E’ cambiata la musica? – di Ettore Varacalli

La tradizione musicale popolare dai reduci alpini alle ricerche storico etnografiche.

Mi ricordo che nei primi anni ‘60, all’epoca frequentavo la scuola media, il professore di musica ci faceva cantare all’unisono, o qualche volta addirittura a due voci, i canti del libro di testo. E sapete che canti erano? Per la maggior parte canti di guerra e di montagna, tipo: Quel mazzolin di fiori, Sul cappello, Vecchio scarpone, Valsugana, Bombardano Cortina, La canzone del Piave, ecc. All’epoca noi ragazzi si pensava che nelle scuole di tutta Italia anche gli altri coetanei imparassero le stesse canzoni, e in buona parte era vero. La convinzione era rinforzata dal fatto che anche in casa i nostri genitori e i nonni le canticchiavano insieme a noi. E ne avevamo la piena conferma quando si riusciva ad andare in montagna, soprattutto nelle regioni alpine, per le vacanze estive. Anche durante il servizio militare nei primi anni ‘70, tra un bicchiere di vino ed un grappino, ci si ritrovava a cantare le stesse canzoni di montagna, soprattutto coi ragazzi del nord. In conclusione sono cresciuto con la convinzione che il canto di montagna fosse un patrimonio culturale comune a tutta la Nazione.

A giudicare oggi  si  potrebbe  affermare che il canto di montagna e di guerra, già molto diffuso durante e fiorito subito dopo la prima grande guerra mondiale, abbia contribuito a coprire una «mancanza» di cultura generale comunitaria del novello stato italiano; ossia che abbia sopperito in parte a quello spirito di unità nazionale che per una serie di motivi non si era ancora affermato. Motivi spiegabili con la tardiva unificazione in unica Nazione, anche rispetto ad altri Stati Europei, e soprattutto per la storia travagliata socio-culturale che penso non abbia avuto eguali in nessuno dei moderni Stati. Prima dell’unificazione, senza contare i primi 1500 anni di storia, l’Italia era divisa in una quantità impressionante di Stati e Staterelli ed ognuno con le proprie leggi e con le proprie tradizioni e il proprio dialetto (solo i ceti colti parlava- no un italiano volgare tra loro comprensibile). Di comune tra questi Stati c’era solo la pro- pensione a farsi la guer- ra e a conservare il proprio potere difendendo strenuamente i confini del proprio territorio, e nel caso di bisogno si richiedeva a gran voce l’aiuto di potenze straniere («Porta Calavena» di B. De Marzi descrive molto bene il fatto sto- rico dell’assedio del ca- stello di Arzignano mettendo in giusto  risalto lo stato d’animo di ansia, paura e sgomento in cui erano costrette a convivere le popolazioni di allora un giorno sì e uno no). A loro volta queste potenze stranie- re ci esportavano la loro lingua, le loro leggi e le loro tradizioni. Ecco la dificoltà per la nuova Nazione di omologare una cultura tutta italia- na che comprendesse un po’ tutte le regioni. Troppo radicate e an- cora ben salde le tra- dizioni locali e l’uso del canto orale che accom- pagnava tutte le occa- sioni  di  aggregazione delle comunità che un tempo si svolgeva- no nelle stalle, sui campi, al pascolo, du- rante le cerimonie religiose e civili, nelle sagre e durante le iere e i mercati.

Certamente poi alcuni strumenti globa- lizzanti sono intervenuti per limitare le culture locali a favore di un’omologazio- ne centralizzata della cultura popolare. Primo fra tutti la scolarizzazione e in se- condo luogo l’avvento dei mass-media, con la conseguente messa in ombra dei patrimoni musicali di tradizione orale. Già negli anni ‘20 e ‘30 i «canzonieri delle trin- cee» e i «canzonieri alpini», frutto di un gran fermento di ricerca di molti studiosi e appassionati, furono oggetto di diffu- sione programmata da parte del regime a cui tornava utile come propaganda na- zionalista; su quel repertorio si formò «il canzoniere italiano».

In quegli stessi anni, esattamente il 25 Maggio del 1926, fece la sua prima esi- bizione in pubblico il coro SAT (ancora SOSAT) al castello del Buonconsiglio a Trento. La novità non fu tanto quella di presentare canti inediti; i fratelli Pedrotti erano consapevoli di non inventare nien-te di nuovo, ma ebbero il merito di pre- sentare le melodie, recuperate con amore e meticolosamente raccolte da Silvio Pe- drotti, in una forma corale del tutto inedi- ta ottenendo un immediato successo nel pubblico. I trentini si riconobbero subito in quel modo di cantare che riusciva a evocare l’atmosfera e il fascino delle loro montagne e delle loro vallate. Il coro del- la SAT si può deinire tranquillamente la Madre di centinaia di cori, nati sulla spinta emozionale legata all’amore per il canto e per la montagna, che ne imitano, con alterne fortune, lo stile. Si è creato cosi il genere «coralità di montagna» (cori di soli uomini, melodie genuine, armonizza- zioni semplici e verticali, fusione di voci ecc…). La SAT ebbe talmente successo da richiamare intorno a sé ior di musicisti che contribuirono con le loro armonizza- zioni all’ulteriore crescita e affermazione in campo nazionale e internazionale. Il progresso in campo tecnologico ha per- messo poi tramite i mass-media di diffon- dere in maniera massiccia la conoscenza di questa coralità di montagna in tutto il territorio nazionale.

Negli anni del boom economico la so- cietà però cominciò a cambiare in manie- ra assai signiicativa. Sappiamo come le campagne si siano pian piano svuotate a favore delle città con le loro fabbriche e le opportunità di nuovi lavori. La meccaniz- zazione in agricoltura con il conseguente

depauperamento delle campagne co- minciò a produrre effetti soprattutto sulla cultura della civiltà contadina; di conse- guenza i canti stessi che avevano avuto un ruolo importante di aggregazione cul- turale delle comunità, persero del tutto la loro funzione. La tv e il web hanno fatto il resto… inibendo quella fantasia e quell’e- stro che fanno sorgere spontanei i canti tra il popolo.

Ci siamo accorti che non canta più nessu- no? Della civiltà contadina abbiamo detto, ma anche nelle città non si sente più canta- re. Anche nelle chiese è dificile convincere i fedeli a cantare tutti assieme. Non canta più nessuno, nemmeno gli ubriachi! Gli unici cori che si sentono in giro sono quelli degli stadi!! E qui entra in gioco il ruolo dei cori  popolari.  Molti  direttori,  anche  quelli del Coro La Martinella di Firenze, dal fonda- tore Claudio Malcapi, al successore Fabio Azzaroli, ed a chi vi scrive, hanno imitato non solo lo stile canoro della SAT ma hanno ereditato anche la passione per la ricerca etnograica e storica andando a raccogliere e registrare dal vivo i canti del loro territo- rio, mettendoli poi in forma scritta, salvan- do così un patrimonio culturale di canti orali che sarebbero stati destinati a sparire con le vecchie generazioni. E armonizzando poi le me- lodie per il proprio coro, ne hanno permesso la diffusione  e  la  cono- scenza in Italia e all’e- stero.

Non  si  può  pensare con questo che la coralità di montagna e della tradizione si as- suma il ruolo di far «rinascere» gli usi e co- stumi dei tempi passati presso le comunità attuali, ma senza dubbio può molto con- tribuire a cercare di far rivivere e suscitare gli stessi sentimenti e le stesse emozioni che un tempo il canto rappresentava per il popolo e far conoscere al contempo alle nuove generazioni le canzoni che hanno accompagnato la vita quotidiana dei loro avi, imparando a conoscere così, tramite il canto, la propria storia e le

proprie radici

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