Alla scoperta del Club Alpino Italiano di Riccardo Focardi

Gennaio 2013

La costituzione, le conquiste, le modifiche allo Statuto

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Domenico Morelli – ritratto di Quintino Sella (dal sito Accademia Naz. dei Lincei)

L’atto costitutivo del Club Alpino Italiano, cioè la prima Assemblea dei Soci fondatori, si tenne a Torino il 23 ottobre 1863. Il nostro Club non è, comunque, il più antico. Esistevano già, infatti, l’inglese Alpine Club, l’austriaco Österreichischer Alpenverein e lo svizzero Schweizer Alpen Club. Ma come è nata in Quintino Sella, nostro Padre fondatore, l’idea di costituire un Club Alpino? Le motivazioni sono ben precise, si trovano, infatti, nella lettera scritta all’amico Bartolomeo Gastaldi il 15 agosto 1863, tre giorni dopo la prima salita italiana al Monviso, salita effettuata dallo stesso Sella insieme a Paolo e Giacinto di Saint-Robert e Giovanni Baldracco. Il Monviso era stato salito la prima volta il 30 agosto 1861 da Mathews e Jacomb e una seconda volta nell’agosto del 1862 da Tuckett. Paolo di Saint-Robert aveva fatto tradurre sulla Gazzetta di Torino la relazione della salita effettuata dal Tuckett ed era stata la lettura di questa relazione a spingere i quattro amici a ripetere la salita, la terza in assoluto e, appunto, la prima italiana.

 Presi dall’entusiasmo, ancora a Saluzzo dove si riposarono e festeggiarono il successo, ospiti di un convento di suore, i quattro misero a punto le idee che poi Sella tradusse nella lettera al Gastaldi: “…. a Londra si è fatto un Club Alpino, cioè di persone che spendono qualche settimana dell’anno nel salire le Alpi, le nostre Alpi!. Ivi si hanno tutti i libri e le memorie desiderabili; ivi strumenti tra di loro paragonati con cui si possono fare sulle nostre cime osservazioni comparabili; ivi si conviene per parlare della bellezza incomparabile dei nostri monti e per ragionare sulle osservazioni scientifiche che furono fatte o sono a farsi; ivi chi men sa di botanica, di geologia, di zoologia porta i fiori, le rocce o gli insetti che attrassero la sua attenzione e trova chi glie ne dice i nomi e le proprietà; ivi si ha insomma potentissimi incentivi non solo al tentare nuove salite, al superare difficoltà non ancora vinte, ma all’osservare quei fatti di cui la scienza ancora difetti. Anche a Vienna si è fatto un Alpenverein ed un primo interessantissimo volume è appunto venuto in luce in questi giorni. Ora non si potrebbe fare alcunché di simile da noi ? Io crederei di sì ….”

Termina la lettera: “… Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani a dar di piglio al bastone ferrato ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi che ogni popolo ci invidia. Col crescere di questo gusto crescerà pure l’amore per lo studio delle scienze naturali e non ci occorrerà più di veder le cose nostre talvolta studiate più dagli stranieri che non dagli Italiani”. Ecco come nell’ultimo periodo della lettera traspare già il concetto di studio della natura che sarà poi esplicitato nello Statuto del Club ed ancora oggi in parte mantenuto: “Il Club Alpino ha per iscopo di far conoscere le montagne, più precisamente le italiane, di agevolarvi le escursioni, le salite e le esplorazioni scientifiche”. Ma nella formulazione di questo articolo si trova anche un’altra parola, importantissima, e sulla quale torneremo in seguito: le escursioni.

Quintino Sella non è ovviamente il primo alpinista italiano. C’era stata, fino dal secolo precedente, il 1700, un’avanguardia avventurosa di parroci, cacciatori e montanari valsesiani e valdostani che vivendo sul posto avevano obbedito all’impulso misterioso di salire, di andare a vedere cosa c’era sugli alti ghiacciai, cosa c’era oltre le creste che limitano l’orizzonte consueto della valle di casa e dove si riteneva esistesse un mondo soggetto ad influenze diaboliche o a superstiziose credenze. Ma questi sono davvero dei pionieri e le loro iniziative individuali sono staccate, quasi come una preistoria, dal vero e proprio sviluppo dell’alpinismo italiano. Intorno a Sella e compagni gravitava un piccolo mondo cittadino di personaggi assai autorevoli, gentiluomini, studiosi, agiati professionisti, benestanti, scienziati, che evadevano dalle costrizioni della vita di città anche con l’intento di compiere studi geologici, scientifici, coerenti con la ventata di conoscenza che aveva aperto il “secolo dei lumi”, cioè il tempo dell’illuminismo. Teniamo presente che il Club Alpino non è nato come un movimento popolare, ma dall’inizio fino a tempi assai vicini, direi vicinissimi a noi, è stato una associazione abbastanza esclusiva e di elite dove, spesso, l’elemento che contava di più era “il nome”. Per il gruppo di Sella gli studi geologici erano lo scopo (alcuni padri del CAI sono anche i padri della geologia in Italia, come il sen. Giuseppe Scarabelli e il prof. Igino Cocchi, fondatore della Sezione di Firenze) o la copertura scientifica con la quale essi giustificavano di fronte a se stessi e di fronte a consorti, superiori, relazioni sociali e mondane, quella loro strana mania che li spingeva fuori dalle comodità della vita civile, a faticare e sudare su per greppi incolti, a dormire in fienili, a nutrirsi di polenta e latte, a sbrindellarsi gli abiti fra sterpi e rocce: da qui il richiamo allo studio subito messo nello Statuto. Si può sicuramente dire che i primi membri del CAI furono tutti, nello stesso tempo, alpinisti e naturalisti nel senso più ampio e intelligente del termine e lo si nota benissimo dai loro resoconti.

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Un’immagine della Regina Margherita in visita all’omonima Capanna, nell’agosto 1893, pochi giorni prima dell’inaugurazione, dal sito della Sezione di Varallo Sesia

 E l’intreccio fra conoscenza e padronanza del territorio, analisi della sua naturalità e rivendicazione quasi nazionalistica di questo ruolo, abbraccia le spinte culturali e politiche che avevano appena dato vita all’unità d’Italia; il che non è affatto in contrasto con le origini che in Inghilterra l’Alpine Club aveva attinto dalle potenti logge massoniche anglosassoni, poiché anche in Italia massoneria e Risorgimento non erano l’una estranea all’altro. In seguito, questa spontanea e iniziale impronta dell’Associazione ha risentito dell’aumento del numero delle attività, dei soci e soprattutto degli enormi sviluppi delle scienze naturali, fisiche, chimiche, e della loro conseguente estrema specializzazione.

Ecco allora che nel CAI ha cominciato ad avere il sopravvento il tecnicismo puro, l’alpinismo in senso stretto, di pura ascensione, spesso solo acrobatica. Tuttavia il CAI ha sempre mantenuto tra i suoi Soci singole persone o gruppi che con spirito di ricerca, serietà, preparazione, hanno dotato il Sodalizio di una messe rilevante di studi fisici e naturalistici tanto da indurre alla creazione, nel 1931, del Comitato Scientifico Nazionale. Scorrendo i Bollettini dell’Asso-ciazione si nota come il primo argomento scientifico, trattato in modo ufficiale e sistematico, sia stata la meteorologia. Ogni edizione iniziava,infatti, con la pubblicazione delle rilevazioni effettuate dal primo Osservatorio CAI situato a Torino, al primo piano del Castello del Valentino. A questo primo Osservatorio ne seguiranno molti altri fino ad arrivare a 116 Osservatori nel 1880. Una curiosità: nel mese di settembre del 1876, la Sezione CAI di Siena chiese un contributo di 100 lire al Comune per impiantare un osservatorio meteorologico a Castel del Piano sul Monte Amiata. La richiesta fu respinta dal Consiglio Comunale di Siena perché 100 lire per un osservatorio meteorologico sarebbero state una spesa “scientifica” e non “amministrativa” e quindi non di competenza del Comune. L’osservatorio fu comunque realizzato a spese della Sezione ed il contributo di 100 lire fu dato dal Comune di Castel del Piano. Nel 1874 fu sostituito l’Osservatorio al Valentino con la “Vedetta”, sempre a Torino, al Monte dei Cappuccini; nel medesimo luogo ove oggi sorge il Museo della Montagna.

Inizialmente la Sede Centrale dava un contributo di 50 lire alle Sezioni che impiantavano un Osservatorio, ma in seguito, con la nascita della Società Metrologica Italiana, l’interesse diminuì e tutti gli Osservatori passarono a questa società. Rimase però al CAI il gioiello degli Osservatori, la “Capanna Regina Margherita” al Monte Rosa, inaugurata il 4 settembre 1893, ampliata nel 1899 e addirittura dotata di telefono nel 1908. Infine è del 1937 l’accordo fra il CAI ed il Ministero dell’Aeronautica per lo scambio di informazioni meteorologiche, in base al quale ancora oggi il Rifugio Brioschi della Sezione di Milano, sulla vetta della Grigna Settentrionale, a 2.410 metri di quota, è contemporaneamente rifugio di proprietà del CAI e stazione meteorologica dell’Aeronautica collegata con l’aeroporto Forlanini di Milano.

Ma la meteorologia non è stata il solo interesse; la costante ricerca dei Soci del CAI ha spaziato con grandi risultati anche nella geologia e nella mineralogia, sia con lo studio della formazione e della composizione dei grandi gruppi montani, sia con studi pratici, volti cioè alla soluzione di problemi minerari o di ricerca di acqua potabile. Parlare di tutti sarebbe troppo lungo, voglio citarne però uno particolarmente interessante: lo studio geologico, pubblicato sul Bollettino n. 49 del 1881, per l’apertura di una galleria in funzione di una linea ferroviaria sotto il Monte Bianco. Il tracciato dell’attuale galleria stradale segue, oggi, quasi integralmente quello individuato nel 1881. Gli studi dei Soci del CAI hanno interessato anche la speleologia, il carsismo, la zoologia, la botanica, e poi il ghiaccio, la neve, le valanghe e la medicina. Proprio in medicina sono stati effettuati studi accurati sulle conseguenze per l’organismo umano sottoposto a sforzi notevoli alle alte quote, cioè in ambiente povero di ossigeno, studi che hanno contribuito in maniera fondamentale alla realizzazione di varie imprese alpinistiche di alto livello, una per tutte, la conquista del K2. Per quanto riguarda lo studio dei ghiacciai e della neve, è sufficiente ricordare che il CAI fa parte del Comitato Glaciologico Italiano e l’esistenza del Servizio Valanghe. A proposito di ghiacciai, segnalo ancora una curiosità: sul Bollettino n. 51 del 1884 comparve un articolo intitolato “Questioni di diritto intorno ai Ghiacciai”. Era infatti aperta una discussione su un problema, allora, di difficile soluzione: i ghiacciai sono proprietà di privati o dello Stato? La questione è poi morta da sola.

Enrico Cecioni
Col. Enrico Cecioni – Presidente della Sezione fiorentina del CAI dal 1948 al 1958 e membro del Club Alpino Accademico Italiano – (Archivio storico CAI Firenze)

 Veniamo all’attività alpinistica vera e propria. Inizialmente si è trattato essenzialmente di una attività a scopo esplorativo, di conoscenza e di conquista di cime ancora inviolate. L’esempio classico è la salita al Monviso di Quintino Sella che ha dato origine, come abbiamo già visto, al Club Alpino Italiano; si trattava della terza ripetizione e la prima interamente italiana. Terminata la prima fase, diciamo pure pioneristica, con la conquista di tutte le maggiori vette alpine lungo le cosiddette vie normali, è iniziata quella fase di ricerca che inevitabilmente ha portato all’apertura di itinerari più difficili, anche grazie ai progressi sempre maggiori nella tecnologia degli attrezzi da montagna: scarponi, corde, ramponi, piccozze e infine chiodi, martelli e simili. Ecco allora la ricerca delle vie dirette, la nascita del 6° grado, le salite invernali, le ascensioni in solitaria, fino al free climbing e la ricerca dei record per salite e discese sempre più veloci anche di più vette consecutive.

L’attività alpinistica non è stata limitata alla cerchia delle Alpi ma, fino dai primi tempi, Soci del CAI hanno effettuato salite in ogni altra parte del mondo. Mi limito a citarne alcune. La più vecchia, nel 1887, il valdostano Roberto Lecco conquista, nel Caucaso, la vetta del Monte Elbrus, di 5.633 mt. di quota. Nel 1909 la spedizione del Duca degli Abruzzi al Baltoro si avvicina molto alla cima del K2 e stabilisce il record massimo di altezza fino allora mai raggiunto dall’uomo, 7.500 mt. Nel 1930 è, di nuovo, una spedizione italiana guidata dal prof. Giotto Dainelli ad esplorare gran parte del Karakorum. Giotto Dainelli è stato Presidente della Sezione di Firenze e della spedizione faceva parte l’allora tenente degli alpini Enrico Cecioni il quale, insieme alle ricerche cartografiche, ha fatto anche alcune prime salite su vette oltre i 6.500 mt. Enrico Cecioni, il mitico “colonnello Cecioni” come era chiamato da noi fiorentini, diventerà anch’egli, in seguito, Presidente della Sezione di Firenze. L’elenco delle spedizioni sarebbe lunghissimo, dico solo la più famosa: la conquista del K2 nel 1954 sulla quale credo di non dover aggiungere niente essendo sicuramente ben conosciuta. Nell’ambito di questa spedizione, anche la Sezione di Firenze è stata presente: topografo della spedizione era, infatti, l’allora capitano Lombardi, dell’IGM, Socio di Firenze ed in seguito consigliere e segretario della Sezione.

Ho detto prima che nell’art. 2 del primo Statuto compariva fra gli scopi della nuova Associazione l’espressione “… agevolare le escursioni …”, concetto importantissimo. L’escursionismo, da sempre, è stato considerato come una attività propedeutica alla salita delle vette, ma non solo. Infatti, spesso, prima ancora di pensare a scalare una vetta, bisognava esplorare la valle sottostante perché la conoscenza delle vallate alpine non era certamente quella che abbiamo oggi. Non parliamo poi della situazione strade e mezzi di trasporto, gli unici vettori disponibili erano quasi sempre i muli e i piedi, ma anche in tempi un pò più vicini a noi la situazione non era tanto migliore. Per darvi un’idea di come dovevano muoversi i nostri cari antenati, ricordo poche righe di uno scritto di Giuseppe D’Anna, pioniere dell’alpinismo dolomitico, sulla rivista mensile del 1889: “… per andare a S.Martino di Castrozza non occorre un viaggio tanto lungo né con tanti disagi. Infatti partendo da Milano col diretto delle 23,25 si giunge a Treviso alle 5,37 ed alle 8,15 a Feltre, di dove in 6 ore di carrozza si può essere a S.Martino …”. Oggi, con una macchina si può benissimo, e molti lo hanno fatto. Ad esempio partire il venerdì sera da Firenze, andare a dormire a Gressoney, il sabato salire alla Gnifetti, la domenica su alla Capanna Margherita, ridiscendere e tornare a Firenze entro domenica notte. L’escursionismo quindi ha perso gran parte della sua funzione di marcia di avvicinamento alle grandi cime, ma è diventato una delle attività fondamentali del CAI, attività che si lega strettamente a quella della segnatura e manutenzione sentieri e della gestione Rifugi. Ovviamente l’alpinismo in senso classico, in particolare la ripetizione delle vie più famose e più difficili, esiste ancora e rappresenta la punta di diamante dell’Associazione, ma numericamente parlando è una attività che riguarda una piccola minoranza di Soci CAI, la stragrande maggioranza sono escursionisti.

Passiamo ora a parlare della struttura organizzativa del CAI, come è nata e come si è trasformata nel tempo. Abbiamo già detto che la prima Assemblea si è tenuta a Torino il 23 ottobre 1863 e qui nasce subito una questione poiché sono in molti a voler distinguere: a Torino, con l’Assemblea, il Club Alpino è stato costituito, mentre in vetta al Monviso, il 12 agosto 1863, il giorno cioè dell’ascensione, il Club Alpino è stato fondato. Sinceramente, a me sembra solo una discussione puramente accademica e una perdita di tempo dedicarci anche una sola parola. All’Assemblea parteciparono 40 persone delle 200 che avevano già dato la loro adesione (si vede che già allora vi erano problemi di partecipazione alle Assemblee) e furono approvati lo Statuto, nominati i nove membri della Direzione ed eletto il Presidente che non fu, tuttavia, Quintino Sella, come ci si sarebbe potuto aspettare, ma il barone Fernando di San Martino. Sella sarà solo il quinto Presidente, ma è comprensibile: era solo commendatore e non barone. Non per nulla nelle prime riunioni dei Soci fondatori furono discusse due tesi opposte fra chi voleva limitare l’iscrizione solo a persone con titoli particolari come censo o meriti scientifici e chi invece voleva una Associazione più democratica con accesso libero a tutti.

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Il Castello del Valentino a Torino, sede della fondazione ufficiale del Club Alpino Italiano, in una storica immagine del 1847 di Giacomo Brogi (1822-1881)
(dal sito del Comune di Torino)

 Le osservazioni più interessanti sono però sullo Statuto. Abbiamo già visto la formulazione dell’art. 2 sullo ”iscopo” del Club Alpino, formulazione che è rimasta sostanzialmente inalterata anche nello Statuto attuale anche se all’art. 1. L’articolo 1 originale diceva invece che “è istituita in Torino una Società sotto il nome di Club Alpino”: non si parla quindi di Club Alpino Italiano, ma solo di una Società torinese. Vedremo poi come e quando è diventato “Italiano”. L’art. 3 stabiliva la quota annua in lire 20 e obbligava il Socio per tre anni, inoltre stabiliva una quota di prima iscrizione che non poteva essere inferiore a 20 lire. Ora io non ho la conversione di 20 lire di allora a valori di oggi, ma credo che fosse una cifra abbastanza alta, adeguata alle finanze dei vari baroni, conti, marchesi, avvocati, deputati che costituivano il corpo sociale. Ma la cosa più divertente è l’art. 17 nel quale si stabiliva che doveva essere tenuto obbligatoriamente un pranzo sociale due volte all’anno, a giugno e a dicembre, ed il cui costo non doveva superare le 10 lire.

Inizialmente quindi il Club Alpino era solo una Società con sede in Torino, solo dopo sono nate alcune Succursali, cito Aosta nel 1866 e Varallo Sesia nel 1867, ma sempre tutte facenti parte integrante della Sede di Torino e senza autonomia propria. Ma ecco che nel 1868, con la Capitale trasferita a Firenze, nasce un fatto nuovo. Il primo luglio 1868, in una riunione preliminare dei promotori della Sede di Firenze, il prof. Igino Cocchi esprimeva “…il concetto che reputava il più conveniente per l’istituzione del Club Alpino in Firenze come in altre cospicue città del Regno, di considerare cioè il Club diviso in Sezioni aventi ciascuna la sua Direzione Locale ..”. Ovviamente questa proposta suscitò scalpore ed ampia discussione, ma nel febbraio 1869 venivano definitivamente approvati i Regolamenti delle Sedi di Firenze e di Agordo nei quali si riconosceva il principio di vita propria e amministrazione autonoma delle due nuove Sedi. In particolare, il Regolamento della Sede di Firenze, nei suoi principi fondamentali, fu considerato il modello per tutte le Sedi che sarebbero nate in seguito. Da tenere presente che la dicitura “Sede” fu cambiata in “Sezione” solo nel 1872. Le Sedi avevano ottenuto la loro autonomia, ma il Club Alpino si identificava ancora con la Sede di Torino ed è solo con le modifiche del 1875 allo Statuto che nasce una “…Sede Centrale per occuparsi delle cose di interesse generale del Club Alpino …”, sempre con sede a Torino, ma separata dalla Sezione di Torino che diventa così una Sezione come tutte le altre, l’Assemblea dei Soci viene sostituita dall’Assemblea dei delegati ed il Club Alpino diventa “Italiano”. E qui ancora una notizia interessantissima per la quale lascio a voi i commenti. L’art. 3 del nuovo Statuto dice testualmente: “le donne possono fare parte dell’Associazione”.

Le modifiche allo Statuto ed alla organizzazione del Club sono state moltissime e raccontarle tutte vorrebbe dire impiegare anche noi 150 anni, quindi citerò solo quelle più significative. Nel 1921 viene introdotto il concetto, ancora oggi in vigore, della durata triennale delle cariche sociali a livello nazionale con possibilità di un solo rinnovo consecutivo; nel 1926 il Club passa sotto il controllo del CONI; nel 1931 la Sede Centrale viene trasferita a Roma, nasce come Sezione autonoma il Club Alpino Accademico. Ma proprio il CONI ci da una bella bastonata: al CAI è lasciata solo l’attività alpinistica mentre l’escursionismo viene affidato alla FIE, Federazione Italiana Escursionismo. Nel 1934 nascono i gruppi sciatori, ovvero gli Sci Club CAI, dal 1936 il Presidente Generale non sarà più eletto dai soci, ma nominato con decreto del Capo del Governo su proposta del Segretario del Partito Nazionale Fascista e per essere eletti a qualsiasi carica in seno al CAI si deve avere la tessera del Partito. Così rimarrà fino al 1943. Nel 1938 il Club Alpino cambia anche nome e diventa “Centro Alpinistico Italiano” (in omaggio alla voluta abolizione di parole tratte da lingue straniere: “club” era una di esse) e l’Assemblea dei delegati diventa “Adunata nazionale”; viene infine concluso un accordo fra il CAI e la GIL (Gioventù Italiana del Littorio) per l’inquadramento nella GIL di tutta la gioventù italiana praticante l’alpinismo. Questo potrebbe anche essere considerato come il primo atto di nascita dell’Alpinismo Giovanile.

Rivista
Rivista Mensile del 1933 (collezione R. Masoni)

.A questo punto occorre inserire una riflessione su un principio ancora oggi di importanza fondamentale e che invece riceve poca attenzione, perdendoci spesso in sterili discussioni su macro aree nord-sud, portavoce, beghe e gelosie varie. Per giustificare l’inquadramento nel CONI (e togliere autonomia ai soci) il fascismo dette al CAI una impronta sportiva, cercando di assimilare l’alpinismo allo sport. A tale scopo modificò l’art. 1 dello Statuto. Quello originale recitava: “Il CAI… ha per iscopo di far conoscere le montagne, più precisamente quelle italiane, e di agevolarvi le escursioni, le salite e le esplorazioni scientifiche”. Per assimilarlo alle associazioni sportive impose il testo che è tuttora vigente: e cioè “Il CAI…. ha per iscopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale”. La formulazione stravolge l’iniziale richiamo alla “conoscenza” come veicolo della frequentazione.

Infatti:

– indica come scopo prioritario “l’alpinismo in ogni sua manifestazione”. In qualche misura la prestazione, la tecnica che consente di ottenerla e l’apertura allo sport competitivo (specie con gli Sci Club). Attività competitiva che è stata abbandonata nel dopoguerra, ma che è rimasta presente sottotraccia facendo affiorare non di rado rigide posizioni tecnicistiche;

– introduce il concetto di ambiente “naturale”. Cosa significa “naturale”? Quello primigenio?. In verità l’ambiente è quello che abbiamo ereditato coi segni dell’uomo, la cultura che l’ha prodotto, il legame uomo-montagna, la vivibilità “compatibile”. Il concetto di ambiente naturale, anche non volendo, alimenta l’idea di un territorio imbalsamato (idea che ha prodotto non pochi danni anche dentro le nostre TAM) e si contrappone al recupero e alla conoscenza dei processi che hanno formato l’ambiente montano ereditato e che vogliamo tutelare. Di fatto si contrappone al concetto di sviluppo compatibile.

C’è una proposta dell’ex presidente Salsa, apparsa su Lo Scarpone n. 10 / 2000, pag. 3 e recentemente dallo stesso Salsa riproposta: E cioè: Il CAI … quale libera associazione nazionale, ha per finalità la diffusione della conoscenza della montagna attraverso lo studio e la tutela del suo ambiente per una consapevole promozione dell’alpinismo in ogni sua manifestazione”. Questa proposta non è soltanto più coerente con le origini, a mio avviso ripara il vulnus che fu prodotto dalla dittatura per stravolgere il CAI e indica la nostra missione nel terzo millennio perché:

– propone la frequentazione “consapevole” della montagna e un alpinismo della preparazione e della sicurezza, ben diverso dal gesto sportivo puro e semplice. Un alpinismo che non è quello delle agenzie, degli organizzatori di emozioni, quello mercificato e che si fa con l’elicottero alle spalle;

– definisce il nostro ruolo di associazione antagonista alla cultura della consumazione del territorio montano a fini commerciali, antagonista alla “non cultura” di una frequentazione che parifica la montagna a un non luogo, ad un divertimentificio o comunque ad un luogo dove semplicemente ex correre (cioè uscire fuori), un territorio senza storia, senza valori e tradizioni, senza l’uomo che lo ha formato e a cui appartenere. Non si può tutelare la montagna e difenderla dai processi e dagli interessi che la sconvolgono imbracciando l’idea di fermarla nel tempo, ridurla di fatto a museo o luogo della nostalgia.

– precisa la nostra concezione ambientalista come “conoscenza e studio per tutelare”, cioè la cultura che può portare al CAI energie nuove anche offrendo ai giovani la missione di tutelare con valori antichi il patrimonio comune dell’oggi;

– dà motivazioni e nobiltà, ma anche spazio sociale, al nostro volontariato, che è sempre più un volontariato di qualità, di promozione e tutela del territorio, di valorizzazione della sua cultura. Il volontariato, per crescere, ha bisogno di valori. Abbiamo grande considerazione per il professionismo, ma vogliamo fondare il sodalizio sulla professionalità e sul valore della cordata.

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Nel 1939 viene fatta la modifica all’art. 12, e qui scusatemi se ci metto la mia valutazione personale: questa è una modifica vergognosa per la quale non mi risulta che il CAI abbia mai chiesto scusa. Eccola: “I soci del CAI debbono esclusivamente appartenere alla razza ariana”. Da citare la circolare del generale Vaccaio, segretario del CONI, (pensate, una circolare del 1943, con tutti i guai della guerra in corso!) che imponeva di non usare più la parola “seduta” per indicare le riunioni dei vari organi centrali, ma di usare il termine “rapporto”.

La parola “seduta” era considerato troppo molle e non in linea con lo stile fascista! Nel 1945, finita la guerra, si nomina un Commissario per raccattare i pezzi, la Sede legale viene trasferita a Milano, il CAI riprende il nome di Club e viene preparato il nuovo Statuto, ripartendo da quello del 1926 (salvo che per l’art. 1 che rimane nella formulazione fascista). Lo Statuto sarà approvato definitivamente il 9 marzo 1947 dall’Assemblea generale a Torino nella quale si tornerà anche all’elezione diretta del Presidente nazionale da parte dei delegati. Ed è stato Bartolomeo Figari il primo Presidente diciamo così dell’era moderna.

Nel 1963 arriva la legge n. 91 del 26 gennaio che riconosce ufficialmente il Club Alpino Italiano dotandolo di personalità giuridica come Ente pubblico (con le Sezioni come associazioni private) ed affidandogli le seguenti funzioni:

– assumere adeguate iniziative tecniche per la prevenzione degli infortuni nell’esercizio dell’alpinismo (la Scuole);

– provvedere al soccorso degli alpinisti ed escursionisti infortunati o pericolanti, nonché al recupero dei caduti (il Soccorso Alpino);

– curare la manutenzione delle attrezzature alpinistiche (vie ferrate) e dei sentieri;

– mantenere in efficienza il complesso dei rifugi.

Dal 1947 ad oggi le modifiche all’organizzazione CAI ed allo Statuto sono state molte, ma farne l’elenco al solito richiederebbe moltissimo tempo, per di più siamo oggi in una fase di transizione e di discussione assai accesa. Tutti voi siete al corrente delle polemiche suscitate dalle modifiche, più volte cambiate, alla struttura delle Commissioni Centrali in generale ed in particolare a quella di Escursionismo, polemiche poi esplose all’ultima Assemblea nazionale dei delegati a Riva del Garda il 22 e 23 maggio di quest’anno.

Dopo le modifiche imposte dal Governo e cioè diminuzione dei componenti il Comitato di Presidenza da 7 a 5, limitazione a sole 3 riunioni all’anno del Consiglio Centrale e la probabile ulteriore imposizione di diminuzione anche in questo dagli attuali 19 consiglieri a 15 o forse 12 , nonché la riduzione del numero di componenti degli organi tecnici (o del numero delle commissioni) la questione importante da decidere è “CAI pubblico” o “CAI privato” con la valutazione dei relativi pro e contro.

Mi limiterò quindi a citare solo le modifiche entrate in vigore con l’ultimo statuto del 2005 che ci riguardano più direttamente. Sono stati istituiti i Raggruppamenti Regionali delle Sezioni, detti comunemente GR, per adeguarsi, in certo modo, alle modifiche, anche esse in senso regionale, dello Stato Italiano, lasciando alla Sede Centrale il compito di tenere i contatti con gli Enti nazionali e di promuovere le direttive generali del CAI.

I compiti dei GR, tramite il Presidente Regionale ed il suo Comitato Direttivo (CDR), sono il coordinamento ed il controllo dell’attività delle Sezioni che lo compongono e degli organi tecnici periferici, limitatamente agli indirizzi politici e non tecnici, e la cura dei rapporti con gli Enti pubblici locali: la Regione, le Province, i Parchi, le Comunità Montane. In particolare il Presidente Regionale è l’unico legale rappresentante del CAI nella Regione e pertanto qualsiasi accordo, convenzione o altro, stipulato con gli Enti prima elencati deve obbligatoriamente avere la sua firma per essere valido ed operativo.

Chiudo qui, ringraziando i Lettori della Loro attenzione.

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