“I Denti del Corno Stella” di Sergio Rinaldi

Annuario 2009

Alle sorgenti del torrente Gesso di Valletta passante più a valle da Cuneo si trova la località montana di Terme di Valdieri che si incunea con i suoi 1.368 metri di altezza alla base delle più interessanti montagne delle Alpi Marittime.


Lo spigolo superiore del Corno Stella (www.vikimedia.org)
Spigolo superiore del Corno Stella (wikimedia.org)

Poco prima di arrivare si scorge molto in alto il canalone ghiacciato di Lourousa con i solchi violenti scavati dalle valanghe che d’inverno tentano di ostruire il passaggio al viandante. Lassù appare verso Sud la sagoma scura e granitica del Corno Stella che si erge ardito con la sua quinta rocciosa adiacente al ripido canale nevoso, staccato dal maestoso crinale delle cime più alte del Gruppo dell’Argentera fino a 3300 metri di altitudine.

Quel blocco di pietra che ha focalizzato l’attenzione e l’attrazione di intere generazioni di arrampicatori liguri, piemontesi e francesi, per il passato è stato come un tam-tam di richiamo che prometteva un impegno ed un rispetto degno di una maestà regale per cercare di svelare i segreti più intimi ed interessanti dei suoi versanti scoscesi. Dal Rifugio Bozano quel  corno di roccia si slancia erto come la protuberanza di un rinoceronte forando il cielo con la sua punta più alta e dominando le pareti e le pietraie dei massi basali con seicento metri di appicco fatti di strapiombi, fessure, spigoli e canali, dove si snodano una serie di vie interessanti che hanno fatto gioire ed attraggono ancora oggi generazioni di arditi alpinisti. Calcare quella cima valeva, per il passato, la qualifica di rocciatore esperto e mi viene alla mente quando la scalai la prima volta e per festeggiare, dopo una certa libagione, finii con un amico a dormire sotto le stelle, distesi nella campagna ormai buia di Borgo San Dalmazzo. Solo che al risveglio del mattino ci accorgemmo di essere finiti sopra un letamaio.
Per i liguri il Corno Stella è sempre stato una delle mete più ambite delle Alpi Marittime perché serviva a misurare le nostre forze e rappresentava una prova di maturazione alpinistica. Da lassù si domina dall’alto gli ottocento metri del canalone ghiacciato di Lourousa (posto tra il Monte Stella e il Corno) dove sono salito diverse volte sia d’estate che d’inverno e con i suoi 45°/55° gradi di inclinazione rappresenta un certo impegno tecnico, da non sottovalutare, avendolo disceso con gli sci anche da anziano. Purtroppo conservo anche un suo amaro ricordo dovuto alla visione di quattro amici alpinisti torinesi precipitati e travolti in discesa dalla neve instabile e ritrovati solo dopo una settimana di ricerche.
La visione spazia a Sud/Ovest sulle Cime dell’Argentera che incorniciano l’arco roccioso fino verso la Madre di Dio, mentre a Nord/Ovest il salto vallivo delle Terme di Valdieri è dominato dal Monte Matto.
Canale di Lourousa e parete NE del Corno Stella (www.altervista.org)

Dopo svariate arrampicate ripetitive su quasi tutte le principali vie delle sue pareti e dei suoi spigoli potevamo dire di conoscere abbastanza bene il Corno Stella, sia col bello che col cattivo tempo. Però ci restava il versante Nord, preso dal basso, più ostico e inviolato, dove si poteva tracciare almeno un nuovo itinerario di salita. Questa parete l’avevamo studiata ed osservata più volte durante la risalita del Lourousa e ci era sembrata piuttosto  ardita, con fessure un po’ larghe per i nostri chiodi e cunei di legno di allora, privi dei moderni friend ancora sconosciuti. Ma nei nostri sogni avevamo sempre davanti quella face Nord che stimolava le nostre speranze, le nostre forze e le nostre capacità. Sapevamo che essa non era stata ancora violata da nessuno e così, ascoltando delle voci provenienti dall’ambiente torinese interessato a quello stesso progetto, pensammo di accorciare i tempi e tentare l’impresa  subito salendo d’inverno nel tentativo di una prima ascensione “ assoluta “ e per di più invernale.

In quei tempi lo sci-alpinismo era concepito, per i più intraprendenti, di portarsi con gli sci ai piedi alla base di qualche roccia emergente dalla neve, per permetterci la scalata invernale. Così ai primi di Marzo del 1954 partimmo da Terme di Valdieri in tre: io, mio cugino Claudio e il caro amico Alessandro che ci volle accompagnare per alleviarci la fatica. La salita con gli sci si fece subito assai dura per l’erto zizzagare  nel bosco di larici, con la neve su cui si affondava e sulle spalle uno zaino di circa 40 chili stracarico di moschettoni, di chiodi in ferro e di cunei di legno fatti in casa, di staffe, di corde e cordini di canapa, di ramponi, martelli e piccozze e poi, sopra tutto gli sci che a volte dovevano essere trasportati sul groppone. Lo zaino era del tipo militare sferico, senza basto e privo di cinturone e le strisce degli spallacci erano talmente tese che scavavano un profondo solco nelle spalle.
Per caricare quell’antico basto bisognava alzarlo in due persone. Più in alto i camosci fischiavano scrutando quell’avanzare lento dei tre uomini e saltellavano beati loro leggeri alla ricerca di licheni emergenti dalla neve. Finalmente fuori dal bosco, al gias Lagarot, si girò verso destra salendo con gli sci il pendio nevoso disseminato da massi erratici in direzione della nostra meta. Più in alto, a circa 2400 metri, ci mettemmo alla ricerca del bivacco Varrone seppellito nella neve. Scavammo, non senza fatica, con le piccozze una buca assai profonda per penetrare in quella scatola da topi. Ci scaldammo con il  nostro fornelletto ad alcool il solito brodino e il tè. Tutto era umido per la presenza della neve filtrata dalle fessure, ma ci sentimmo comunque protetti in quella fredda notte pensando al tentativo dell’indomani su quella  parete Nord che incombeva sulle nostre teste.
schizzo di S. Rinaldi

Ai primi chiarori dell’alba uscimmo dal bivacco, calzammo gli sci e con quei pesanti sacchi sulle spalle si avviammo alla base del canalone di Lourousa risalendolo per circa 100 metri. Abbandonati gli sci e l’amico Sandro, io e mio cugino Claudio attaccammo le rocce fredde e levigate dal verglass della parete Nord sempre in ombra. Gli scarponi di cuoio erano da sci, con la punta squadrata ma avevamo con noi piccozza e ramponi. Le corde di canapa erano di 40 metri e non avevamo imbracatura, ma un semplice nodo ci legava in vita. Quell’attrezzatura un po’ spartana e primitiva non ci spaventava di certo. Con la testa rivolta verso l’alto cercavamo il punto migliore e più semplice per penetrare in quel dedalo di rocce sconosciute non ancora toccate dall’uomo.

Aprire una via nuova, possibilmente senza variazioni, è una sensazione intensa ma comporta svelare il segreto di una serie di passaggi incogniti che solo con l’istinto e con la determinazione riusciamo a superare. Lentamente scaliamo lo zoccolo basale innalzandoci per fessure, diedri, placche e sporgenze, accarezzando la roccia per scoprirne i lati più accessibili. Su quella parete sempre oscura per la mancanza di esposizione al sole, nonostante i riflessi della neve, sembrava quasi di arrampicare nell’ombra di un enorme pozzo. Ormai eravamo penetrati nel vivo cuore di quella “face nord” e ogni tanto il tintinnio di un chiodo ribadito dal martello in qualche fessura amica echeggiava nel silenzio assoluto di quel freddo mondo verticale e invernale. Dopo qualche centinaio di metri dalla base di attacco si scorgevano a malapena, laggiù in basso, il canalone, gli sci e l’amico che ci aveva accompagnato fin lassù ed una pietra cadente li avrebbe raggiunti senza ostacoli come una goccia d’acqua. Io salivo davanti spinto dall’esuberanza e dall’entusiasmo giovanile dei miei ventiquattro anni, alla ricerca degli appigli e del passaggio migliore, dominando l’emozione dell’incertezza della via ignota da seguire. Più su, sopra la mia testa, si scorgevano protuberanze e lame di roccia sporgenti che avrebbero reso più ardua la scalata. Ma l’istinto mi spinse ad impegnarmi per superare quel passaggio strapiombante che riuscii a dominare, sbuffando come una locomotiva, con una arrampicata acrobatica sulle braccia.
Claudio, pur essendo più anziano di me ma   possedendo doti di una agilità quasi scimmiesca, seguiva con apprensione le mie acrobazie e quando fu il suo turno partì poco convinto di farcela su quelle scaglie rocciose aggettanti di gneiss. Raccolse tutte le sue energie ma al passaggio chiave delle lame sporgenti non riuscì a superare l’ostacolo e perse la presa. Io, dall’alto, non potevo vedere arrampicare il secondo perché lui era sotto lo strapiombo ma improvvisamente sentii la corda alleggerirsi e poi ricevetti un forte strappone che per poco non mi strappava dal mio punto di sosta avendo la sola sicurezza a spalla ed un chiodo piantato nella roccia. Capii subito che mio cugino era volato sotto la lama rocciosa viscida. Allora cercai di incoraggiare Claudio a riprendere l’arrampicata per verificare se lui non aveva riportato danni fisici nella caduta. Dopo un certo intermezzo e tragico silenzio sentii la corda alleggerirsi.
“Belin che volo! Tegni forte e tia!” sentii urlare in un genovese tremolante. Poi vidi comparire una mano sotto i miei scarponi e il viso arrossato di Claudio. Ma il suo sorriso era diventato quasi un ghigno ed una maschera di sangue lo ricopriva da sotto il naso fino al mento. Quando mi raggiunse vidi che gli mancavano tre denti davanti, dove aveva picchiato contro la roccia. Cercai di rianimarlo e di pulirlo con della garza ma la sua pur forte fibra aveva subito un violento scossone scontrandosi con la dura pietra là sotto la lama strapiombante.
“Cumme anemmo?” gli chiesi.
“Me despiasce, ma nu ga fassu ciù! No u belin pin!” mi rispose. Allora capii che Claudio non ne voleva più sapere di salire e con dentro tanta amarezza svanì il nostro sogno di gloria lasciando lassù su quella parete Nord del Corno Stella, a perenne testimonianza, i suoi tre denti tra canini e incisivi. Così naufragò il nostro tentativo di prima assoluta a oltre metà salita. Mestamente preparammo le corde doppie per la discesa, sconsolati e domati solo da un maledetto e doloroso imprevisto, ma senza sentirci sconfitti dalle difficoltà della nuova via  che avevamo affrontato. Alla base ritrovammo l’amico Sandro e i nostri legni che avevamo calzato fin lassù, con un sci-alpinismo d’altri tempi, e con quei fedeli sci calammo dalla base del Lourousa  al gias Lagarot e poi a valle alle Terme di Valdieri, concludendo una sfortunata disavventura di montagna sulle Alpi Marittime.
Per conoscenza, dopo quattro mesi, nel mese di Luglio dello stesso anno 1954 Corradino Rabbi, che divenne poi Presidente del C.A.I. Accademico, con M. Maccagno aprirono su quella stessa parete Nord del Corno Stella una nuova via, sulle nostre tracce, ma forse non si seppe mai del nostro tentativo invernale perché quei tre denti lasciati lassù da mio cugino non furono mai ritrovati. Questa è una storia antica che servì a maturare la nostra esperienza di montagna, vinti dall’imprevisto ma non domati, il cui insegnamento servì per il passato e servirà per il presente e per il futuro alle nuove generazioni guidandole nella scelta delle loro azioni, non solo con la tecnica moderna e la determinazione ma anche con la necessaria prudenza e preparazione che serviranno a riportare a casa sana la nostra cara buccia, tenendo presente che anche la rinuncia, se necessaria, può essere considerata una vittoria.
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