Testo e foto di Leandro Benincasi
Leandro: Ciao Giancarlo, mi rivolgo a te, in punta di piedi e con molto rispetto, per chiederti se puoi rispondere a qualche mia domanda. So bene che questa mia richiesta può apparirti strana, visto che non sei più fra noi, ma io vorrei ugualmente fare questo tentativo, sempre che tu me lo permetta.
Giancarlo: Per me va bene, anzi, sono molto curioso di come andrà questa cosa. Però stai attento a te, perché ti prenderanno per uno un po’ fuori di testa.
L.: È vero, ma correrò ugualmente questo rischio. Come si dice? “Il rischio è il mio mestiere”.
G.: E allora vai, comincia.
L.: Benissimo. Però, prima di iniziare con le domande, vorrei farti i complimenti per il tuo inconfondibile stile di arrampicata. Se chiudo gli occhi mi sembra di vederti, attaccato alla roccia con braccia, busto e gambe a formare un potente arco. Si tratta certo di una posizione un po’ datata, ma veramente efficiente negli anni passati, quando si arrampicava con gli scarponi rigidi. Una posizione così solida e naturale che davi l’impressione di essere un tutt’uno con la roccia e che niente poteva strapparti da quelle prese.
G.: Si, è così. Mi è sempre venuto molto spontaneo muovermi in arrampicata. E quelle posizioni, che sembrerebbero studiate, mi venivano quasi automatiche. Anche sugli sci avevo una buona posizione, per me molto naturale, elastica e morbida, pronta ad assecondare il movimento.
L.: Devo aggiungere anche che eri un maestro non solo nell’arrampicata libera, ma anche nella progressione in artificiale. Raccontami un po’ di quest’ultima tecnica.
G.: Ai tempi in cui ho iniziato a praticare l’alpinismo, la progressione in artificiale mediante l’uso delle staffe era molto di moda. Questo metodo ebbe poi un ulteriore sviluppo con l’uso sistematico dei cosiddetti chiodi a pressione, che potevano essere infissi nella roccia anche laddove quest’ultima era completamente liscia, priva di fessure per accogliere i chiodi normali. Questo permetteva di superare le pareti più incredibili e gli strapiombi più spaventosi. Tra gli alpinisti più famosi nell’utilizzo di questa tecnica c’era Bepi Pellegrinon, nonché il mio caro amico Cesare Maestri. Anch’io fui attratto da questa specialità, e devo dire che ero piuttosto bravino…
L.: Verissimo, e certe tue vie, anche sulle Apuane, lo testimoniano. Ma raccontami dei chiodi a pressione che fabbricavi da te.
G.: Certamente. Ma più che una scelta, era una necessità. Eravamo nell’immediato dopoguerra e di quattrini ne circolavano pochi, figuriamoci se potevano essere sprecati in questa “inutile” attività alpinistica. E aprire una via in artificiale richiedeva l’impiego di numerosissimi chiodi a pressione, un patrimonio. Allora decisi di farmeli per conto mio. Prendevo un quadrello di acciaio, lo tagliavo in tronchetti di 5 o 6 centimetri e poi ci saldavo un quadratino di acciaio cui avevo praticato un foro del giusto diametro per farci passare un moschettone. Alle cave di Maiano ce ne sono diversi, sparsi su varie pareti. E se ben ricordo ce n’è ancora uno sulla mia via sulla parete est del Procinto, la via Luisa.
L.: Si Giancarlo, c’è ancora. E per fortuna a nessuno è venuto in mente di levarlo. Non perché sia utile alla progressione, ma perché è la testimonianza di un’epoca. Ma già che sei entrato in argomento “vie”, cominciamo a parlare della tua attività alpinistica, che comprende sia ripetizioni di vie famose, sia apertura di nuovi percorsi. Racconta un po’.
G.: L’elenco è lungo e faccio fatica a ricordarmi tutto. Però di alcune salite conservo un ricordo incancellabile. E fra le tante, anche famose e che mi hanno poi dato notorietà, una in particolare resta nella mia memoria come salita tra le più impegnative della mia carriera alpinistica, dove ho rischiato la pelle. E non si tratta né della solitaria alla parete nord del Pizzo d’Uccello [via Oppio – Colnaghi], e neanche della solitaria alla cima dei Burelloni, bensì della traversata invernale Roccandagia – Tambura – Alto di Sella – Sella. Non mi vergogno a dire che in quell’occasione ho avuto veramente paura. La sicurezza era affidata totalmente alle proprie capacità, perché l’attrezzatura tecnica di allora era veramente scarsa. Avevo a disposizione un’unica piccozza, che era di quelle a lama dritta, priva di tenuta sulla neve ghiacciata, e ramponi Grivel vecchio tipo. Il tratto di discesa da Grondalpo, con il vuoto della parete sotto i piedi, fu spaventoso, e ancora più estremo fu il primo tratto della cresta dell’Alto di Sella.
L.: Ricordo che qualche anno fa, quando mi raccontasti di questa tua impresa e soprattutto di quanto ti aveva impressionato, rimasi molto sorpreso, trattandosi di una salita modesta se raffrontata a tutte le altre da te effettuate, anche in solitaria. Eppure ne conservavi un ricordo molto profondo e rispettoso. Ne prendiamo atto. Poi però ci sono tutte le altre.
G.: Ho un buon ricordo per le “prime” effettuate sulle Apuane, e che sono poi diventate delle classiche. Dalla più facile, come il pilastrino di Fociomboli, alle meno facili, come la mia via sulla nord del Procinto salita con Paolo Melucci, ed infine come la già citata “Luisa” sulla est del Procinto, salita con Marchino Rulli.
L.: A proposito di quest’ultima via, devo dirti che ancor’oggi, a distanza di quasi sessant’anni dalla sua apertura, può essere considerata una via di grande bellezza e difficoltà, specie se fatta interamente in arrampicata libera.
G.: Poi sulle Dolomiti ho una prima sulla Rocchetta Alta di Bosconero e soprattutto la prima ripetizione (in solitaria) della sud ovest della Cima dei Burelloni, che mi valse la convocazione al Festival del Cinema di Montagna di Trento insieme ai più forti alpinisti del mondo. Ricordo che c’erano Bonatti, Zappelli, i miei amici Stenico e Pellegrinon, poi Navasa, Brandler, Hibeler, Diemberger, Solina, Mellano, e tanti altri. E poi c’ero anch’io.
L.: Bellissimo! Complimenti Giancarlo. Però oltre a queste salite e le tante altre, vorrei che tu mi parlassi di un altro genere di ascensioni, che di solito non entrano nel palmares degli alpinisti, ma che sono da considerare ugualmente imprese alpinistiche di pari valore, se non di più: quelle relative ai salvataggi.
G.: A quei tempi non esisteva il Soccorso Alpino. Quando accadeva un incidente in parete, chi ne veniva a conoscenza cercava di raccattare il più in fretta possibile, tra i presenti in zona, dei volenterosi per le operazioni di recupero e salvataggio. Naturalmente dovevano essere anche sufficientemente bravi per essere in grado di affrontare le difficoltà di quelle pareti, spesso in condizioni meteo disagevoli. Anche a me succedeva spesso di essere chiamato, durante i miei soggiorni in Dolomiti, a fare queste operazioni. E con l’occasione mi trovavo fianco a fianco con i più forti alpinisti del luogo.
L.: Ora tu ce la stai raccontando come una storiella di poco conto, ma la tua modestia ti impedisce di dire che hai salvato delle vite umane. Ripeto: persone che erano date per morte e che invece, grazie a te e solo a te, alla tua caparbietà, hai voluto riportare a valle, salvandole.
G.: Si, è così. Mi piace ricordare un caso per tutti: un’alpinista si era infortunata in maniera molto grave. Nella squadra di soccorso che la raggiunse, c’ero anch’io, vi erano persone che la davano per morente, spacciata, e pensando che non c’era più niente da fare, proponevano di buttarla giù. Io mi opposi con decisione, me la caricai sulle spalle e mi feci calare giù nel vuoto (per diversi tratti di corda) fino ai piedi della parete. E così questa persona si è salvata.
Ma ora sono stanco, non mi sento più di parlare. E non m’importa più nulla di quello che ho fatto o non ho fatto, Qui, dove sono ora, tutto questo mi appare veramente lontano. Mi resta solo l’amore. Solo l’amore.
L.: Scusa Giancarlo se ti ho recato disturbo, Ti lascio nel tuo nuovo mondo luminoso. E da alpinista ad alpinista, ti ringrazio per quanto ci hai saputo donare. Ciao. Grazie.