(* Dipartimento di Biologia Vegetale dell’Università di Firenze)
Continuando sulla scia delle iniziative scientifiche e divulgative che da sempre contradistinguono il CAI e che è stata una costante fin dalla nascita del Gruppo e poi Sottosezione di Scandicci, il 2013, in occasione anche della ricorrenza dei 150 anni della fondazione del CAI, è stato particolarmente ricco di momenti culturali. Una delle iniziative primaverili ha avuto come oggetto i fiori delle nostre montagne. É stata svolta in collaborazione della Sottosezione di Pontassieve, con il determinante supporto dell’amico Alessio Mazzanti.
I relatori Bruno Foggi e Giulio Ferretti, della facoltà di Scienze Naturali, Dipartimento di Biologia Evoluzionistica – Biologia Vegetale dell’Università di Firenze anche grandi appassionati, attraverso brevi ma intensi incontri teorici e pratici, hanno introdotto con sapiente piacevolezza i partecipanti nel mondo complesso e spesso poco conosciuto dei fiori di montagna. Le uscite in ambiente sono state svolte nelle zone più significative della Toscana sia per le biodiverità che per gli endemismi: il monte Borla in Apuane e la valle del Sestaione nell’Appennino Tosco-Emiliano. In quest’ultima giornata è stato presente anche David Gervasoni già ex curatore dell’Orto Botanico dell’Abetone.
Le scoperte sono state molte come l’indigestione di nomi nuovi. Dall’entusiamo è nata la convinzione reciproca che possa esserci un seguito per documentare specie floreali particolari, situate in luoghi normalmente poco accessibili. I soci CAI, durante l’attività in montagna, con opportune indicazioni, potrebbero segnalare mediante foto le specie di fiori individuate. Siamo convinti che anche questo possa essere un mezzo per approfondire la ricerca rafforzando oltremodo la collaborazione tra il CAI e il mondo accademico. Di seguito si riporta un interessante articolo sulle piante di montagna scritto da Giulio Ferretti, già pubblicato sulla rivista della Sezione di Pistoia, con la sua gentile autorizzazione.
Alfio Ciabatti (Sottosezione di Scandicci)
QUANDO LE PIANTE ALPINE CHIESERO ASILO ALL’APPENNINO PISTOIESE (Dr. G. Ferretti)
Comunemente si è portati a pensare che una delle sostanziali differenze tra il regno animale e quello vegetale risieda nella mobilità. In effetti mentre uomo e animali percorrono migliaia di chilometri durante la loro vita, altrettanto non fanno i vegetali, notoriamente ben “piantati” in terra.
Nella realtà le cose non stanno esattamente così e ce lo dimostra un semplice quanto affascinante racconto. E’ la storia di una migrazione.
Tutto ebbe inizio qualche decina di migliaia di anni fa, all’epoca delle grandi glaciazioni. Per la precisione erano gli anni della cosiddetta glaciazione di Würm, il più recente tra gli ultimi periodi di grande freddo. In quei giorni l’Europa si trovava sotto un poderoso strato di ghiaccio, la calotta polare scendeva fino alle porte di Brandeburgo e il nostro arco alpino era costellato di enormi ghiacciai dello spessore di 1000 o 2000 metri. Accadde così che molte piante, fino ad allora vissute in un areale estremamente vasto che si estendeva dalle zone artiche fino alle Alpi, si trovarono costrette, pena la morte sicura, a venir via al più presto da quell’inferno gelato. Molte sicuramente si estinsero, altre scelsero coraggiosamente di salire in alto e collocarsi sulle vette più elevate delle montagne alpine che in qualche modo riuscivano a emergere da questo lago ghiacciato (i cosiddetti Nunatakker), altre ancora (quelle specie che necessitavano di un clima un pò meno rigido) decisero di muoversi verso lidi migliori e – gambe in spalla – si avviarono verso sud alla ricerca di una collocazione più decente.

Fu un viaggio lungo e difficoltoso, durante il quale si può immaginare come ogni pianta si sforzasse di gettare i propri semi il più lontano possibile (magari facendosi aiutare da qualche uccello di passaggio, oppure affidando le proprie speranze al vento) per poi rinascere un po’ più a sud in un ambiente leggermente più temperato. Si andò avanti di questo passo per qualche migliaio di anni (con gran gioia di Darwin e della sua selezione naturale che fece strage degli individui meno adatti!), finché alcuni fortunati raggiunsero le montagne dell’Appennino settentrionale. Non era esattamente come a casa propria ma ci si poteva ben accontentare, visto soprattutto che l’ondata di freddo aveva abbassato le temperature in tutta la penisola e adesso in queste zone si respirava quell’arietta fresca che nel pre-glaciale caratterizzava l’arco alpino.
Purtroppo, come ben sappiamo, le condizioni climatiche sono quanto di più instabile ci sia e così avvenne che, più o meno 18.000 anni fa, anche la glaciazione würmiana volse al termine per lasciare spazio ad un nuovo e graduale periodo di riscaldamento climatico. Le piante si trovarono nuovamente di fronte ad un dilemma: estinguersi o muoversi il più velocemente possibile verso altri ambienti, questa volta più freschi? Molte scelsero la seconda opzione e pian piano si incamminarono su per le alte vette appenniniche.
Qui molte di loro trovarono finalmente un ambiente relativamente simile a quello che avevano abbandonato in origine: una discreta altitudine, un substrato arenaceo analogo a quello di parte delle Alpi, un clima decisamente più accettabile, che ricordava loro i bei tempi.
Questo contingente floristico di origine alpina si accomodò tra le specie indigene, tipicamente appenniniche, che volentieri l’accolsero iniziando addirittura a scambiare effusioni amorose sottoforma di pollini e dando così alla luce nuove piante, diverse dai progenitori e in grado di mantenersi autonomamente, generando così vere e proprie specie o sottospecie nuove, mai esistite prima d’ora sulla faccia della Terra. Entità nate in terra tosco-emiliana e qui finora rimaste confinate, andando a costituire quei rari esempi di “endemismo” appenninico tanto cari ai botanici. Altre rimasero “fedeli alla linea” e rifiutando pericolosi imbastardimenti con gli autoctoni, si sono mantenute fino ad oggi tali e quali a com’erano quando vivevano sulle Alpi, degni rappresentanti di piante con areale disgiunto “alpino-appenninico”.

Tuttora la situazione è questa, fortunatamente di glaciazioni non se n’è più sentito parlare e le specie che hanno scelto di adattarsi sulle nostre montagne lo stanno facendo tuttora, col beneplacito dei padroni di casa.
Effettivamente le cose si sono svolte più o meno così. Le vicende glaciali hanno costretto interi gruppi di piante di origine boreale a trovarsi aree di rifugio in quelle montagne che più ricordavano quelle di provenienza. Quindi non l’Appennino ligure, con substrati inadatti, nemmeno quello romagnolo, con altitudini troppo esigue, ma proprio il tratto tosco-emiliano, che presentava tutte le caratteristiche ecologiche ricercate. Il generale rialzo termico ha quindi costretto alcune specie a ritirarsi nuovamente verso nord, mentre altre sono riuscite a permanere sulle nostre montagne, spesso in situazioni relittuali.
E’ per questo che la flora “cacuminale” dell’Appennino settentrionale (ossia quella diffusa oltre il limite della vegetazione arborea, da noi in media oltre i 1700 metri), presenta molte piante in comune con la flora alpina. Sicuramente molte più di quante non ne abbia in comune con il restante Appennino o con le vicinissime Alpi Apuane. I botanici assegnano questo territorio al settore alpino per dire che esso equivale botanicamente a una vera e propria isola o propaggine della catena alpina.
Si parla invece di “caduta floristica” per indicare un limite geografico oltre il quale viene bruscamente meno la presenza di un certo numero di specie. In questo senso la caduta floristica delle specie alpine nei nostri territori si verifica in corrispondenza del limite Corno alle Scale – Monte Gennaio, a sud dei quali – guarda caso – l’altitudine delle montagne cala bruscamente e per un lungo tratto (troppo lungo per consentire oggigiorno spostamenti come quelli di cui abbiamo parlato). Piante alpine si ritrovano in verità anche su alcuni massicci dell’Italia centrale ma in numero molto più esiguo.
La storiella finisce qui e potrebbe concludersi con un bel “e vissero felici e contenti” se nel frattempo non si fosse interposto, e ampiamente diffuso, quell’animale dell’uomo, grande maestro (al pari delle glaciazioni) nel complicare la vita altrui e di sé stesso.
E’ vero, infatti, che molte delle specie alpine hanno trovato asilo sui nostri monti relegandosi in stazioni di rifugio, spesso vere e proprie nicchie ecologiche. Sono gli ambienti umidi in generale (torbiere, pozze temporanee, ruscellamenti, vallette nivali …) a ospitare buona parte di queste specie. Essi rappresentano ecosistemi con un equilibrio estremamente delicato e facilmente alterabile a seguito di modifiche anche lievi dell’apporto idrico. La loro peculiarità nonché la ricchezza in emergenze floristiche li vorrebbe tutelati con particolare attenzione (per la verità anche la Comunità Europea la penserebbe allo stesso modo tant’è che su tutto l’Appennino Tosco-Emiliano ha istituito numerosi Siti di Interesse Comunitario e Zone di Protezione Speciale). Probabilmente invece così non la vedono alcuni gestori del bene pubblico.
Il caso più evidente e attuale è quello di alcune torbiere della Val di Luce che si sono viste tagliate in due o semi-prosciugate da strade di servizio, oppure più gentilmente attraversate da nuove piste sciistiche. Spaventa anche il recente interessamento nei riguardi dell’alta Valle del Sestaione oltre al continuo vociferare di mega impianti di collegamento tra le nostre vallate e i versanti lucchese o emiliano. Chissà se prima o poi qualche testardo gruppo di piante non si deciderà a riprendere il cammino per dirigersi -questa volta – a bussare alla porta di certi amministratori pubblici…
A completamento di questo breve articolo non possono mancare i nomi di coloro che, sprezzanti del pericolo, hanno girovagato per mezza Europa in barba a freddi polari e calotte glaciali. Sono entità che hanno il loro areale italiano limitato ad Alpi e Appennino settentrionale e che proprio in quest’ultimo presentano il proprio limite meridionale di diffusione.
L’elenco è assolutamente parziale e comprende solo quelle specie che si ritiene possano essere conosciute anche dai non addetti ai lavori.
Cardamine asarifolia
Cicerbita alpina
Empetrum hermaphroditum
Eriophorum angustifolium
Eriophorum scheuchzeri
Gentiana kochiana
Gentiana purpurea
Luzula lutea
Concludiamo puntualizzando che quella qui descritta rappresenta soltanto una parte (anche se indubbiamente la più interessante) degli eventi che hanno caratterizzato il via vai botanico sui nostri monti. Le piante artico-alpine, infatti, oltre alle già menzionate specie indigene, trovarono buona compagnia in altre entità le quali, approfittando delle oscillazioni climatiche o del parziale disseccamento del mediterraneo, raggiunsero l’Appennino settentrionale da Corsica, Sardegna quando non addirittura dai Balcani.
Ma questa è tutta un’altra storia.