“Due parole sul volontariato” di Fabio Azzaroli

Maggio 2006

Sempre più spesso le contingenze quotidiane del nostro essere dei volontari ci pongono di fronte a situazioni che mettono alla prova il nostro spirito. Vediamo che iniziative condotte con modalità che noi non condividiamo, magari contrarie al nostro sentire …pur nell’assonanza delle materie trattate, riscuotono successi che noi non riusciamo a raggiungere nonostante il massimo impegno che profondiamo nella nostra attività. Non è un mistero che il florilegio di aziende, per lo più commerciali ma non solo (penso a certe associazioni pur esse operanti su base volontaristica reale, e non come quelle organizzazioni che il volontariato usano, direi quasi sfruttano, per motivi di cassetta) drenano continuamente frequentatori, e talvolta anche operatori, soci CAI. Forse stanno cadendo in desuetudine i nostri valori fondanti? Che il volontariato sia in crisi non è un mistero per nessuno: ne sanno qualcosa tante parrocchie che sono costrette a rivolgersi ad animatori e ad educatori non volontari perchè nel proprio seno non riescono a suscitare le energie e gli entusiasmi necessari. Una certa responsabilità nella crisi del volontariato credo si possa trovare nella sua regolamentazione attraverso schemi normativi e burocratici che, di fatto, ne hanno trasformato la natura intima. A fronte della formidabile espansione dell’umana pulsione spontanea volta alla ricerca di una propria realizzazione attraverso l’aiuto disinteressato al prossimo, registrata nell’ultimo quindicennio, a fronte di un’istintiva quanto trasversale riappropriazione da parte del singolo della propria utilità sociale, scevra da intruppamenti ideologici o da altre strumentalizzazioni di vario genere che in fondo conducevano a negare l’essenza stessa della spinta innata in ciascuno alla generosità, ci imbattiamo spesso in realtà che sotto una maschera di volontariato in realtà non rispecchiano più la soggettività del singolo che ad esse aderisce.

Festa del patrono a Canazei (foto R. Masoni)

La presa di coscienza che vi è stata a livello governativo delle formidabili opportunità offerte dal volontariato ha condotto, negli ultimi quindici anni, ad un radicale sovvertimento della sua natura realizzato attraverso l’organizzazione dall’alto di esso mediante schemi, procedure, autorizzazioni, beneplaciti e quant’altro, che mettono di fatto in seria difficoltà l’individuo il quale, talvolta soverchiato da certa burocrazia, talaltra retrivo per istinto ad ogni forma di compressione del proprio ego soprattutto quando esso si esplica nell’ambito di un’attività esercitata per pura generosità e col massimo disinteresse (parlo delle persone di buona fede, intellettualmente oneste, è ovvio), sempre più spesso fatica ad identificarsi completamente nel servizio svolto. E si stanca. D’altra parte occorre riflettere sul fatto che l’eccezionale ricchezza di risorse che il volontariato mette a disposizione non può non essere, in qualche modo, regolamentata e disciplinata. Con una saggia regolamentazione si evitano dispersioni di energie preziose, si ottimizza l’efficacia del servizio, si può intervenire in modo più mirato ed efficiente. Tutto questo, ovviamente, ha un costo: un costo difficile da quantificare perchè non è economico e perchè non è facilmente qualificabile, almeno secondo schemi generalizzanti, neppure il dato di partenza, e cioè il perchè della spinta al servizio gratuito, disinteressato, donato. E’ evidente che tale punto di partenza è assolutamente soggettivo, consistendo nel coacervo complicato di sentimenti, motivazioni, esperienze, realtà, idee, sogni, speranze di ciascuno. E poiché tutti siamo diversi l’uno dall’altro, il punto di partenza in questione non può che essere l’espressione della massima eterogeneità e soggettività pensabile.

Si tratta però, come ho accennato, di un costo comunque elevato perchè il più delle volte si sostanzia in una perdita di identificazione tra il volontario ed il proprio servizio, con inevitabili ripercussioni (spesso negative) sulla motivazione. Ed è proprio e solo sulla motivazione che il volontariato può entrare in crisi. Ogni volontario sa bene che ciò che spende di sè nel servizio, il più delle volte non lo farebbe con lo stesso entusiasmo nè con le stesse dedizione e sacrificio se venisse retribuito. Oggi vi è forse un apparente eccesso di regolamentazione nel volontariato: attraverso gli incentivi e le promozioni anche governative sono sorte una quantità di associazioni che hanno assunto dimensioni nazionali, talvolta addirittura sopranazionali, nelle quali il singolo scompare sia come persona sia come apporto di servizio. Credo che una spinta forte al servizio verso gli altri sia dato anche dall’intima soddisfazione che si trae dalla consapevolezza dell’aver fatto, dell’aver fatto bene, dell’avere – al massimo – ricevuto un “grazie” (ma questo è secondario). Chi ha la fortuna di leggere la relazione di Hellepart dopo il salvataggio di Corti sull’Eigerwand nel 1958 può trovarvi un’espressione molto chiara di ciò che intendo. Una soddisfazione che si impernia in qualche modo sull’ego; un ego positivo, generoso, disinteressato, altruista, ma pur sempre un ego. Che entra in crisi quando viene spersonalizzato, frammisto agli altri, polverizzato nei grandi numeri. Il problema è che il dimensionamento crescente delle organizzazioni di volontariato postula una regolamentazione sempre più analitica di un qualcosa (il servizio) che il singolo intende “donare”, con la conseguenza che si viene a regolamentare il “dono”, cioè l’atto, tra quelli di liberalità, che per sua stessa natura è il più istintivo e spontaneo e il più personale quanto alle motivazioni. La pur necessaria regolamentazione di questo “dono” si pone in un contrasto pressoché insanabile con quell’istintività e spontaneità che – sul piano soggettivo, unipersonale – lo connotano. Allora occorre trovare un ubi consistam, un punto che riesca a contemperare la necessarietà della disciplina del servizio con la soggettività e la generosità del singolo.

Questo credo sia, nella sostanza, il forte e delicato compito dei dirigenti, cioè di coloro che in spirito di servizio (non scevro da una certa ambizione: che non guasta, se sana, perchè si traduce in molla ad agire e ad agire bene) sono collocati ai vertici della piramide e, tra le tante responsabilità, hanno anche quella della regolamentazione e dell’ottimizzazione dell’attività dell’associazione. Un compito forte perchè da come esso viene svolto dipende non solo l’associazione ma, soprattutto, l’efficacia della sua azione verso i soggetti e gli ideali serviti, cioè la stessa ragion d’essere del sistema. Un compito delicato perchè i valori generali, gli scopi, i risultati, i modi di conseguirli, le risorse disponibili, vanno necessariamente coniugati il più possibile con i sentimenti, gli entusiasmi, le generosità, le soggettività di coloro che operando servono quei valori e quegli scopi al fine di conseguire e di far conseguire quei risultati.Senza rischiare di perdere il capitale di “servitori” privo del quale lo stesso ente non ha ragion d’essere. Perchè la piramide è fatta di esseri umani, dal vertice fino alla base, e pertanto ogni suo più piccolo mattone è comunque unico ed irripetibile, cioè prezioso, nella sua umanità. Dall’altro lato occorre che da parte di noi operatori volontari si prenda coscienza dei radicali mutamenti che la struttura del volontariato ha subito e su di essi ritagliamo il nostro gusto di servire con un atteggiamento mentale sempre teso alla soddisfazione del servizio reso anche se non sempre le modalità con cui ci viene chiesto di farlo sono perfettamente aderenti al nostro personale e soggettivo sentire.

In questo panorama assistiamo oggi, all’interno del CAI, ad una radicale rivoluzione strutturale e regolamentare che ha messo in crisi profonda la maggior parte delle sue articolazioni territoriali, soprattutto quelle intermedie (ex-Convegni, Gruppi Regionali, Organi Tecnici Periferici, ecc.); rivoluzione che all’esterno (e forse anche all’interno) appare realizzata attraverso meccanismi burocratici improntati più al tecnicismo giuridico e contabile che alla ragione, in un contesto strutturale della Sede Centrale che fa fatica a scrollarsi di dosso le stratificate incrostazioni di ente pubblico che oggi meno di ieri hanno fondamento; che sembra avere sempre minore consapevolezza del fatto che ogni interlocutore della macchina centrale è un volontario; che per necessità si affida a soggettività stipendiate le quali hanno ritmi, tempi, prospettive, linee di azione che faticano ad attagliarsi ad una base (oltre 300.000 soci) volontaristica. L’auspicio è che questo non faccia scemare la motivazione dei Soci, ma rappresenti un ulteriore stimolo ad operare anche nel senso di portare il contributo di ciascuno a correggere, mediando le varie posizioni, orientamenti, necessità, ciò che non va; ed in ogni caso a perseverare “pensando positivo”, tenendo sempre ben presente che è più importante il “cosa “ si fa del “come” lo si deve fare ed in tale consapevolezza reperire la spinta a continuare.

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