Sfrutto, di solito, questo spazio, i Lettori lo sanno, per approfondire la conoscenza di figure e temi che riguardano l’alpinismo; personaggi che hanno svolto un ruolo importante nella storia così come nell’evoluzione della tecnica. Talvolta meno conosciuti ai più, soprattutto fra le giovani leve dell’arrampicata, eppure degni di essere citati fra i migliori. In quest’occasione avrei voluto parlarvi di Giancarlo Biasin, alpinista di indubbio talento morto prematuramente poco dopo aver aperto, con Samuele Scalet, una via al Sass Maor di notevole difficoltà. Mi sono convinto, tuttavia, stamani, aprendo il giornale, che il mio contributo su Biasin poteva aspettare. Un cambiamento di programma sollecitato dalla curiosità di un titolo in prima pagina (La Repubblica – 12 agosto 2009), “Quella sfida impari tra uomo e montagna”. La firma è autorevole, è quella di un giornalista e scrittore molto conosciuto e apprezzato: Giorgio Bocca.
Già il titolo non mi piace. E’ la parola “sfida”, in realtà, a non piacermi. Mi verrebbe da dire: “Sig. Bocca guardi, la sfida semmai è con noi stessi, qualcuno la vince, qualcuno la perde ma … la montagna non c’entra niente. Mai.”. Ma sono anni ormai che non mi meraviglio più di niente: d’altronde, per leggere di montagna sui media, basta avere la pazienza di aspettare un’alluvione, un fatto di cronaca nera, magari una, meglio se più morti accidentali. Anche un “fungaio” disperso può, talvolta, andar bene; un parapendio che finisce in una macchia è un bel colpo se siamo nella settimana di Ferragosto. Mai una volta che si parli delle bellezze della montagna, del piacere e della poesia che genera nei suoi frequentatori, mai una volta che si parli dei problemi, delle difficoltà di chi vive sulla montagna, per la montagna, della montagna. Ecco spiegato il perché di questo cambio programma, un cambio quasi obbligato dopo le recenti, troppe, morti verificatesi in montagna nel corso dell’estate. Preferisco parlare della spensieratezza, del buon umore che la montagna sa trasmetterci ma, talvolta, ritengo sia opportuno parlare, discutere anche della morte in montagna. C’è anche quella, inutile naconderci o girarsi dall’altra parte. Oltrettutto, credo sia anche nostra responsabilità farlo, visto che siamo pur sempre, nel nostro piccolo, un mezzo di informazione.
Leggo l’articolo di Bocca. Inizia così: “Questo è un anno buono per i morti in montagna”. Sono sbigottito. Ho letto bene? Sì, ho letto bene, bah … andiamo avanti nella lettura: “Siamo solo a metà agosto e … la nostra quota (n.d.r. di morti) nella Valle di Aosta è rispettabile”. Francamente … non so cosa pensare, il caldo fa brutti scherzi. Di sicuro è un pensiero di cattivo gusto, non fosse altro per il rispetto di quelle morti. O avranno istituito un premio alla Regione migliore? Meglio sarebbe chiudere il giornale e lasciar perdere, tutti scrivono di montagna solo quando muore qualcuno; Bocca, per quanto giornalista di culto, non è diverso dagli altri. Devo ancora cominciare a scrivere di Biasin e perdo tempo con articoli di questo tipo. Ma la curiosità non mi abbandona, vado avanti: “Ogni estate ci chiediamo perché si muore in montagna …. Perché la montagna è nemica dell’uomo come sapevano i nostri progenitori …”.
Ora … intanto lasciamo perdere i progenitori e pace all’anima loro. Poi vorrei dire … Sig. Bocca scusi, io non ho la sua cultura, nemmeno ho mai conosciuto un partigiano tanto da farmene una fortuna e non ho un briciolo di intellettualità. Sono nato in Piazza del Mercato Centrale anche se da famiglia aristocratica che aveva perso gran parte del suo smalto originario. Una piazza poco bazzicata dagli intellettuali e l’unica forma di cultura erano, vivaddio, i barroccini che ci davano da vivere. Loro sì che erano, insieme, coltura e cultura! Popolare forse, ma sempre cultura era. Mi perdoni questi ricordi che niente hanno a che vedere con l’argomento di cui parliamo ma Piazza del Mercato Centrale era un gran bel posto, mi creda. Non solo, e non tanto, perché eravamo una grande famiglia ma soprattutto perché quando moriva qualcuno non stilavamo classifiche con le altre piazze di Firenze. Era una comunità vera, vitale e palpitante come quella che frequenta la montagna cioè genuina, sincera, appassionata. Il rione era povero, è vero, la media culturale degli abitanti del mercato non era granché, niente a che vedere con la Sua, anzi direi vi fosse abbastanza ignoranza, eppure vigeva un codice di comportamento, mai scritto ma rispettato da tutti, che contemplava anche il rispetto per i morti, e fra questi anche di quelli in montagna.
Viste le mie umili origini, di cui peraltro vado orgoglioso, non sono quindi culturalmente evoluto ma mi permetta, tuttavia, di dirLe che, se non altro, conosco un po’ di montagna. Solo un po’, intendiamoci, ma … me lo conceda. Per questo vorrei chiederle: perché la montagna ci dovrebbe essere nemica? Da cosa lo deduce scusi? Semmai è l’opposto, noi siamo i veri nemici della montagna con il nostro turismo mordi e fuggi, i nostri impianti di risalita, gli alberi tagliati per fare piste che sembrano biliardi, il sudicio, la sporcizia che lasciamo a giro, le ginestre sbarbate da portare a casa, gli elicotteri a pagamento, le motoslitte e poi davvero … mettiamoci anche noi alpinisti con tutti i nostri artifici. Noi siamo i veri nemici della montagna, caro Sig. Bocca, non viceversa.
Vado avanti nella lettura… “Perché si muore in montagna? … che senso ha che esseri di carne fragile, di ossa deboli sfidino pareti di roccia dure come l’acciaio? Si dice che chi muore in montagna muore per disgrazia. Ma no … muore per una sfida gratuita.”. Sto lentamente ma fatalmente passando dallo sbigottimento all’inc.. all’arrabbiatura. Che ne sa Lei, scusi, quale senso possa avere fare certe cose in montagna? Perché ciò che non riusciamo a capire è sempre stupido? Sig. Bocca, non se la prenda, tutti abbiamo dei limiti.
Per me, come per tanti altri come me, andare in montagna non è mai stata una sfida, tantomeno gratuita. Ho dato tanto alla montagna e non solo in termini fisici. Senza contare i temporali, le nevicate, il freddo, il caldo, la paura (anche quella sì …). Eppure seguito a pensare che la montagna mi abbia dato molto di più. Con le mia ossa deboli e la mia fragile carne, come Lei la chiama ed avrà senz’altro ragione, ho trovato e vissuto momenti e sensazioni indimenticabili, anche nei momenti peggiori, nei momenti di pericolo. Ho visto cose che sono in molti a non aver mai visto, ho preso coscienza dei miei limiti (e sono tanti). Forse, e questo grazie alla montagna, sono riuscito anche a migliorarmi pur non essendo riuscito a diventare uno stinco di santo. Ho imparato ad avere paura e ad apprezzare la vita. E soprattutto, la montagna mi ha insegnato a piangere, sia di gioia sia di dolore come ultimamente. No Sig. Bocca, mi creda, non c’è nessuna sfida gratuita per chi frequenta la montagna e se qualcuno muore non è colpa della “montagna assassina”. Forse, e per carità non se la prenda, è a Lei che manca qualcosa. Gli alpinisti, Sig. Bocca, non sono una categoria di stupidi. Grulli sì, stupidi no.
Fra i morti di questa estate vi sono tre ragazzi di Pistoia, due dei quali, che anch’io conoscevo, facevano parte della Stazione locale del SAST. In un intervista al TG1, Sergio Catani che è Delegato Regionale del Soccorso Alpino e Speleologico Toscano, ha espresso un concetto apprezzato da molti che credo gli abbia richiesto, a Lui sì, un grande coraggio intellettuale. Ha detto, anche se non ricordo le parole esatte: “In un momento così doloroso per me … Vi prego tuttavia di non dire, di non scrivere che la montagna è assassina perché non è così.”. Non credo di essere influenzato dal fatto di essergli amico se dico che in un momento così difficile, così doloroso soprattutto per lui che per lunghi anni è stato capostazione di questi ragazzi contribuendo alla loro formazione, ha ancora una volta saputo cogliere la bellezza della montagna. Grazie Sergio. Se mai Sig. Bocca, leggerà queste modeste, umili righe per quanto scritte da un ignorante, ne faccia tesoro, non si sa mai e non si vergogni di avere paura perchè questo sì, che sarebbe stupido.
Per fortuna, c’è un altro articolo sul giornale. Un articolo che riprende pari pari il concetto espresso da Sergio e che ha, in questo caso sì, un buon titolo: “L’antica mamma che non tradisce”. L’Autore è anch’Egli personaggio noto: Mauro Corona. Provo allora a riconciliarmi con la lettura: “Mi vien da piangere quando sento parlare di montagna assassina. La montagna non è assassina, la montagna non è nulla. Se ne sta lì e basta… la montagna è come un’antica mamma sulla quale giocano, corrono, si nascondono, cercano abbracci i suoi figli. Ogni tanto la mamma si stiracchia … qualche bambino rotola giù, qualche altro soffoca sotto la sua mole ...”
Finalmente provo sollievo, poesia per le mie orecchie. Finalmente uno che sa di montagna (perchè questo è il problema, anche fra firme illustri del giornalismo). “I falciatori del tempo passato spiavano l’ombra di quelle immense coti … poi la montagna s’apriva in canaloni di chilometri dove boscaioli, d’inverno, facevano scivolare cataste di legname. In quei budelli ghiacciati qualcuno ci restava. Il taglialegna lo seppelliva. Non diceva montagna assassina. Ringraziava il cielo che era morto solo uno. Potevano essere di più. .. Dalle montagne si riceve affetto, protezione, compagnia… La montagna non è assassina, se ne sta lassù e basta. Siamo noi i killer di noi stessi che non sappiamo vivere… che distruggiamo la natura. La vita è un segno di matita … per molti è lungo, per molti corto, per altri non parte nemmeno. Qualcuno interrompe il cammino sulla montagna.”. Inutile aggiungere altro, questa sì che è una forma di grande cultura.
Vorrei scrivere ancora molto, ma ho già scritto abbastanza e non ho più spazio. Una cosa però sento di dover dire prima di chiudere e Vi prego di credere che lo faccio senza alcuna presunzione. Facendo un esame delle morti avvenute negli scorsi mesi ve ne sono alcune che, purtroppo, risiedono nella fatalità. Altre invece no ed è su queste che vorrei porre l’accento. Contro la fatalità non si fa niente, contro il resto si può provare.
Vi sono molti modi per andare in montagna ma uno, soltanto uno, è accettabile: andarvi consapevolmente. Noi del CAI, e ci metto anche il Soccorso Alpino e Speleologico, svolgiamo in questo senso un ruolo di primo piano. Soprattutto insegniamo, nonostante talvolta, e non dobbiamo tapparci gli occhi, anche soci del CAI muoiano in montagna. Per questo bisogna incrementare la voglia di conoscenza. Un grande vecchio e grande alpinista, chiamato Bruno, ci disse una volta: “Sarai alpinista il giorno in cui saprai mettere un chiodo e calarti su di esso”. Aveva ragione. Quanti fra noi, mi ci metto anch’io ovviamente, sanno far bene una “sosta”. Quanti sanno disporre una “corda fissa”. Quanti far bene una “corda doppia”. Quanti sono consapevolmente coscienti di essere capaci di far fronte a qualunque situazione di rischio si crei camminando, arrampicando, facendo una ferrata. Per esperienza diretta, giornaliera, sono a conoscenza di quanta superficialità vi sia a giro. D’altronde nel momento in cui la montagna diventa un fenomeno di massa, se volete di moda, è inevitabile che il numero di morti aumenti. Non dobbiamo e non possiamo permetterlo, dobbiamo impegnarci, tutti, nei limiti delle proprie conoscenze, anche nei confronti di chi è più restio in materia. Gli strumenti ci sono, e qualificati, molto qualificati. Specialmente al CAI. Vi prego non fatemi aprire il giornale e trovare altri articoli di Bocca. Non lo sopporterei. Buona montagna a tutti… e occhio.
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