Gennaio 2013 – Cronaca di una giornata con qualche piacevole sorpresa
La Scuola Piaz ha compiuto un aggiornamento per i propri istruttori, più alcuni ospiti, in due sessioni il 27 ottobre ed il 10 novembre 2012, alla Torre di Padova in tema di tecniche di assicurazione ed arresto della caduta. Sono state effettuate le prove canoniche di resistenza dei materiali (corde, cordini, fettucce, moschettoni) e di tenuta del grave da parte dell’operatore. Le stesse prove di tenuta del volo poi sono state fatte per così dire dal vivo, con il lancio nel vuoto dell’alpinista ed il compagno alla sosta a trattenere la caduta.
Molti concetti già conosciuti hanno trovato puntuale conferma, però con nuova consapevolezza, non più solo teorica. Le prove di resistenza dei materiali sono quelle che hanno riservato piacevoli sorprese, sfatando qualche mito di troppo. Le prove sono state effettuate utilizzando spezzoni di vecchie corde di 150 cm, prima lasciando cadere il peso con fattore di caduta 1 e poi 2 (1), quest’ultimo caso dà luogo alla peggior condizione in cui può trovarsi il primo di cordata in caso di volo (2). Lo spezzone testato con fattore di caduta 2 si è rotto puntualmente alla seconda, al più alla terza prova, secondo la vetustà della corda. Durante le prove con f.c. 2 è stato applicato all’ancoraggio prima un anello di vecchia fettuccia, neppure larga, che ha retto la caduta sia applicato in doppio (4 rami), sia applicato con due soli rami; la fettuccia è stata applicata all’ancoraggio con nodo a strozzo. È noto nell’anello di cordino (o fettuccia) il nodo di chiusura rappresenta il punto di debolezza, perché riduce la resistenza del materiale del 50%; non è un caso, se in molte prove la rottura del materiale si è verificata proprio sul nodo (3). Il nodo a strozzo, proprio perché si stringe su se stesso, creando una forte compressione sul cordino (o fettuccia), riduce ulteriormente la resistenza del materiale e così la capacità di tenuta.
Con queste premesse ci aspettavamo di vedere schiantare la vecchia fettuccia, quasi fosse uno spaghino da pacchi postali alla prima prova; ebbene la nostra vecchia fettuccia ha retto la caduta anche passata all’ancoraggio con nodo a strozzo ed ha ceduto solo dopo diverse prove. Lo stesso sperimento è stato eseguito, questa volta utilizzando un vecchio cordino di 6 mm. sempre applicato all’ancoraggio con nodo a strozzo. Anche questo cordino, contrariamente alle aspettative, ha retto allo sforzo delle prime prove. Implicazione più prossima di queste osservazioni è che certi rinvii che sono applicati agli ancoraggi durante la progressione solo per motivi psicologici (come si suol dire), in realtà sono molto più efficaci di quanto non si creda. Ciò non autorizza ad affrontare una via attrezzati solo di vecchio materiale, per giunta sottodimensionato; però siamo autorizzati ad affermare che anche un cordino un po’ sottile ( Ø 6 mm.) costituisce una valida assicurazione, in mancanza di meglio (4).
La serie delle prove è proseguita, utilizzando un cordino di kevlar. Si legge nei manuali che il cordino di kevlar si annoda male, nel senso che i correnti (5) tendono a scivolare ed a sfilarsi; l’anello si apre con le conseguenze che ben possiamo immaginare. Sempre sui manuali si avverte che la chiusura di un anello di kevlar dev’essere eseguita solo con doppio, addirittura triplo inglese. Francamente mi sono sempre chiesto cosa aggiunga il triplo inglese alla tenuta del nodo rispetto al doppio inglese, a condizione che i correnti siano sufficientemente lunghi; parafrasando il noto detto dei marinai, “poca corda, poco alpinista”. Ad ogni modo sembra assolutamente escluso poter chiudere un anello di kevlar con nodo semplice a doppino, ovvero annodando su se stessi due correnti appaiati. In sede di prove abbiamo applicato all’ancoraggio un cordino di kevlar chiuso nel modo or detto, con correnti sufficientemente lunghi (circa 15 cm) e poi testato con f.c. 2. Il cordino non si è aperto, la caduta è stata trattenuta, solo che poi il nodo si è assuccato in modo irreversibile. Il temuto fenomeno di scorrimento dei correnti fino a sfilarsi dal nodo non si è verificato. Questa constatazione ha una notevole valenza pratica. Non è raro trovare lungo la via delle clessidre che possono essere sfruttate solo passando il cordino scempio, che poi va chiuso, magari con una sola mano; lo stesso può ripetersi nel caso di certi chiodi troppo affogati nelle fessure. In questi casi eseguire il doppio o triplo inglese non è pensabile; allora non si esiti a chiudere l’anello col nodo semplice a doppino, l’unico che può essere eseguito con una sola mano, avendo cura di lasciare lunghi correnti.
Da molti anni si assiste alla corsa all’alleggerimento del materiale. Il fenomeno riguarda in particolare le corde; ormai si fatica a riconoscere a colpo d’occhio una corda intera da una mezza corda, magari di qualche anno fa. I moschettoni non sono stati risparmiati. Il miglioramento dei materiali e delle tecniche di costruzione hanno consentito questi risultati, senz’altro vantaggiosi, ma a mio avviso un po’ ha contribuito un occhio di particolare attenzione dei costruttori verso l’arrampicata in falesia, ove il tema della catena di assicurazione e della sua efficacia è di sicuro molto meno assillante rispetto alla progressione in montagna. Durante le prove abbiamo applicato all’ancoraggio un vecchio moschettone a “D” lasciato aperto, sollecitato con f.c. 2. Non si è rotto e – meraviglia – neppure si è deformato.
La stessa prova è stata ripetuta con moschettone moderno alleggerito: si è rotto subito. La differenza di peso fra un vecchio moschettone ed uno moderno alleggerito è dell’ordine di qualche decina di grammi (in media circa 20-25). La dotazione normale di moschettoni dell’alpinista in montagna è di circa 16 – 20 pezzi fra rinvii preparati e moschettoni liberi. La differenza di peso fra l’attrezzatura moderna e quella meno recente più pesa complessivamente è di circa 500 g. (a prescindere dai moschettoni a ghiera). Non si può definire questo aggravio intollerabile; basta una tavoletta di cioccolata e qualche confezione di succhini di frutta in più per annullare il vantaggio in termini di peso ottenuto con i moschettoni alleggeriti. Ora dobbiamo considerare che il moschettone normale (non a ghiera) tende ad aprirsi, se urta sulla parete rocciosa (6); è di immediata evidenza che un vecchio moschettone che trattiene la caduta anche da aperto è molto più sicuro di uno alleggerito che invece si schianta.
In conclusione l’attrezzatura leggera va bene in falesia, o nella progressione su ghiacciaio, situazioni nelle quali, in caso di caduta, non si avranno mai forti forze in gioco, alte sollecitazioni del materiale; situazioni insomma che rimangono dentro ampi margini di scurezza. In montagna, ove i margini di sicurezza sono molto più esigui, è preferibile dotarsi di moschettoni robusti.
Prima di chiudere queste brevi note, non posso tralasciare un accenno all’assicurazione effettuata mediante il c.d. nodo mezzo barcaiolo (che non è propriamente un nodo, bensì un freno). Le prove di tenuta del volo dimostrano che il nodo mezzo barcaiolo è fin troppo efficiente, pertanto i valori della forza di arresto che si registrano con questo freno sono sempre piuttosto elevati con un scorrimento contenuto della corda. Con freni meccanici (secchiello – tuber – stick) i valori della forza di arresto sono molto più bassi, ma in compenso maggiore è lo scorrimento della corda nel freno.
L’adozione di un tipo di assicurazione, invece di un’altra e di conseguenza l’adozione di questo o di quel freno, dipende da molti fattori e nessuna scelta può dirsi in assoluto migliore di tutte le altre. Ad ogni situazione corrisponde la tecnica di assicurazione più idonea e quindi la necessità di applicare un dato tipo di freno.
Fatto il doveroso ossequio a questo principio, nel leggere certe relazioni sul tema mi viene il sospetto che serpeggi fra gli alpinisti una tendenza ad abbandonare il nodo mezzo barcaiolo per i freni meccanici. Ho sentito affermare che nei corsi si continua ad impiegare il nodo mezzo barcaiolo solo perché è il più semplice da insegnare; come dire che al crescere delle cognizioni tecniche e dell’esperienza il nodo mezzo barcaiolo si può anche mettere in soffitta. Andiamoci piano ad abbandonare il buon vecchio nodo mezzo barcaiolo. Al di là degli indubbi pregi in termini di efficacia, a mio avviso non si possono trascurare altri pregi, per così dire accessori.
Primo, il nodo mezzo barcaiolo non si rischia di lasciarlo a casa o di perderlo in parete. Secondo, non pesa. Terzo, ma non per ultimo, il suo uso è intuitivo, al contrario dei freni meccanici, che se non sono applicati correttamente ed usati altrettanto bene, agiscono come una carrucola ed allora addio effetto frenante. Gli unici veri limiti all’uso del nodo mezzo barcaiolo si hanno quando si arrampica con due corde che si passano alternativamente agli ancoraggi e quando le corde sono ghiacciate. In questi due casi non si può fare a meno di utilizzare un freno meccanico.
Note: (1) Il fattore di caduta (f.c.) è il rapporto fra la lunghezza del volo ed il tratto di corda che deve sopportare la caduta. Un volo di due metri trattenuto da un metro di corda dà luogo ad f.c. 2. Il concetto ha valore e pratica rilevanza a corda bloccata; il f.c. non entra in gioco, se alla corda è applicato un freno, che consente a questa di scorrere. (2) Valori di f.c. maggiori di due si possono registrare solo nelle ferrate, ove l’alpinista è collegato al cavo della ferrata da un breve spezzone di corda di poco superiore al metro, mentre il volo può essere anche di alcuni metri (dipende da quanto è lontano il fittone sottostante). Per questo motivo in ferrata il dissipatore è irrinunciabile al fine di riportare il f.c. entro valori tollerabili per il materiale. (3) Il carico di rottura di un cordino si calcola con la formula d2x20, ove d è il diametro del cordino e 20 è un coefficiente fisso. Teoricamente un anello di cordino, presentando due rami, raddoppia la propria tenuta, tuttavia la presenza del nodo la riduce della metà; quindi un anello di cordino di 6 mm darà questo valore: d2x20x2 = 720 dN. (4) Un’avvertenza s’impone. Deve essere chiaro che il nodo a strozzo può essere eseguito solo su ancoraggi che non presentano spigoli vivi dall’effetto tranciante. Il nodo a strozzo si può applicare sul moschettone, sulla ferla, su chiodo a campanella; mai sulla sottile piastrina di uno spit, che agisce sul cordino come una lama tagliente. (5) Si dice corrente la parte finale della corda che è mossa per formare il nodo; dormiente è la parte generalmente più lunga della corda che resta ferma, intorno alla quale è formato il nodo. (6) L’apertura si ha per effetto della forza di inerzia che si applica al braccio mobile che chiude il moschettone (per verificare l’effetto è sufficiente battere con decisione il moschettone dalla parte fissa sul palmo della mano). In commercio esistono moschettoni che sono chiusi con un anello applicato in torsione che produce un effetto molla, che chiude il moschettone. L’anello ha molta meno massa del braccio mobile che chiude i normali moschettoni, pertanto non si apre quando urta sulla parete (ripetere la prova dell’urto sul palmo della mano).