“Attenzione pericolo valanghe” di Sergio Rinaldi

Gennaio 2010
La neve che cade ci può infondere al momento un senso di euforia e di gioia puerile ma anche un certo disagio pensando a chi soffre in fondovalle o nella piana. Le sensazioni e le reazioni variano da individuo a individuo. L’alpinista pensa subito all’accumulo della neve sulle montagne e si domanda quanto spessore può avere ricoperto la natura trasformandola con quel bianco manto invernale. La sensibilità dell’uomo è attirata e sorpresa da quell’incanto caduto dal cielo.
Ci si affida a volte alle informazioni provenienti dai bollettini meteo/niveo, a internet o alle e-mail degli amici e, come un improvvisato tam/tam, si ottiene rapidamente l’aggiornamento della situazione. Ecco che scatta in noi il desiderio impellente di conoscere personalmente le condizioni innevate della montagna. La nostra esistenza viene sconvolta e l’equilibrio tra il rapporto del nostro stato di quiete latente e l’ambiente così trasformato è cambiato, facendoci vincere la pigrizia della nostra sedentarietà. Ma un disturbo psicologico ci turba ancora, legato all’incertezza della vera situazione ambientale derivata da quella coltre bianca che ha creato dentro di noi emozione ma anche un certo senso di tensione sotto l’effetto del nuovo stimolo. Pensiamo allora al confronto con il freddo ambiente invernale per raggiungere un traguardo, forse inutile, con le difficoltà e ottenere così il consenso generale degli amici. Il pensiero a volte si esalta sotto l’effetto dell’emozione che tende a sfuocare gli ostacoli e le barriere della natura, cercando di trasferire sugli altri il nostro stato di scarsa efficienza del momento per riceverne aiuto e approvazione. A volte anche il nostro deficit visivo può sottovalutare il territorio, le pietre, le rocce, la neve e il ghiaccio che sostengono le montagne che, con la loro esistenza, ne fanno oggetto di puro desiderio di conquista solo per appagare il proprio equilibrio psicofisico e un senso di compiacimento personale irresistibile. Ma dobbiamo sapere dominare questo stato euforico giovanile che ci assale misurandolo con il disagio ambientale o i possibili pericoli che la montagna ci può riservare. Con la conoscenza dei rischi si potrà ottenere un buon livello di azione e di comportamento che gli esperti delle Scuole di Montagna del CAI, nei vari livelli, trasferiranno agli allievi le proprie competenze ed esperienze per aumentarne la sicurezza nell’andare in montagna. Però la sola teoria e tecnica può non bastare per un approccio impegnato e sicuro al 100% .
Spesso i messaggi giornalieri emessi dai media non sono precisi e possono variare da un giorno all’altro e quindi le informazioni vanno valutate con criterio. Un tempo non avevamo notizie recenti e si affrontavano i monti a cuor leggero, senza sapere lo strato della neve ma guidati solo dal proprio istinto, riservandoci di assaggiarla sul posto. Oggi si possono avere notizie fresche consultando i siti del Corpo Forestale, della Guardia di Finanza, di A.N.Ne.Va., di meteomont, del Soccorso Alpino e delle relative sedi del CAI. Evitiamo le uscite quando lo stato di pericolo del bollettino niveo segnala il grado 4 o 5. Ma dobbiamo soprattutto fidarci delle nostre forze e del nostro intuito, sapendo scegliere il momento più conveniente per scalare la montagna. Trascuriamo in parte l’aumento dell’ansia per evitare che essa possa travolgere e trasformare la nostra tranquillità di ragionamento in angoscia. Bisogna anche sapere mitigare l’ambizione di superare i nostri limiti e i propri maestri con un comportamento a volte irresponsabile che sappia invece regalarci una scelta di vita priva dal contagio di quella insidiosa malattia che è l’ansia. Lo stato ansioso può derivare anche dal desiderio personale di mettersi in gioco o alla prova, nonostante l’incertezza dal maltempo in arrivo, profetizzato dal bollettino meteorologico di quel momento. Bisogna evitare di barare con noi stessi e con le condizioni ambientali previste o con le regole che la diminuzione della pressione atmosferica provocano su di noi quando si abbassa la circolazione dell’aria, creando uno stato di preallarme.
Sono cambiati i tempi in cui si pensava: Fortuna adiuvat audaces!
Teniamo presente che, nonostante le esercitazioni, nel sapere usare bene l’ARVA (apparecchio di ricerca in valanga) esso non scongiurerà il pericolo di quando una massa instabile di neve decide di interrompere la sua staticità e di precipitare sulla nostra testa. Spesso la sopravvivenza per gli sci alpinisti, per i ciaspolatori, per gli alpinisti e per gli ice-climbers è molto ridotta e legata ai soli 15 minuti utili per il nostro rinvenimento. Cerchiamo quindi di evitare movimenti temerari o irrazionali che possano generare in seguito motivi di vero rischio per le squadre del Soccorso Alpino che accorreranno alla nostra ricerca.
Lasciamo le imprese più impegnative ai super eroi della montagna che sanno quando e come affrontare con esperienza i pericoli della roccia, della neve e del ghiaccio insidioso, ma ricordiamoci che è sempre bene diffidare dei pericoli latenti o delle circostanze dall’apparenza banale che però possono essere sospesi sopra di noi come una spada di Damocle. Quando la valanga si decide di scendere a valle essa non farà certamente distinzione tra i professionisti o i dilettanti, ma i travolti dovranno solo affidarsi alla sorte che avrà riservato loro il Buon Dio. Si intuisce che quando le cime sono appesantite da uno spesso manto di neve, queste si vogliono scrollare di dosso al più presto di quel fardello bianco pesante. Forse quello è il momento di restare a casa e di non sfidare la natura addormentata.
Anche i valligiani hanno un sacrosanto terrore delle valanghe e li hanno battezzate con paurosi nomi locali e non escono all’aperto se prima non è precipitata in basso quella massa di neve sospesa. A volte anche le case sono in pericolo, dominate da ghiacciai minacciosi come quello della Brenva o quello della Grande Jorasses il cui boato e il soffio della massa di neve spostata e caduta dal suo versante Sud innesca uno scivolamento nevoso anche sul versante opposto formando accumuli di blocchi di neve ghiacciata alti diverse decine di metri come a Plan-Pincieux (in val Ferret, sopra Entreves).
Ma i rischi saranno forse diminuiti e più calcolati se ciascun alpinista, seppure spinto dal desiderio di eccellere o di conoscere meglio se stesso e i propri limiti sarà conscio e responsabile delle proprie azioni e possibilità del momento e avrà imparato ad interpretare i segnali che la montagna gli ha inviato. Per esempio il pericolo di un rialzo termico, un sovraspessore di accumulo di neve oltre i 30-40 cm., la presenza di cornici, di crepacci nascosti, le rigole scavate dai sassi, il rumore dei crac che avvertono di un equilibrio interrotto improvvisamente, l’aumento della pendenza di inizio stagione. Salvo le cornici questi pericoli sul nostro Appennino sono poco marcati, ma sulle Alpi non sono da sottovalutare. Gli insegnamenti ricevuti dagli esperti non serviranno solo per le nozioni tecniche apprese se non sapremo avvalerci di un’esperienza personale più diretta impegnandoci a convivere anche con le difficoltà della montagna senza cercare di superarle oltre le proprie possibilità, pur cerando di evitare ineluttabili fatalismi.
I disturbi ambientali o psicologici derivati da stress e legati allo sforzo fisico o dalla tensione sono a volte limitati con un’adeguata dieta ricca entro certi limiti di zuccheri e indispensabile per l’equilibrio dell’organismo. Ma non sempre le proteine, l’acqua, la frutta secca, i cibi energetici e le vitamine sono sempre sufficienti a produrre energia aumentando le calorie con un’azione autoregolatrice e sono in grado di farci adattare più facilmente alle fatiche, all’abitudine per gli eventi ambientali e stagionali, alle vertigini, all’altitudine, alle temperature, all’umidità della pressione atmosferica e  quindi le emozioni vanno sapute dominare secondo la propria capacità. Con la stanchezza bisogna evitare di andare in DISPNEA, quel malessere legato all’assenza di fiato, o ad un improvviso scompenso o a quello stato ansioso che ci taglia il respiro o lo rende affannoso.
Ma anche l’evacuazione, in posizione tranquilla e non esposta, può aiutarci ad affrontare più leggeri i rischi di una salita impegnativa. Io invito spesso gli sciatori alpinisti, che sono con me, nei tratti piani e difficilmente rintracciabili in caso di nebbia, a segnalare il percorso con la propria urina, come fanno i cani, sul lato opposto del senso di marcia sopra i blocchi di neve o di ghiaccio accumulati come un ometto improvvisato. Questa segnalazione mi è stata a volte utile nel ritorno a valle sullo stesso percorso della salita specie in presenza di scarsa visibilità.
Gli effetti benefici della cosiddetta montagna-terapia possono derivare non solo dall’aspetto più o meno impegnativo di un rischio calcolato o limitato dalle difficoltà e dai pericoli che ci presenta la montagna, ma anche e soprattutto nel percorrere sentieri o percorsi più tranquilli e più rilassanti o nel fotografare scorci di albe o tramonti, fiori e rocce che la natura ci invita ad osservare sapendo cogliere con relax l’attimo fuggente.
Le attrezzature e le apparecchiature di oggi bene esprimono l’avanzare del progresso tecnologico dei tempi ma, seppure utili e indispensabili, non sempre sono utilizzati con la dovuta competenza e l’abilità necessaria e non sempre rappresentano una garanzia assoluta sulla vita se non si sanno percepire i segnali di pericolo emessi dalla montagna. Le cornici aggettanti, generate dal vento, che a inizio di stagione contribuiscono a rendere più ripido un pendio sono a fine stagione sparite perché crollate e  precipitate in basso sotto forma di valanghe che hanno addolcito lo scivolo, rendendolo praticabile e più sicura la neve anche agli sci di qualche provetto sci alpinista. I canali sotto la croce del Corno alle Scale (sui 45-55°) sono percorribili con gli sci in genere verso la metà del mese di Maggio. La neve alta e accumulata da recenti nevicate e non amalgamata con lo strato sottostante, sia di erba o di ghiaccio, risulta instabile e pericolosa se tagliata trasversalmente.
La discesa con gli sci va eseguita seguendo il più possibile la massima pendenza, con una serie di strette serpentine che a mò di dentatura di un ingranaggio non taglino il pendio facendolo slittare e provocando valanghe indesiderate, come diceva la buona e vecchia guida Toni Gobbi di Courmayeur. Le rocce poi non sempre bloccano la neve ma esse sono le prime a risentire l’influenza dei raggi solari, provocandone il distacco e rilasciando eventuali sassi cementati dal ghiaccio. Le onde sonore degli urli umani emessi nei canaloni o su ripidi pendii possono provocare la caduta di pietre e di ghiaccio o addirittura il distacco delle cornici terminali. Mi sovviene alla mente di quelle tre o quattro volte che la neve mi ha giocato un brutto scherzo trasportandomi velocemente a valle con rotoloni e capitomboli indesiderati, come si pensa sia la classica immagine della valanga tradizionale. Sul Ruitor (in Val d’Aosta) cercai di nuotare con le braccia aperte anche se ero impedito dagli sci legati sopra lo zaino. Sulla Rognosa del Sestriere (in Val di Susa) riuscii a far partire di proposito una valanga avendone intuito il pericolo e così procedere tranquillamente con i ramponi nel suo solco. Sulla parete Nord dell’Argentera (nelle Alpi Marittime) cercai di ingaggiare una furibonda lotta per arrestare la mia corsa con la piccozza in mano e i blocchi di ghiaccio in movimento caduti dall’alto. Ma sono sempre riuscito ad uscire fuori da tanti altri impatti ravvicinati con la neve che però, pur avendomi segnato nel fisico, ho avuto la forza di reagire e la fortuna di raccontarla in po’ per la mia buona sorte e un po’ per l’astuzia o per l’esperienza personale. Vorrei potere raccontare di tante vicende dove la neve mi ha coinvolto, ma lo spazio mi è tiranno e così mi limiterò a sintetizzarne qualcuna che mi è rimasta particolarmente impressa nel tempo.
Un giorno stavamo salendo con gli sci sullo zaino tra il Rifugio Mondovì e il Rifugio Garelli, (sulle Alpi Liguri) quando ci trovammo il passaggio sbarrato dalla ripida bastionata del Biecai per una cornice aggettante e continua di ghiaccio. Rinunciare sarebbe stato più semplice, ma insistere e forzare quel passaggio spiovente voleva essere una dimostrazione di efficienza fisica per evitare la delusione di un ritiro. Spinti dall’entusiasmo dell’età giovanile riuscimmo, a forza di piccozzate, a fare un tunnel nelle cornice e a passare oltre con un notevole dispendio di energie. In anni recenti mentre scendevo con gli sci il versante Est della Cima dell’Osservatorio, (sui Monti Sibillini) abbastanza ripido e reso insidioso e insicuro da un susseguirsi di piccole slavine che impedivano la continuità della progressione, mi stancai nell’attesa del loro lento movimento.
Impaziente di scendere a valle volli provare a sciare sopra quella neve formata da blocchi mobili e instabili. La mia discesa risultò essere più veloce della massa di neve in moto e così riportai una strana sensazione di capogiro originata dalla mia velocità che risultava essere maggiore, ricevendo l’impressione come se quella neve avesse perso la sua forza di gravità tanto da sembrare risalire verso l’alto per effetto della differenza di moto. Un’altra avventurosa discesa di circa trent’anni fa la ricordo ancora oggi con un misto di orgoglio personale e d’incoscienza giovanile. Fu quando si dovette scendere a valle dal Rifugio Martellihutte (o Corsi), nel gruppo del Cevedale. Nei giorni precedenti vi era già più di un metro di neve fresca e nella notte se ne erano aggiunti altri 40-50 cm, fortunatamente farinosa. Già nelle prove effettuate precedentemente si era riscontrato il pericolo di un inconsistente stato della neve. Quel mattino nevicava abbondantemente e la visibilità era ridotta a non più di un metro. Decidemmo comunque di tentare di scendere a valle verso la Val Venosta. Eravamo più di una ventina di sci alpinisti. Dopo una prima serie di curve un po’ strette ci trovammo con la neve fin sotto le ascelle. Mi consultai con gli amici istruttori del Gruppo Focolaccia di Lucca che però volevano risalire al Rifugio, date le avverse e proibitive  condizioni di visibilità. Ma per ritornare indietro si doveva cercare di mettere le pelli di foca in quei due metri di neve farinosa in cui avremmo certamente affondato e questa sarebbe stata un’operazione precaria e destinata a fallire. Io proposi di continuare la discesa “alla cieca”, guidati solo dall’istinto e da una certa abilità sciatoria purché tutti avessero seguito da vicino la mia traccia a non più di un metro di distanza. Io ero il più anziano e in quel momento, pur essendo sprovvisto dell’ARVA, decisi di sacrificarmi come il capitano di una nave che sta per affondare, e tracciai un solco di serpentine profonde fino alle spalle però agevolato da un’ottima neve. Credo che tutti seguirono in silenzio la mia scia aperta nella neve profonda, uniti come i vagoni di un treno o di un’unica lunga cordata. Quel serpentone umano scese per un tempo indefinito senza il minimo riferimento, salvo l’indicazione dell’ago della bussola. Quando arrivammo su un pianoro, molto in basso, la nebbia incominciò a diradarsi un poco e il gruppo si compattò felice. Anche due tedeschi che ci avevano seguito, meravigliati del nostro ardimento o della nostra incoscienza vennero a stringermi la mano per il coraggio di avere aperto un percorso sconosciuto e reso invisibile per la tormenta. E’ ovvio che provai un certo orgoglio per essere riuscito a giocare d’astuzia, con un po’ di fortuna, per la scappatoia rubata a qualche pericolosa slavina. Più a valle  i boati delle valanghe crearono accumuli di blocchi di ghiaccio enormi, trascinando alberi e sassi in una pazza e inarrestabile corsa, ma noi eravamo allertati e così cercammo di passare lontano da quel pericolo sospeso.
Da allora adottai l’ARVA, che confesso so usare pochino, ma in compenso ho acquisito un sensibile fiuto ed attenzione per tutti quei segnali che la montagna ci invia. La mia lunga esperienza di 60 anni di vita tra i monti mi ha insegnato tante malizie per evitare incontri troppo ravvicinati con le valanghe e il loro potenziale e imprevedibile agguato. E’ buona norma ricordarci che se la montagna nel momento da noi scelto non si presenterà nelle condizioni ideali, essa sarà sempre lassù per noi ad aspettarci un’altra volta per una nuova sfida se vorremo ancora riprovarci con maggiore fortuna e garanzia di riuscita.
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