In trepidante apprensione: questo il mio stato d’animo alla vigilia della partenza; spolverata la superficie di eccitazione ed emozione, un nucleo di denso terrore: lo zaino pesante, gli oltre 1000 m di dislivello schiacciata da quei 13-15 kg (mai avuto il coraggio di misurarlo), il freddo (e le incertezze sull’adeguatezza dell’abbigliamento), le mie caviglie, la stanchezza: le difficoltà che potevo intuire erano tutte manifeste davanti a me. A darmi un’idea di quelle che per inesperienza non potevo immaginare – che costituivano poi gli autentici pericoli che avremmo potuto correre, cioè quelli legati alla roccia, ma soprattutto al ghiaccio – ci hanno pensato durante il viaggio.
Era sempre più chiaro che sarebbe stata non solo un’esperienza impegnativa dal punto di vista fisico, ma che avrebbe richiesto anche attenzione, precisione e prudenza. Timore ed eccitazione. Curiosità. Impazienza. Ansia. E orgoglio. Qualcosa che non avevo mai fatto, per impegno e difficoltà, e forse al limite delle mie potenzialità. Il limite, del resto, va lambito per essere localizzato, va frequentato per essere spostato in avanti.
“Istruttiva, perché dimostra che la montagna non è solo bel tempo e condizioni favorevoli”.’’ il commento, parafrasato, di una delle guide sulla pioggia che ci ha accompagnato durante la prima parte del cammino. Personalmente, ho invece apprezzato l’aria fiabesca che essa donava al paesaggio. Si sa che il verde dei prati risalta sotto le nubi, mentre soffre la competizione con un cielo terso.
Le pietre luccicavano di riflessi metallici (è una zona mineraria), i prati erano rigati da ruscelli argentei, il sentiero serpeggiava placido attraverso le valli. Con passo tranquillo e costante arrivammo al rifugio Vedretta Piana, quota 2254 m. Sopra, 300 metri sopra, scorgevamo la nostra meta, il rifugio Vedretta Pendente (2546 m), sporgere dalla roccia. Evitammo di rilassarci troppo: “L’ultimo tratto sarà molto ripido e faticoso”. Ci prendemmo un lungo the caldo, prima di ripartire.
Il rifugio stava in cima ad uno sperone di roccia, da cui si domina la Val Ridanna. Questo primo giorno era concluso. Il cielo aveva scaricato le sue (e le mie) tensioni in un acquazzone, poi la schiarita terminò la giornata, promettendoci un indomani terso (del resto, invece, la neve riluce al sole). Primo piatto di canederli. Ci ritrovammo stanchi nel camerone, ci preparavamo ad un’alzata antelucana. Chiusi gli occhi sotto un lucernaio stellato.
Secondo giorno, alba luminosa, abiti pesanti, colazione abbondante, ghette già calzate; marcia mattiniera. Continuammo ad avanzare calpestando rocce lucenti, il percorso talvolta presentava qualche difficoltà che richiedeva l’ausilio delle mani, ma procedemmo tranquilli, avvicinandoci al temuto-anelato ghiacciaio, che si squadernò d’improvviso. Formicolio generale: comparvero le corde, si sentirono parole strane – nomi di nodi, di configurazioni -, io – immobile, per il terrore di sbagliare qualcosa – mi ritrovai imbragata, assicurata alla cordata, avvolta in dieci metri di corda residua, piccozza in mano, in coda al gruppo. Camminare sulla neve non fu un grande problema, o, almeno, non su quella neve. Mi risulta abbastanza naturale, forse ci sono abituata da quando ero bambina, bisogna affondare bene il tacco, per poggiare su uno strato solido. La piccozza – oggetto orrendamente ingombrante, sia in mano sia riposta – ci accompagnava come un bastone di vecchiaia. Finalmente arrivammo al rifugio Cima Libera (3145 m). Finalmente alleggerimmo lo zaino. Poi su, verso la vetta, Cima Libera (3419 m). Di nuovo legati. Una placida avanzata tra la neve scintillante. Eravamo distanti, separati dai 10 metri d’ordinanza, io non chiudevo più il gruppo (solo la mia cordata), rallentavo periodicamente per mantenere la corda tesa, e scivolai tra i miei pensieri, in mezzo a quel deserto abbagliante.
Verso il rifugio Il Bicchiere
Sulle famigerate “roccette” (diffidare da questo termine, di solito indica che c’è da stare molto attenti, malgrado l’ingannevole vezzeggiativo) ho avuto paura. Perché non abbiamo estratto il kit da ferrata, che pure pesava nello zaino? E perché – soprattutto – continuammo a stare legati? Le mie compagne – più esperte, più disinvolte, più veloci – avanzavano rapide, io dovevo rallentare sempre la loro salita, con il timore che un mio errore si sarebbe potuto ripercuotere sulle altre. In qualche modo, si superarono le roccette. Camminammo sullo spartiacque, sul confine con l’Austria. Camminare in cresta questa volta non mi ha impensierito, anche se c’era neve da entrambe le parti (o forse proprio per questo, la neve è pericolosa, ma non lo sembra). Alla fine della cresta, la cima. 3418 m. Mai stata così in alto. Davanti a me – attorno a me, sotto di me – un enorme volume di vuoto. Milioni di metri cubi d’aria, davanti, attorno, sotto di me. Il manto di neve, i rifugi, la valle, le montagne distanti, la crosta corrugata, tutto giaceva sotto di me.
Eh, ma bisogna anche scendere. Scendere per le “roccette”. No. Allora mi slegate. Non voglio tirarmi dietro le altre, quando cadrò. Uhm. Forse c’è un’alternativa, si scende per il canalone qua sotto, sulla neve. Va bene, per la neve, ma la neve sta molto sotto, e come facciamo ad arrivarci? E intanto ricominciano i balbettii concitati, si carpiscono nomi strani di tecniche e nodi, situazioni e soluzioni, e solo dopo che il capogita è partito, ho cominciato a intuire cosa avremmo dovuto fare: scendere per quella via friabile legati alla corda appena calata dal capogita. “La facciamo assieme’’, mi dice uno degli accompagnatori. Quello severo. Ma non c’è scelta: niente orgoglio, niente fierezza, niente “ce la faccio da sola’’: ho bisogno di aiuto; e la montagna è anche umiltà.
Accetto l’aiuto e ringrazio, veloce.
Però, così, la discesa è stata fatta, la difficoltà è stata superata. E anche quella sulla neve, anche se con troppe cadute e scarsa resa estetica. Alla fine, anche se forse un po’ in ritardo, tornammo al rifugio. Fu il suono di un trombone ad annunciarci con grazia la cena. Ci coricammo quasi forzatamente, sollecitati dall’interruzione della corrente, motivati dal programma di una sveglia ancora più indigesta, necessaria per anticipare il maltempo previsto.
“Alfio, c’è nuvole basse’’. Mi piace questo costrutto così diffuso in Toscana, verbo al singolare, soggetto al plurale. Chissà se deriva dal latino. Ma comunque, che significa “nuvole basse’’? Si va? Non si può andare? Uscimmo comunque, e la defezione di una delle partecipanti ci costrinse in due cordate da quattro persone. La progressione sulla neve fu lenta e gradevole, ma, giunti alle rocce, formazioni lontane di nuvole stavano annunciando – a chi le sapeva leggere, non certo a me – un imminente peggioramento. Pare irragionevole, ingiusto, doversi ritirare per delle strisce piatte all’orizzonte. Tant’è. Attendemmo il maltempo – l’impossibilità di stare all’aperto – giocando su di una lastra di ghiaccio accanto al rifugio. Mamma chioccia-Alfio, ramponi calzati, faceva tre passi, e noi-pulcini, dietro, ripetevamo gli stessi tre passi con precisione millimetrica. Lezione di progressione su ghiaccio. Poi, il maltempo previsto comparve puntuale, e ci rinchiuse nel rifugio.
Quarto giorno. Tanta pazienza. Gli zaini pronti, attendevamo solo un accenno di miglioramento, un metro in più di visibilità, per scappare. Sarebbe bastato che qualcuno fosse salito al rifugio, e ci avesse segnato una traccia sulla neve. Gli altimetri segnavano sprofondamenti mesoscopici che generavano speranze cosmologiche, ma noi rimanemmo inchiodati su quelle panche, rubandoci i pochi libri in italiano presenti nel rifugio, ammazzando il tempo nei modi più fantasiosi.
Ero ancora – sostanzialmente – tra estranei, ma mi sentivo tra amici. La convivenza, per quanto minima, crea affiatamento e stima reciproca. Ancora una volta mi fu confermato che la quota seleziona le persone, che la montagna attrae persone interessanti, di valore. Intanto, gli esperti tra di loro confabulavano per studiare un eventuale cambio di percorso, nel caso in cui la neve avesse reso irrintracciabile il sentiero inizialmente in programma.
L’ultima sera era imbevuta dell’atmosfera ambigua della partenza, in cui sotto l’impazienza di indossare di nuovo gli scarponi e continuare la marcia c’era un fondo pesante e amaro che ricordava che quell’avventura stava finendo. Il mondo era lontano – non solo fisicamente, anche esistenzialmente – e non ero sicura di voler colmare nuovamente quella distanza.
L’alba dell’ultimo giorno era sadicamente magnifica. Il sole ghignava, la neve scintillava, modellata dal vento come fosse stata sabbia: un deserto candido. Avanzammo attraverso questo vento gelido, scavalcammo il colle, e cominciammo la discesa, fino al Lago Nero del Tumulo. Purtroppo anche la variante scelta era stata coperta dalla neve, per cui non restava che la terza alternativa, anche se era la più scomoda logisticamente. Cominciammo a scendere. Faceva sempre più caldo. Riponemmo gli attrezzi, ad uno ad uno, nello zaino, sempre più incombente sulle spalle, l’operazione aveva il sapore di una regressione. Scendevamo, la neve si scioglieva, impregnava il terreno, schizzava gli abiti. Sempre più caldo, l’aria zuppa d’umidità: sentivo il bagnato addosso, sul viso, sugli scarponi melmosi.
Una sosta alla malga, oramai quasi arrivati. Mangiammo senza troppo gusto. Poi pochi minuti, fino alla fermata dell’autobus, dove il gruppo si divise: gli autisti andarono a recuperare le macchine, grazie ad un passaggio, noi rimanemmo lì in attesa. In un limbo: la gita era finita, ma noi restavamo lì ad aspettare chiacchierando, di fronte al via-vai dei turisti, immersi nel verde, a guardare le cime innevate da cui eravamo arrivati. Per avvicinarci al resto del gruppo, prendemmo due autobus. A Moso, mentre attendevamo il secondo, era pieno di escursionisti, di zaini, di bacchette e di scarponi. Solo noi avevamo la piccozza. Noi avevamo fatto di più.
Guardai la mia piccozza già con nostalgia: essa era simbolo e ricordo di qualcosa di grandioso che, in quell’istante, aveva definitivamente cessato di esistere.
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