, mentre vo a dormire nel dormitorio di Borgo, do un’occhiata al cielo e penso che il tempo non promette nulla di buono: “Stai a vedere che stanotte nevica … giusto in tempo per lo sgombraneve che mi hanno assegnato”. Inutile pensarci: mi metto a letto e m’addormento di sasso.

Suona la sveglia: tutto bianco! Ecco, ci siamo. Tocca a noi.

 

Il tracciato della Faentina

Esco dal dormitorio e scambio due chiacchiere col macchinista, per chiedergli se abbia esperienza in proposito. Un meridionale, calabrese, mi pare. Penso al mare di Tropea e mi chiedo se la neve non l’abbia neppure mai vista. Il tempo di sistemare il fuoco della locomotiva e arriva l’operaio dei lavori che, per regolamento, deve scortare il treno sgombraneve.

Il vento mugghia in un turbinio di neve. Arriva il capostazione, imbacuccato nel pastrano, cercando di riscaldarsi le mani sotto le ascelle. Ci dà il foglio di corsa. Si parte.

Sul viadotto, all’uscita della stazione, ci investe d’infilata una raffica di tramontana più forte delle altre e per una volta rimpiango la cabina chiusa delle locomotive da manovra. In breve siamo a Panicaglia. Poi si prosegue fino a Ronta senza particolari problemi: la macchina rende bene e di neve non ce n’è poi tanta … forse una spanna sopra il piano del ferro. In stazione però ci avvertono che più in su nevica dal pomeriggio. Mah, andiamo a vedere.

A me mi pare che si vada un po’ troppo forte – fo al macchinista –  guarda che ora sono tutte gallerie”.

Lui per tutta risposta mi dice che a casa sua di neve ne viene molta di più, che è pratico di questo genere di servizi e comunque di non preoccuparmi. Mi stringo nelle spalle e incrocio lo sguardo dubbioso dell’operaio, seduto sulla cassa attrezzi del tender.

S’entra in una galleria in curva e a un certo punto, quando a memoria mi pare si debba vedere l’uscita, scorgo una flebile lama di luce davanti a noi: la neve ha quasi interamente ostruito il portale. L’operaio, saggiamente, suggerisce di scendere per vedere di che si tratta, se c’è una frana o che altro, e fa per scendere.

 

Vecchie littorine

Il macchinista non vuol sentir ragioni: se sgombraneve deve essere, che sgombraneve sia: gira il volantino d’inversione e retrocede di un centinaio di metri, poi dà tutto vapore: “O che se’ grullo? I’ che tu fai … ci s’ammazza tutti!”.

Un tonfo sordo. Sento la macchina sussultare.

Poi un turbinio tutt’intorno: “aiuto – urla l’operaio – sono paralizzato, ’un muovo più le gambe”.

Agitando il fazzoletto per l’aria cerco di schiarire l’atmosfera lattiginosa che ci circonda: neve, nebbia e vapore si sono impastate in un tutt’uno. Cerco di muovermi, ma anch’io non ci riesco. Guardo in giù: siamo immersi nella neve fino alla cintola, impietriti per lo spavento ma incolumi. La macchina aveva sfondato un muro di neve farinosa, accumulata dal vento a ridosso del portale, che poi ci era ricaduta addosso.

Piglio la pala per farmi strada. Scendo. Il vomere ha retto e la locomotiva è rimasta sui binari. Tutto sembra a posto si può proseguire il servizio e riaprire la linea … che botta però!

P.S.: il viaggio di ritorno si fece in due: a Marradi l’operaio si dette malato.

Fine d’anno al gelo

Per l’ultimo dell’anno ero alla guida del treno che partendo Faenza alle 8,05 avrebbe dovuto raggiungere Firenze alle ore 10.30. Il servizio veniva svolto con due Littorine, accoppiate in comando multiplo, ed iniziava con una prima corsa Faenza-Marradi-Faenza che nel tratto Marradi-Faenza rinforzava il treno dei bolognesi per portare a Faenza gli studenti raccolti lungo i paesi della val Lamone.

La giornata era iniziata con una forte nevicata, ma fino alla partenza da Faenza tutto si era svolto nel migliore dei modi e lo spessore della neve non aveva impensierito le Littorine. Durante il viaggio la nevicata aumentò di intensità e a San Martino decidemmo di verificarne l’altezza sul piano del ferro: oltre 25 cm! Per ripartire tornammo indietro di alcune decine di metri per prendere un po’ di velocità prima dell’impatto con la massa nevosa. I predellini sotto le porte tagliavano la neve ed il treno avanzava lasciandosi ai fianchi due scie bianche. La nevicata manteneva la sua intensità ed anche per ripartire da Popolano fu necessaria una breve retrocessione.

Arrivati a Marradi, con la nevicata che non accennava a diminuire di intensità e l’incognita delle condizioni che avremmo trovato sull’Appennino, ci mettemmo in comunicazione con il Dirigente Unico della linea per avere notizie su quali condizioni avremmo trovato oltre; ci fu detto che non c’erano notizie sulle condizioni presenti in Appennino ma che a Borgo la nevicata non era molto forte, perciò prendemmo accordi per il proseguimento del servizio.

Dopo la stazione di Marradi la ferrovia inizia una forte salita che trova il suo apice a metà della galleria di valico. Le Littorine, in queste condizioni, riuscivano a raggiungere la velocità di 30-35 Km/h all’interno delle gallerie, ma appena fuori, dove lo strato di neve aumentava continuamente, la velocità scendeva rapidamente a 10-15 Km/h. In queste condizioni proseguimmo fino a Crespino da dove ripartimmo con un po’ di preoccupazione per le condizioni che divenivano via via più difficili: la nevicata era diventata una vera e propria tormenta, con vortici di vento che ammassavano la neve nei punti sottovento. Eravamo ormai a pochi chilometri dal valico e le automotrici arrancarono faticosamente fino all’uscita dall’ultima galleria che precede quella “Degli Allocchi”. Lo spessore della neve era però così alto che la velocità scese ulteriormente finché il treno si arrestò.

Eravamo fermi fra le due gallerie nel mezzo alla bufera in una zona disabitata: che fare? La tormenta imperversava ed un brusio si levò dai viaggiatori, che, per la verità, erano rimasti fino a quel momento tranquilli.

La fine della salita era lì a pochi metri … decidemmo allora di retrocedere all’interno della galleria per tentare di riprendere velocità, sperando così di superare il muro di neve che si era formato. Per due volte ritornammo nella galleria e per due volte, preso quel po’ di velocità, di nuovo ci arrestammo contro il muro di neve a pochi metri dalla galleria di valico. I viaggiatori, resisi conto delle difficoltà erano ammutoliti. E così nel silenzio totale solo il rumore del motore in cabina di guida ci spronava a ritentare, finché, al terzo tentativo, arrivammo col primo carrello all’interno della galleria di valico: di colpo sparì la neve e sentimmo le Littorine prendere velocità … dal comparto viaggiatori arrivò un mormorio di approvazione e noi in cabina esultammo per lo scampato pericolo.

Nel buio della galleria facemmo congetture su quanta neve avremmo trovato all’uscita sull’altro versante. Decidemmo di procedere a velocità molto bassa nel timore di trovare un ammasso compatto che avrebbe potuto farci deragliare, ma appena fuori ci rendemmo conto che la neve ricopriva di poco la rotaia e questo ci rinfrancò; anche all’uscita della seconda galleria trovammo le stesse condizioni e quindi aumentammo la velocità fino a circa 30 Km/h. Così arrivammo alla vecchia fermata di Fornello dove, alla fine del marciapiede, ci trovammo improvvisamente davanti un cumulo di neve: le automotrici si arrestarono di colpo ed a quel punto ci preoccupammo di verificare se eravamo ancora sui binari o se la quantità di neve sotto la cassa della prima Littorina l’avesse in qualche modo sollevata dai binari.

Scendere, data la quantità di neve, era impossibile e perciò alzammo le botole sul pavimento che coprivano il cambio ed il ponte per verificare se le ruote fossero ancora sulle rotaie. In queste condizioni provammo una breve retrocessione a bassissima velocità. Tutto era a posto, le Littorine avevano superato anche quest’ultima prova:  con piccoli colpi, eravamo in discesa e tutto risultò più facile, sfondammo il muro di neve. Proseguimmo con cautela fino a Ronta da dove rassicurammo il Dirigente Unico, che era in realtà molto preoccupato dato il tempo trascorso dalla nostra partenza da Marradi!

La nevicata era molto diminuita d’intensità, lo spessore della neve sul binario non impensieriva più, il servizio proseguì tranquillo e le macchine ressero onorevolmente le difficoltà fino a Contea-Londa, dove un cambio andò in ebollizione ed un altro lo seguì dopo Rufina (il cambio idraulico aveva i radiatori di raffreddamento del liquido posti trasversalmente sotto la cassa e la neve accumulata aveva impedito il corretto raffreddamento del liquido).

Con i due motori restanti e con qualche preoccupazione arrivammo a Firenze, alle 12.45, ma arrivammo!

1 Storie tratte da “Musi neri” ed. Pegaso Firenze in corso la terza ristampa.

2 Sottosezione Scandicci e Presidente dell’Associazione Toscana Treni Storici

Condividi questo articolo attraverso i tuoi canali social!

Lascia un commento