“Alfio, che si fa? Andiamo o anche quest’anno si rimbalza?”.
“Mah … il tempo non è granché, domani pomeriggio dovrebbe piovere, dopo però potrebbe esserci una tregua … ”.
“Bene, allora si va!”.
E così ci ritroviamo sotto una pioggia fitta e intensa a salire verso il rifugio Dante Ongari, destinazione Corno di Cavento e Carè Alto. Meno male abbiamo inviato su il materiale con la teleferica di servizio; la salita di oltre mille metri è lunga e monotona nella nebbia che ci fa intravedere il rifugio solo quando ormai siamo sulla porta.
È già ora di cena: una bella minestra calda ci rinfranca. Una chiacchierata con Marco Gramola (responsabile SAT per la caverna del Cavento) aumenta poi la nostra curiosità per una gita decisamente diversa dal solito … speriamo in bene per il tempo! Andiamo a letto che piove ancora.
4:30, suona la sveglia: “Alfio è sereno, forza andiamo!”.
A passo svelto percorriamo il sentiero che porta ai Pozzoni, avvallamento glaciale in cui si raccoglie gran parte dell’acqua di fusione della vedretta di Lares; poco dopo aver superato un ponte tibetano giungiamo al colletto e il Corno di Cavento ci appare in tutta la sua maestosità al di sopra del plateau glaciale; attraverso un labirinto di massi granitici giungiamo a ridosso della vedretta; ci leghiamo e in breve siamo a pesticciare il ghiaccio alla Sella di Niscli da cui affiorano resti di baraccamenti in legno e filo spinato, tanto filo spinato: siamo a ridosso della linea difensiva posta dagli austriaci a difesa estrema della valle di Borzago. Di buona lena risaliamo il ghiacciaio, ancora abbondantemente innevato, a differenza del ghiacciaio del Lyskam che la settimana precedente avevo trovato completamente secco. I crepacci – non molti per la verità – sono ancora intasati, salvo uno profondo ma ben visibile e facilmente aggirabile; ci attardiamo a fare fotografie soprattutto in prossimità dei Denti del Folletto e ci ritroviamo ultimi; le altre cordate hanno già raggiunto il Corno di Cavento.
In prossimità della crepaccia terminale è impressionante la quantità di residuati bellici che affiorano dal ghiaccio e dal terreno: proiettili d’artiglieria, filo spinato, una scarpa, bossoli, brandelli di coperte, frammenti di shrapnel … i pensieri si accavallano veloci in testa mentre ci dirigiamo per diletto verso l’ingresso della caverna che fu aspramente contesa; rimugino sull’assurdità della guerra a queste quote, al patimento di Alpini e Kaiserjäger e a quanti caduti abbia accolto il ghiacciaio che al tempo della guerra ricopriva le roccette che stiamo ora risalendo: di certo la montagna custodisce ancora i resti di tanti soldati travolti da una valanga piuttosto che strappati ai loro monti da un proiettile sparato delle linee opposte.
Accendo la frontale, entriamo; l’interno è incredibile, sembra un diorama: il ghiaccio ha immobilizzato la realtà di allora in un per sempre indefinito; sembra di entrare in una foto storica; vedo i pagliericci su cui riposavano i soldati di guarnigione, ci sono ancora paglia e coperte, la stufa, la dispensa, la latrina con la calce, il guscio di una bomba a mano usato come lume a olio, alcune scodelle e poi la branda e il tavolo che furono del tenente Felix Hecht von Eleda; che emozione a ripensare qui alle parole del suo diario: “Cavento! Torre di fedeltà irrigidita nel ghiaccio profondo, a te dintorno bruciano i fuochi selvaggi del fiero nemico. In alto tu stai, Corno di Cavento, grido di monito ai vili!”; mi rimprovero di non essermelo portato dietro, che bello sarebbe stato rileggerne sul posto qualche riga.
L’emozione è tanta e penso al tenente Hecht qui scomparso con la serena consapevolezza di andare incontro al suo destino ineluttabile e al tenente Attilio Calvi con la divisa di un altro colore caduto poco più a nord alla testa dei suoi Alpini che di slancio con un colpo di mano stavano conquistando il passo di Folgorita, ai tanti giovani poco più che ventenni rimasti sul ghiacciaio a un’età in cui oggi poco si fa oltre andare a scuola … e magari si cade in depressione se la ragazza ti lascia, credendo che l’esame per la patente di guida sia un ostacolo insormontabile … non eroi, ma semplicemente Uomini in grado di affrontare la vita a testa alta: non si può scegliere il se del nostro futuro, ma il come è sempre nelle nostre mani. Basta pensieri. Torniamo fuori e aggiriamo la vetta dal versante italiano: impressionante è lo strapiombo sotto il sentiero attrezzato di collegamento col passo di Cavento … e pensare che era normale per gli Alpini percorrerlo per recarsi ai baraccamenti sotto Punta Calvi; la croce di vetta con due elmetti di foggia diversa ci ricorda – come diceva mio nonno – che i soldati se fanno il loro dovere son tutti uguali, e ancor più lo sono quando son caduti. Una foto di gruppo con Marco Gramola che ci offre un buon caffè con un fornellino da campeggio, poi una stretta di mano; anche lui e il suo amico se ne vanno e rimaniamo soli sul ghiacciaio … strana atmosfera … l’ambiente è superbo e il tempo è buono, ma i pensieri si aggrovigliano in testa; penso che anche per Alfio sia lo stesso … siamo entrambi molto più silenziosi del solito. Non è l’ora migliore per camminare su un ghiacciaio, con questa temperatura poi; sono davanti: “dai, non fare bischerate, guarda bene dove metti i piedi, c’è Alfio legato dietro” … ho ripassato bene i paranchi, ma siamo soli … mi sento però piacevolmente parte della Montagna; ho ancora fiato – grazie a Dio – ma la barba è di un colore che rende evidente come la prestazione atletica e lo slancio per l’avvenire vengano sopraffatti dall’introspezione nella memoria, penso al nonno in grigioverde alla forcella del Cristallo – mai gli ho sentito dire una parola di odio verso gli austriaci – impugno salda la picca che a tratti mi sorprendo a immaginare come un Carcano … e se fossi dovuto venir qui con le stellette sul bavero? che avrei fatto? sarei riuscito a vivere, o almeno a sopravvivere? In silenzio arriviamo al rifugio. Bevendo una buona birra ci godiamo il tramonto verso la cresta est del Caré Alto, prevista per l’indomani, salita non banale – niente di che, intendiamoci! – ma pur sempre con un tiro di III grado, alcuni passi di misto e un filo di cresta davvero affilato. La notte passa in un baleno.
Con due corde e un bel po’ di ferraglia negli zaini (ho preso anche i friends di Jacopo …) ci incamminiamo verso la Bocchetta del cannone dove troviamo i due famosi Skoda (o meglio, ciò che ne resta) ancora in postazione, con tanto di munizioni a fianco: “Alfio, lascia stare, magari l’innesco è ancora buono!” e il pensiero corre veloce ai frammenti di proiettile trovati ieri sul ghiacciaio di Lares, sparati forse proprio da qui … come è diverso – oltre che aleatorio – trovarsi al di qua o al di là dell’otturatore se parli un’altra lingua e vesti un’altra divisa … e nel mezzo il bianco del ghiacciaio, deserto immacolato che rende tutti uguali. Mi dispiace non essere stato Alpino; forse sarei stato un buon soldato … che ne dici capitano Ciabatti?
Indugiamo a lungo a fare foto; la nebbia che comincia a salire dal fondovalle ci coglie mentre vaghiamo fra enormi massi alla ricerca della migliore via per raggiungere la base della cresta Cerana attraverso la piccola vedretta di Conca: “Sì Alfio sono d’accordo, è meglio non insistere e tornare indietro, anche perché per tornare a valle ci sono più di 2000 metri”.
Meglio così tutto sommato, troppe emozioni … la testa è un po’ vuota, siamo appagati, e in montagna – si sa – la testa è mezza salita. Mentre scendiamo verso le nuvole che continuano a venirci incontro mi chiedo se stiamo solo fuggendo da noi stessi o se abbiamo valutato con ponderazione la decisione giusta … e continuo a pensare a quelli che non hanno potuto decidere liberamente e che sulla montagna ci son rimasti, non per loro scelta, per sempre. Alfio, è bello averti compagno di cordata.