Intervento integrale di Roberto Masoni al Convegno su Guido Rossa

Firenze, lunedì 23 gennaio 2012 – Camera del Lavoro Metropolitana di Firenze

“Guido Rossa, alpinista e sindacalista”

intervento integrale di Roberto Masoni 

Buonasera a tutti. Il compito che Luca mi ha affidato, non è facile e non lo è per più motivi. Più volte, negli ultimi giorni, ci siamo confrontati su cosa fosse necessario spiegare per rendere chiaro a tutti Voi perché l’attività dell’alpinismo può, in qualche modo, stimolare all’impegno sociale. Molti mi chiedono “cosa c’entra l’alpinismo con Guido Rossa”, molti chiedono a Luca “cosa c’entra Guido Rossa con l’alpinismo”. Realtà talvolta diverse ma non distanti. Cercherò allora di spiegarlo anche se occorre un primo distinguo. Un distinguo che vuole rispondere a due domande fondamentali e cioè “perché si fa alpinismo” e “cos’è l’alpinismo”.

Cerco di rispondere velocemente alla prima domanda.

Se chiedete a un alpinista perché fa alpinismo o ciò che per lui rappresenta l’alpinismo, la domanda rischia, francamente, di rimanere senza risposta. Io, per primo, avrei difficoltà a rispondere. Certo influisce molto una forte passione per la montagna, per la montagna in genere qualunque sia l’attività che si coltiva. Vi è indubbiamente, negli alpinisti, il desiderio e l’ambizione, perché no, di ripercorrere le tappe del grande alpinismo classico. Tappe che simboleggiano un sogno, una ricerca interiore, l’aspirazione a misurarsi con le difficoltà. In poche parole, sono tappe che incarnano l’avventura tesa a scoprire un mondo sconosciuto, la voglia di conoscere e di conoscersi.

 Ma non sono così presuntuoso da pensare di aver trovato la chiave di lettura. Molti sono coloro, anche personaggi illustri, che non hanno saputo rispondere. Pensate che Edmund Hillary, che per primo nel 1953 mise piede sulla cima dell’Everest, alla domanda del perché lo avesse fatto rispose candidamente “perché le montagne sono là”. Una risposta che ha il sapore dell’innocenza. Ma al di là di come la si pensi, una cosa, io credo, accumuna sostanzialmente tutti gli alpinisti e tutti coloro che vivono per la montagna, con la montagna, della montagna: il desiderio d’avventura.

 Spiegare allora cos’è l’alpinismo, piuttosto perché lo si fa, può rappresentare un compito più semplice.

 Sono molti coloro che hanno trovato nell’alpinismo le motivazioni per dedicarsi all’impegno sociale, superare cioè la fase alpinistica per dedicarsi con più stimolo alla vita quotidiana. E fra costoro anche Guido Rossa. Già nel 1963, al ritorno dalla spedizione extraeuropea alla quale prese parte, Rossa mostrò interesse e denunciò la situazione di miseria in cui versavano le popolazioni che aveva conosciuto sul luogo. Fu forse un primo sintomo del suo impegno futuro, politico e sindacale, a conferma che gli alpinisti, un mondo certamente popolato da sognatori e da eterni “ragazzi”, non sono estranei e denotano anzi un forte interesse, nella loro anarchia di comportamenti, nei confronti del mondo che li circonda.

Ricordo un amico del Gruppo Speleologico Fiorentino, un gruppo storico che ha segnato la storia della speleologia, sostenere, con una buona dose di ironia, che lo Stato Italiano molto ci deve in termini di spesa. Perché se non vi fossero le montagne e le grotte saremmo inevitabilmente alloggiati in manicomi a spese dello Stato.

Naturalmente nella realtà non è così, era un modo per evitare di prendersi troppo sul serio. L’alpinismo è sicuramente un’attività particolare, che io tendo a non chiamare sport, un’attività che fa fatica ad imporsi soprattutto in virtù del rischio e dei requisiti che comporta. Requisiti non banali, serve infatti la tecnica, la testa (come la chiamiamo noi), la conoscenza delle manovre e quella del micro-mondo che ci circonda. Requisiti quindi che devono essere ben combinati fra loro, soprattutto in modo consapevole, prima di gettarsi in qualunque avventura verticale.

Due sono gli aspetti che caratterizzano questa nostra attività, le due facce contrapposte di un’unica medaglia: una più luminosa, l’altra più oscura.

Qual è il lato positivo.

Molti si sono affrettati a definire l’alpinismo una cosa di assoluta inutilità.

Avevano ragione.

Dimenticano però di dire che la Montagna e l’alpinismo sono – lo dico forte delle mie, per quanto modeste, esperienze – sono, ebbene sì, una scuola di vita.

Giovanbattista Piaz, alpinista fassano passato alla storia con lo pseudonimo di “Diavolo delle Dolomiti” ed al quale è intitolata la nostra Scuola di Alpinismo di Firenze, nata nell’immediato dopoguerra ed una fra le più importanti e le più vecchie del panorama nazionale, di cui saluto il Direttore, Eriberto Gallorini, seduto anch’egli qui tra noi, oggi. Diceva, quindi, Giovanbattista Piaz a proposito dell’alpinismo:

“Vi è un’importante esigenza: l’educazione dell’alpinismo. Se ne trarranno grandi risultati anche per lo spirito, giacchè educare alla Montagna è educare alla vita”.

Pur nella sua e nella nostra intermittente ma controllata follia, Tita, come lo chiamiamo noi, aveva ragione.

L’alpinismo, infatti, insegna con forza a raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti, insegna che occorre sudore per raggiungerli (talvolta anche solo per raggiungere la base di una parete occorrono tre, quattro, cinque ore di avvicinamento), insegna a “sporcarsi le mani” nel senso buono del termine, a mettere in campo la determinazione necessaria, insegna a riflettere, a scegliere la via più giusta, insegna a ”cercare il facile nel difficile” come dicevano i nostri padri ed, in ultimo ma non ultimo per importanza, insegna alla rinuncia quando non vi sono le condizioni per andare avanti.

Vi sono alcune regole, comuni a tutta la comunità alpinistica, che si ispirano a pochi ma fondamentali principi che sono, appunto, il lato migliore dell’alpinismo. Perché fare alpinismo non è, come ho detto poc’anzi, solo sacrificio, l’alpinismo insegna anche altre cose. Ad esempio a rafforzare l’amicizia con i compagni, a condividere quest’amicizia nei momenti di appagamento e di sconforto, insegna a vivere e ad affrontare le avversità e a sopportarne il peso psicologico, sviluppa un forte sentimento di solidarietà, a vivere senza l’invidia dei ruoli (perché nel nostro strano mondo sono sempre riconosciute le doti di chi è stato maggiormente accarezzato dalla natura), insegna ad aiutare il compagno in difficoltà e insegna a coltivare l’esclusivo rapporto, sincero, leale, talvolta fraterno, che nasce spontaneo nei confronti di chi condivide con te una corda, quell’elemento indispensabile che, a turno, tiene salda tra le mani dell’uno la vita dell’altro e viceversa. Un elemento, quello della corda, che possiamo quindi definire vitale. Voglio dire, infine, che l’alpinismo è estraneo a qualunque forma di violenza. In nessuna forma e nei confronti di alcuno: uomo, donna, pianta, animale che sia.

Anche il mondo del lavoro è o dovrebbe essere così. Penso che anche Guido Rossa si sia ispirato a questi pochi ma vitali principi.

Si può affermare, infatti, che anche un rapporto di lavoro non deve generare invidia anzi deve essere fondato sulla solidarietà, sulla collaborazione reciproca, sull’aiuto al compagno di lavoro in difficoltà e sulla condivisione di un rapporto sincero, leale. La corda che tiene saldo il rapporto fra gli alpinisti deve essere, fra i lavoratori, idealmente riconoscibile in quel filo comune che li lega reciprocamente. Quel filo tessuto, giorno dopo giorno, nella partecipazione alle lotte, alle conquiste ma anche alle sconfitte dei lavoratori, quel filo tessuto con la partecipazione alle iniziative, con la condivisione delle idee, di tutte quelle idee tese a disegnare una società migliore, più attenta ai bisogni e alla dignità dei lavoratori. Dei lavoratori tutti, badate bene, nessuno escluso.

Ma non tutto è ovviamente automatico. Ho finora accennato all’alpinismo come scuola di vita e, quindi, a tutti quei fattori che lo rendono nobile. Esiste tuttavia un altro alpinismo, quello al quale ho già accennato, quel tipo di alpinismo che nonostante anch’esso ci serva per crescere, che ho già definito oscuro eppure allo stesso tempo utile alla riflessione e all’esame.

Lyonel Terray, uno dei più formidabili alpinisti del dopoguerra, morto a 44 anni come Rossa, ha scritto un libro indimenticabile, un libro che si chiama “I conquistatori dell’inutile”. Non si fatica a capire, fin dalle prime pagine, quanto l’inutilità dell’alpinismo sia figlia principalmente della solitudine e quanto la solitudine sia la chiave che apre alla scoperta dei propri limiti, pur nella superiorità dei gesti. Alla scoperta del fragile gusto della conquista. C’è di più, il rischio cioè di trasformare l’alpinismo in una droga di cui non poterne fare a meno.

Credo che anche Guido Rossa avesse avvertito tutto ciò. Aveva ben compreso quanto il mondo dell’alpinismo richieda, specialmente a certi livelli, non a caso ai livelli da Lui raggiunti, una totale dedizione. Una dedizione che rischia di trasformarsi, nella mente dell’alpinista, come l’unica ragione di vita, come il fine ultimo del proprio arco vitale. La vita come un grande affresco nel quale sono rappresentate solo le montagne. Ecco allora perché molti, non solo Guido Rossa, avvertiranno – come io  stesso scrissi qualche anno fa sulla nostra Rivista del CAI – la necessità di denunciare, nell’anarchia delle loro passioni, la necessità non più irrinunciabile di “scendere” a valle, fra gli uomini, chiudere con un mondo a misura che appaga soltanto per il superamento delle difficoltà ma che tende, in virtù dell’impegno richiesto, a nascondere i problemi della vita quotidiana, a limitare la ricerca di confronto con il mondo esterno dove l’alpinismo non può certo essere considerato uno strumento di crescita comune. Scrivendo ad Ottavio Bastrenta, Guido mostra di avvertire questo pericolo e quanto fosse necessaria – sono parole di Guido – l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse, anche a noi stessi) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi ed ingiustizie, […] Per questo penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro […].

Pensieri, ragionamenti, non così diversi da quelli che animano molti di noi.

Nelle parole di Guido Rossa si fa spesso cenno anche all’ingiustizia.

Un indimenticato Presidente della Repubblica, Alessandro Pertini, ci ha più volte ricordato, soprattutto nei messaggi rivolti ai giovani, che due debbono essere, in modo particolare, le mete per il pieno raggiungimento dei diritti civili. Mete d’altronde già enunciate, molto prima, da Filippo Turati. Queste mete rispondono al nome di libertà e giustizia sociale. Non esiste libertà senza giustizia sociale e non esiste giustizia sociale se viene meno la libertà. Sono parole di Pertini.

Io credo che anche Guido Rossa avesse questo obiettivo. Certo conosceva il significato di libertà, l’alpinismo è libertà anche se da più parti, ultimamente, se ne vuole ridimensionare il termine. Io credo che Guido abbia messo a disposizione dei lavoratori – ma anche del partito essendo sempre stato un comunista convinto – non solo il bagaglio di libertà che era in Lui ma anche quello di conoscenza, di sudore e di determinazione acquisiti in Montagna. Mi piace credere che questo sia il motivo per cui è diventato un combattente di tutte le battaglie, un simbolo.

Non posso non ricordare, per concludere, anche il particolare periodo storico nel quale queste scelte maturarono. Anche l’alpinismo ha infatti vissuto quel particolare momento nato intorno alla fine degli anni ’60, il meglio definito “68 degli alpinisti” che molto spazio ha avuto nella nostra letteratura di montagna. Certo Guido Rossa lo fece anche in questo caso a modo suo, seguendo le logiche della comunità alpinistica e lo fece nei modi e nelle forme che più si addicevano a quel particolare momento e a quella particolare comunità.

Nasce così, nell’ambito dell’ambiente alpinistico di Guido Rossa, quello torinese, un movimento, ispirato da Gian Piero Motti, che prenderà il nome di “Nuovo Mattino”. Rossa è uno degli interpreti più innovativi di questa scelta, di queste trasformazioni.  E’ un alpinista di razza, classico nelle sue scelte, eppure moderno, in anticipo sui tempi, disinibito nei confronti del vecchio alpinismo torinese dove la ricerca del risultato toglie spazio alla fantasia.

Furono molti coloro, che insieme a Rossa, dettero un forte contributo al rinnovamento alpinistico di una comunità fin troppo ubbidiente alla tradizione. Fra costoro Corradino Rabbi, Giorgio Rossi, Marco May, Giuseppe Dionisi, Piero Fornelli. Splendida gente che aprì la strada ad alcuni giovani torinesi che si sarebbero poi affermati e distinti fra i migliori: Perego, Mellano, Grassi.

Scrive Enrico Camanni, un altro protagonista del periodo: “Nel 1946, l’alpinismo subalpino soffriva di una certa pesantezza: miti, inibizioni, un clima austero da caserma. Si insegnava il rigore delle gerarchie. In questa impasse, Rossa segnò il momento di rottura, rilanciando l’arrampicata torinese a livelli di avanguardia. La sua fu una piccola rivoluzione silenziosa, in netto anticipo sui tempi, che con piglio sostanzialmente anarchico diede uno scossone alla retorica del riverito Alpinismo.

Le testimonianze dell’innovazione e della modernità di Guido sono molte.

Ma di Guido Rossa alpinista, ha già parlato Carlo. Mi limito a dire che avrà una storia alpinistica d’eccellenza, non a caso fu ammesso nel Club Alpino Accademico Italiano, il club dei migliori, che, nonostante l’impegno sindacale seguiterà a frequentare, contando fra i suoi membri molti amici, molti compagni. Perché Guido non abbandonò mai la montagna, non venne mai meno la sua passione, seguitò infatti a frequentarla nonostante l’impegno sindacale.

Così come molte altre esperienze anche il “Nuovo Mattino” si esaurirà dando ragione a Rossa. Gian Piero Motti, che ne fu – come detto – l’ispiratore, pubblicherà nel 1972 sulla Rivista del Club Alpino Italiano un articolo dal nome “I falliti”. Un articolo nel quale denuncia l’inutilità dell’alpinismo e la necessità di trovare altri interessi, superiori all’arido mondo dell’alpinismo.

Scrive Gian Piero:

“Sì, anch’io avrei dovuto dedicare tutto me stesso all’alpinismo tralasciando gli altri interessi. […] Trascinato da questo delirio, non ti accorgi che i tuoi occhi non vedono più, che non percepisci più il mutare delle stagioni, che non senti più le cose come un tempo. […]Ma un mattino, a seguito di lunghe giornate appiattite e monotone; […] un mattino ti sveglierai sotto un cielo scuro e gravido di nubi, e un vento freddo e tagliente andrà a dividere i tuoi capelli mentre cammini da solo per quella strada che ben conosci. Ma fra le nubi, a un tratto scoprirai un angolo piccolo piccolo di azzurro, che il vento nella sua gran corsa avrà liberato a poco a poco, e da quella densa nuvolaglia filtrerà un raggio di sole che come una spada scenderà diritto a illuminare una cresta tormentata, che solo ieri non avresti neppure notato.

Il 24 gennaio del 1979, a 44 anni, Guido Rossa sarà barbaramente assassinato dalle Brigate Rosse.

Il 24 gennaio del 1979, in quella “zona grigia e di disimpegno per la democrazia” come sentirete fra poco dalla voce di Bruno Trentin, le Brigate Rosse uccisero un uomo ma non uccisero le idee.

Non uccisero, e anzi rafforzarono, il sogno di un mondo migliore. Un mondo fondato sul benessere e sull’uguaglianza di tutti i lavoratori. Un mondo che guardava e guarda a un futuro costruito sull’unità dei lavoratori e sull’unità del nostro Paese, un Paese che unisca e non divida nonostante il tentativo di modesti e volgari personaggi della politica attuale.

Grazie Guido, grazie a tutti Voi.

 

 

Roberto Masoni

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