Annuario 2014 – Sono passati ormai 60 anni dalla conquista del K2. 60 anni di litigi, incomprensioni, contrasti, cause legali e molto altro. Eppure, ancora oggi, siamo qui a parlarne. Il Club Alpino Italiano, che non sempre ha tenuto un contegno trasparente sulla questione, affidò a tre Saggi l’esame delle dinamiche di quella conquista giungendo a quelle conclusioni, a quelle verità che furono pubblicate sotto il titolo “K2, una storia finita”. Quegli straordinari alpinisti che coronarono il sogno ci hanno ormai lasciato quasi tutti. Lasciamo che riposino in pace, che sia la storia a giudicare. A noi il compito di ringraziarli ancora una volta per un impresa storica avvelenata dall’orgoglio, dalla dignità ma anche dalla smisurata ambizione personale. Che sia davvero una “storia finita”.
“E di cosa dovrei chiedere scusa? Di essere arrivato per primo in cima al K2? Perché io questo non l’ ho mai detto, in mezzo secolo, ma ora me lo tirano fuori a forza: sono stato io il primo uomo a mettere piede sulla vetta, altro che a braccetto di Lacedelli, come ha scritto lui. […] Io ho piantato il tricolore su quella vetta, ho pianto, ho perso due dita per fare le foto, rischiato la pelle. […] E ora, cinquant’ anni dopo, è tutta una polemica, un’ accusa, una menzogna. Perdio! Bonatti a ogni anniversario ne aggiunge una; ora ci si è messo pure Lacedelli; e il Cai vorrebbe rovesciare la verità accertata allora… questo non lo permetterò! […] Ho letto il libro di Lacedelli in una notte. Mi ha prima meravigliato, poi stordito. Direi che mi ha umiliato, se potessero umiliarmi accuse così false. Come si può pensare che io abbia deciso da solo? Certe cose in montagna, legati l’uno all’altro, a ottomila metri, si decidono insieme. In quel posto la tenda non si poteva mettere. Era troppo pericoloso. Eravamo sotto una montagna di ghiaccio che faceva impressione. Così ci siamo spostati fuori sulla cresta, verso sinistra. E abbiamo cercato di salire il più possibile, com’era logico; e pazienza se Bonatti non avesse portato l’ossigeno […] mai nessuno era salito fin lassù. Cosa sapevamo di quel che avremmo trovato? Perdio! La sera prima mi ero offerto di scendere a prendere l’ossigeno! […] Bonatti non ce l’ha fatta a essere puntuale. L’appuntamento era per le 3 e mezzo, e a quell’ora lui era ancora sotto la tenda, o forse era appena partito dal campo 8. […] Con Lacedelli siamo stati amici per 50 anni. Ora non voglio sentirlo più”.
Era il 2004. Il 9 agosto di quell’anno a pag. 16 del Corriere della Sera, il giornalista Aldo Cazzullo pubblicava questa intervista ad Achille Compagnoni nel cinquantenario della conquista del K2. A distanza di cinquant’anni da quel 31 luglio 1954 quella che avete appena letto era, ancora, la sua verità. Come se in quei cinquant’anni niente fosse emerso, come se in quei cinquant’anni il vento avesse portato via, di volta in volta, quelle verità che come una goccia, un po’ per volta, lentamente, goccia dopo goccia erano andate a riempire un bicchiere ormai irrimediabilmente colmo di quelle ipocrisie che erano servite per mettere in scena una grande finzione che faceva tristemente da sfondo a una delle più grandi imprese alpinistiche di tutti i tempi.
Ho cominciato molti anni fa ad occuparmi della spedizione italiana al K2. Un po’ a causa di una iniziale curiosità, poi pian piano in modo sempre più convinto al punto da trasformare la curiosità in una ricerca a tutto campo. Nel 1989 scrissi un dossier che ricalcava in buona parte quelle conclusioni che in seguito la Commissione dei Saggi, istituita dal CAI per volere del Presidente Roberto De Martin, avrebbe con forza affermato. Lo dico con alcuna presunzione anche perché non fu difficile giungere a quelle conclusioni. Fu sufficiente dedicarvi solo un po’ di tempo e mantenere vivo il desiderio di obiettività. Nella prima pagina di quel dossier scrissi infatti “tutto ciò che è riportato in questo dossier proviene da documenti ufficiali del Club Alpino Italiano dei quali indico di volta in volta: pubblicazione, pagina, autore”. Ecco perché fu facile. Fu semplicemente sufficiente cercare nei documenti ufficiali del CAI per scoprire che lì era la verità a portata di mano. Certo fu faticoso sfogliare qualche centinaio di Bollettini ma alla fine la conclusione di quel lavoro valse bene quella fatica. Nel 2004, dieci anni fa, presentai anche una serata che fu insperatamente accolta da un numeroso pubblico, una serata nella quale riepilogavo i risultati del dossier.
Ma c’era anche un altro motivo, devo confessarlo, che mi motivava in quella ricerca. Anzitutto la mia ammirazione per Walter Bonatti che era e resta per me (ho detto “per me”) il più grande alpinista di tutti i tempi. Ma anche l’antipatia per Compagnoni, credo di non offendere nessuno, che nel 1967 lavorando a Cervinia avevo avuto modo di conoscere. Lavoravo come cameriere al Grand Hotel Cervinia, oddio … lavoravo il giusto, andavo parecchio per monti. E non era insolito a sera bighellonare per il paese, per l’unica via del paese, in cerca di una benchè minima occasione per sentirsi vivi. Cervinia non era quella di oggi, non è che ci fossero grandi attrazioni, ma avevo 17 anni e anche quel poco che c’era mi sembrava uno spazio aperto sul mondo. Passavamo dall’Hotel Compagnoni a bere un’ombretta, poi di solito ci infilavamo in un locale che si chiamava Copa Pan frequentato da tutta la servitù di Cervinia, ragazze comprese ecco il motivo di quella scelta.
L’antipatia per Compagnoni nacque in quei giorni del ’67. Un uomo sempre sopra le righe, un uomo che si muoveva e parlava come unico conquistatore, un uomo costruito su quella notorietà che accettava come unica ragione di vita. Non c’è niente di male in tutto questo, sono comportamenti che personalmente non apprezzo ma che sono abbastanza comuni in molte altre persone. Ed era un uomo indisponente, ai miei occhi, soprattutto per i giudizi espressi nei confronti di Bonatti che solo poco più di due anni prima, e a Cervinia se ne parlava ancora molto anche se Compagnoni ne avrebbe volentieri fatto a meno, aveva compiuto quell’impresa ritenuta un capolavoro alpinistico anche se fra tanti da Lui compiuti. La salita dei tre limiti: parete nord, in solitaria, in inverno e la parete era quella del Cervino ovviamente. Un’impresa che segnò forse la fine dell’alpinismo classico, il “Nuovo Mattino” era alle porte, ma questo è un altro discorso che possiamo sempre riaffrontare.
Ma anche l’antipatia per Desio, personaggio al quale comunque dobbiamo riconoscere il successo della spedizione ma che non mi ha mai conquistato per più motivi, compresi quelli politici. Gli alpinisti della spedizione del 1954, con l’unica eccezione di Compagnoni, lo avevano ribattezzato il “ducetto”. Lacedelli non mi è mai stato antipatico, tutt’al più una persona spiacevole per aver aspettato 50 anni prima di dire la verità, o parte di essa, ma posso capirlo e per quanto grandissimo alpinista è stato forse l’anello debole di quella catena, di quell’ambiente che non tollerava debolezze di natura emotiva.
Oggi a 60 anni da quella conquista, come scrivo nel titolo di questo mio contributo, è giunto forse il momento, una volta per tutte, di considerare “conclusa” quell’avventura. I partecipanti a quella spedizione sono tutti morti salvo augurare lunga vita ai due ancora vivi. Lasciamoli in pace, a ognuno il suo spazio di gloria, a ognuno il giudizio della storia e soprattutto degli uomini. Ma prima di concludere voglio cogliere l’occasione di questa intervista rilasciata dieci anni fa per porre l’accento solo su alcuni punti che possono sembrare insignificanti e che invece sono importanti. Poi, finalmente, anch’io avrò pace (facendo gli scongiuri).
Dice Compagnoni:
“Perché io questo non l’ ho mai detto, in mezzo secolo, ma ora me lo tirano fuori a forza: sono stato io il primo uomo a mettere piede sulla vetta, altro che a braccetto di Lacedelli”.
Può anche darsi che Compagnoni sia stato davvero il primo uomo a mettere piede sul K2. Sono contento per lui. E comunque la si pensi è a lui e a Lacedelli che va il grande merito di essere giunti su quella cima e poco importa, almeno per me, se prima l’uno e poi l’altro o insieme. Io non sono mai stato su un ottomila, non ne ho mai avuta la possibilità e probabilmente diciamolo francamente nemmeno ne avrei avuta la capacità, ma da quello che si legge mi pare di capire che in cima a una di queste montagne sopra gli ottomila metri di quota difficilmente vi si arriva a braccetto. Non è esattamente come salire lentamente il Viale dei Colli, a braccetto di tua moglie, per prendere il gelato al Piazzale in una delle nostre straordinarie, sorprendenti, tiepide serate fiorentine di primavera. No, non è così.
Anche sull’Everest fu affermata la medesima cosa e cioè che Hillary e Tenzing ne raggiunsero insieme la cima a braccetto. Certo che anche sull’Everest non fu così ma fu forse un atto dovuto, capisco quanto fosse doloroso per i sudditi della Regina dover ammettere che per primo su quella cima aveva posto piede un tibetano naturalizzato in India e per secondo un periferico neozelandese. Chissà quante volte cantando “God save the Quenn” gli inglesi avranno pensato quanto sarebbe stato trionfale se Thomas Bourdillon di Kensington (Londra) e Charles Evans di Liverpool non si fossero dovuti arrendere in prossimità della Cima Sud solo tre giorni prima che Tenzing, e quindi anche Hillary, ne raggiungessero la vetta.
Ma torniamo a noi. Compagnoni dimentica nella sua intervista di dire che probabilmente (ho detto “probabilmente”) senza la presenza di Lacedelli il suo piede non sarebbe mai arrivato sulla cima del K2. E’ evidente che la cordata salì lungo l’itinerario già scelto da Wiessner nel 1939, a sinistra cioè del cosiddetto “bottle neck” (collo di bottiglia) quel maledetto imbuto dove tutto pare volerti cadere, da un momento all’altro, sulla testa come talvolta avviene. Il bottle neck è un po’ come vivere da protagonista “non aprite quella porta”. Bonatti ne sa qualcosa avendoci bivaccato il 30 luglio 1954 solo perché gli avevano inspiegabilmente spostato il campo 9 più in alto. L’itinerario scelto da Compagnoni, forse anche da Lacedelli ma ne dubito, prevede di superare un salto di roccia a circa 8.300 mt. di quota, una parete di roccia non banale soprattutto a quella quota. Poco importa che il grado tecnico sia un classico III, non è come fare un traverso a Maiano. Dopo aver superato quel salto di roccia Wiessner si arrese ma non fu per un motivo tecnico, fu fermato da un nobile sentimento di altruismo nei confronti del suo portatore. Senza questo inconveniente possiamo certamente ipotizzare (ho detto “ipotizzare”) che sarebbe senz’altro giunto sulla cima del K2 e sarebbe stato un fatto straordinario, eccezionale. Un po’ come la conquista dell’Everest da parte di George Mallory nel 1924.
Per salire quel salto di roccia Compagnoni, e questo è un dato certo, “volò” almeno due, tre volte. “Volare” … bel termine che per noi significa “venire giù”, “precipitare”, insomma volare. Certo Compagnoni non era alpinista avvezzo alle difficoltà su roccia, era un ottimo maestro di sci, poi divenuto un’apprezzata guida alpina, ma soprattutto abile sulla montagna di casa. Non aveva un gran curriculum alpinistico, anche in rapporto ai tempi, ma sulla cima del Cervino giunse più di 100 volte e quindi era comunque un buon alpinista. Le difficoltà su roccia trovate al K2 si rivelarono figlie della sua poca dimestichezza con la roccia e fu in quel frangente, vivaddio, che si rivelò utile la presenza di Lacedelli che prese il comando della cordata portandola fuori da quella parete di roccia.
“Su roccia” Lacedelli non aveva certo molti rivali in quel periodo. E’ un particolare insignificante? No, non lo è. Non a caso i componenti della spedizione furono scelti con quell’arguzia che si rivelò vincente, un po’ orientalisti, un po’ occidentalisti. Che brutte parole, diciamo che qualcuno era più capace su roccia, qualcun’ altro su ghiaccio. Bonatti, alpinista completo, era forse (ho detto “forse”) l’unica eccezione.
Dice Compagnoni:
“La sera prima mi ero offerto di scendere a prendere l’ ossigeno! […] Bonatti non ce l’ ha fatta a essere puntuale. L’ appuntamento era per le 3 e mezzo, e a quell’ ora lui era ancora sotto la tenda, o forse era appena partito dal campo 8”.
Bonatti non ce l’ha fatta ad essere puntuale. Mi vien da ridere. Soprattutto sentirlo dalle labbra di colui che si sente “umiliato” dal racconto di Lacedelli ma che non lesina impegno, lui stesso, a pagare con la stessa moneta Bonatti. Quello che Bonatti, Abram, Madhi e Isakhan hanno fatto in quel lontano giorno del 30 luglio 1954 è sotto gli occhi di tutti, è nella storia, nemmeno vale la pena ripeterlo. E’ qualcosa di talmente straordinario che nemmeno credo sia mai stato ripetuto. Basti osservare le quote per capire il dislivello compiuto da Bonatti e compagni, a 8.000 mt. di quota con 20 kg. di bombole sulle spalle, portate a turno, facendosi strada in qualche metro di neve. “Bonatti non ce l’ha fatta a essere puntuale”. Mah …
E poi c’è la storia delle bombole, eh già … le bombole. Quelle maledette bombole che dal 1954 contiamo al posto delle pecore prima di addormentarci. Tutti sappiamo come si sono svolti i fatti ma facciamo ancora uno sforzo, sentiamo la versione di Compagnoni:
“Non è vero che siamo arrivati in cima respirando l’ ossigeno. Le bombole erano vuote. Non ce ne siamo liberati perché ci dicevamo l’un l’altro che un po’ di ossigeno doveva essere rimasto. Una bugia, per farci coraggio. L’ultimo tratto fu terribile. […] Avevo le allucinazioni, vedevo dietro di me e di lui una donna alta che ci tratteneva, l’immagine della mia fatica. E ora questi si esercitano nel calcolare quante ore di ossigeno contenevano le bombole! A ogni anniversario aumentano: otto, nove, dieci. Ma noi siamo partiti alle 6, massimo alle 7 del mattino, e siamo arrivati in cima alle 6 di sera: e l’ossigeno l’avevamo consumato. Bonatti dice di no perché quell’ossigeno ce l’ ha portato lui. Bene: ha fatto il suo dovere”
Questo dice Compagnoni nell’intervista rilasciata a Cazzullo nel 2004. Ma visto che lui stesso parla con irritazione delle ore di autonomia che ad ogni anniversario aumentavano, dirò che nel 1964, decennale della conquista, Compagnoni in un’intervista alla Nuova Gazzetta del Popolo dichiarava che Bonatti, nella notte, aveva aperto le bombole per respirare ossigeno. Questo il motivo, secondo Compagnoni, del prematuro esaurimento dell’ossigeno. Naturalmente Bonatti querelò e naturalmente Compagnoni perse la causa perché forse gli sfuggiva che per respirare ossigeno dalle bombole serve un respiratore, un erogatore che Bonatti non aveva. Un pò come avviene anche in subacquea. Bonatti vinse la causa ancora prima di entrare nell’aula di tribunale, i suoi avvocati ancora ringraziano. Ma adesso, nel 2014, qualcosa si è mosso per merito di un documentarista inglese della BBC dal nome Mick Conefrey. Ci mancava davvero qualcuno che scoprisse ciò che abbiamo sempre saputo.
Conefrey sostiene che guardando con attenzione le ultime immagini del film “Italia K2”, quello di Marcello Baldi, ha scoperto che le bombole erano di colore diverso: rosse e blu. Tutti coloro che come me si sono occupati di K2 da così tanti anni si sono sentiti di colpo sollevati. Porca miseria, grazie Conefrey! Vale la pena ricordare che nel manifesto del film il grafico disegnò di colore rosso tutte le bombole, ecco la logica seguita da Conefrey.
Dovete sapere che le bombole erano di due tipi. Quelle blu erano della Drager di Lubecca, 220 atm che potevano scendere al massimo a 200 atm, e quelle rosse, italiane della Dalmine, che perdevano molto di più, circa il 50% del contenuto per un difetto della valvola che per risparmiare sul peso era stata molto semplificata. E’ un fatto che Compagnoni e Lacedelli utilizzarono sia l’une che le altre anche se originariamente solo quelle di Lubecca erano state scelte per l’attacco alla vetta. Su quest’argomento si è molto discusso, le foto di vetta mostrano i nostri con i respiratori ancora sul viso, mostrano le barbe intrise di brina, elemento determinante per spiegare che l’ossigeno fu sufficiente fino in vetta.
Ma non è questo il punto perché se anche per un attimo avessimo prove certe che l’ossigeno terminò prima di giungere in vetta cosa cambia? Cosa cambierebbe nel valore di quella conquista? Niente. Anzi … accrescerebbe maggiormente i meriti di Compagnoni e Lacedelli. Non dimenticate che gli effetti della quota nel 1954 non erano ancora certi. Che senso ha, che senso ha avuto aprire questa discussione che ancora oggi attanaglia le lunghe notti anglosassoni e le menti di celebri documentaristi inglesi.
Ma il problema, e concludo, è forse un altro, il problema era Bonatti, questa è la verità. Si è detto a lungo che Walter volesse “provarci”, cercare cioè di raggiungere anch’egli la vetta del K2. D’altronde era l’uomo che dimostrava di avere la migliore forma fisica del momento, era uomo di incredibile resistenza e pure ambizioso non ho dubbi. Certo che voleva andare in cima, perchè mai non l’avrebbe dovuto pensare. Ma credo anche che non abbia mai pensato di farlo pestando i piedi a Compagnoni e Lacedelli. E’ ora di chiudere questa storia. I documentaristi anglosassoni non ce ne vogliano ma è forse il momento di stenderci sopra un velo pietoso. Non possiamo seguitare a discutere del colore delle bombole.