Gennaio 2013 – Me lo dovevo aspettare
Prima dell’estate, quando vedo che il Gruppo Alpinistico organizza la gita sezionale di settembre al Catinaccio, mi viene la voglia: sono un fissato per la storia di Tita Piaz, sto preparando la serata di novembre, in cui ne avrei raccontato la vita, e lui aveva fatto proprio sul Catinaccio la sua prima salita; è previsto il pernottamento al rifugio Re Alberto, costruito da Tita Piaz in persona … insomma, non posso mancare! Però non so arrampicare, come si fa? D’altra parte, il Catinaccio, alto 2980 metri, è una delle cime dolomitiche più importanti dal punto di vista storico, dato che fu salita già nel 1874; nel gruppo, quella che raggiunge la massima altezza è l’Antermoia, meno interessante dal punto di vista alpinistico visto che ci si arriva con la ferrata …. e io ci sono già stato.
Il 3 settembre, appena tornato dalle ferie, inizio a domandare, mi rivolgo a Aldo, a Roberto, che ci sono già stati: secondo te, ce la posso fare? Ci vorranno le scarpette da arrampicata? Non è chiaro perché abbiano fiducia in me che non so ci so fare per niente, però mi incoraggiano, il terzo grado è alla tua portata e ai piedi è meglio mettersi le scarpe “da avvicinamento”. Invece, alla riunione degli iscritti con presentazione del programma della gita, il martedì in Sezione, vedo da una parte un gruppo di ragazzi dall’aria agguerrita, sento parlare di partire prima (oppure venire con l’auto propria) per fare anche delle vie alla Torri del Vajolet … allora, dico io, devo immaginarmelo che non è così facile come dicevano i miei maestri: terzo grado, e che sarà mai ! Però io non ho mai arrampicato sul serio in montagna.
A questa serata ci sono anche dei grandi rientri, Lucia e Vinicio, oltre a alcuni dei soliti compagni di gite, Alessandro, Mary, Stefano; alla fine, mi viene affidata una corda di colore rosa da portare nello zaino; devo mettere anche i miei moschettoni, tutti con la ghiera, i tre cordini e la piastrina per scendere. Ma veniamo al sabato mattina, alle 5 e 30 al Gignoro arriva il nostro amico Antonio, l’ottimo autista della Linea, ci conosciamo da anni anche per le gite sulla neve. L’obiettivo è arrivare entro mezzogiorno a Malga Frommer, visto che dopo ci sarà un’ora di sosta della seggiovia; nonostante qualche contrattempo iniziale (qualcuno ha dimenticato a casa gli scarponi) ce la facciamo e alle 11 e 45 il bus spenge il motore nel parcheggio alla stazione a valle dell’impianto, fra il lago di Carezza e il passo Nigra. Qualcuno ha un po’ di ansia per la salita in seggiovia, ma si va in due e ci si tranquillizza.
Al rifugio Fronza alle Coronelle, c’è il tempo di rifocillarsi al sole, fare qualche foto, il gruppo del Catinaccio ci offre la bastionata ovest con tutta la sua potenza; e iniziare a mettersi imbracatura e casco perché tutti (anche la gita B) facciamo la ferrata Santner in salita; questa è, nella prima parte, un normale sentiero in cengia ma poi, nell’ultima ora di salita, diventa una ferrata vera, in cui la cosa più antipatica è che gli appoggi per i piedi sono lucidi come gli scalini di una chiesa antica e la mescola delle scarpe non fa tanta presa. Piero dice che questi sono passaggi di primo grado e allora io fo una proporzione con quello che ci aspetta domani … poi c’è da dire che il cavo d’acciaio è messo secondo strani criteri, a mio parere manca dove sarebbe più utile e c’è un canale in cui si sale benissimo sulla destra e invece è attrezzata la parte sinistra, più difficile. In ogni modo, ci mettiamo tre ore invece delle previste 2 e 15, ma siamo una bella fila di 25 persone. Usciamo sul Passo Santner a 2700 metri, con vista spettacolare sul passo Costalunga e il Latemar, nella conca del Gartl alla presenza della Croda di Re Laurino; per vedere le torri del Vajolet bisogna affacciarsi oltre a una gobba sassosa. Mentre si aspetta l’arrivo di tutto il gruppo, rilassati al sole, vediamo tre persone, attrezzate in maniera sommaria (pantaloni corti e niente imbracatura) che pretendono di portare un cane lungo la ferrata in discesa; mi sembra che l’animale sia più ragionevole di loro, infatti si rifiuta di scendere; c’è addirittura un tentativo di mettere il cane dentro uno degli zaini, fino a che si rassegnano, risalgono e si decidono a fare il giro dall’altra parte … per fortuna.
Ancora dieci passi e appaiono di fronte a noi le torri del Vajolet e più in basso, nell’ombra, il rifugio e il fondale del laghetto, completamente prosciugato. Le torri ci affascinano tutti, le parti alte sono ancora al sole e avvicinandosi vediamo diverse microscopiche cordate, in vetta, in discesa … sappiamo che fra questi ci sono anche i con-soci di Firenze che sono partiti più presto. Infatti, più tardi, dalla terrazza del rifugio, vedo scendere a valle un gruppo di sei persone, penso che potrebbero essere i nostri ma non li vedo bene; mi toglie ogni dubbio un grido: «chi arriva ultimo è buco!». Scusate ma ho perso il segno … torniamo indietro, alle cinque e mezzo: sulla nostra destra, ecco la parete ovest del Catinaccio con il famoso colatoio in cui sale la via normale di salita, la più facile di tutti i versanti; lungo la discesa, Stefano e io ci soffermiamo, un po’ perplessi, a scrutare e a pensare se saremo capaci … in silenzio ci scambiamo uno sguardo e decidiamo che l’unica è provare.
Eccoci al rifugio Re Alberto, senza scarpe andiamo su, per lavarsi c’è un solo bagno e l’acqua fredda e allora … ci si laverà per bene a Firenze! Scendiamo in sala a bere qualcosa in attesa della cena, mi siedo a un tavolo con gli amici sci-alpinisti e con un alpinista locale, Mario, molto simpatico; intorno a quel tavolo mi fanno morire dal ridere. Improvvisamente è ora di cena e allo stesso tavolo si mangia, con qualche discussione perché non si trova chi aveva ordinato la polenta senza funghi e questo pare irritare molto la ragazza che serve a tavola. Durante la cena, il nostro capo-gita Aldo organizza le cordate per domani: con lui, Stefano e Andrea; con Gianfranco, io e l’altro Sergio; Vanni e Francesco, il Pima e Curzio; poi ci sono Vittorio e Gigi, mentre Marina e Sergio e altri sono dirottati sulla via parallela. Alle 8 e mezzo esco per telefonare, salgo alla selletta nel buio; è bello sentire da Firenze la voce di Cristina, si parla a lungo, nella notte senza luna le tre torri sono un’ombra nera sullo sfondo del cielo stellato … torno dentro, alle 10 siamo tutti sotto le coperte.
Domenica mattina, alle 6,30 in camerata entra la luce, qualcuno comincia a muoversi, alle 7 siamo tutti alzati. Lavaggio veloce, colazione da rifugio con pane e marmellata, stranamente siamo tutti un po’ silenziosi; alla spicciolata sgomberiamo le stanze, ci prepariamo e ci avviamo, a piccoli gruppi, verso il passo Santner, non senza ver salutato gli amici della «gita B», i quali stanno per avviarsi in discesa verso i rifugi Vajolet e Preuss. Dieci minuti di salita chiacchierando e sul ghiaione alla base della parete ci troviamo in 6, perché altri 4 arrivano più tardi e altre due cordate sono state dirottate come ho già detto; ci salutiamo dicendo che ci vedremo in vetta. Mentre ci imbrachiamo, di nuovo penso di non farcela e il fatto che il tratto più difficile sia all’inizio mi consola … alla peggio, rinuncio subito e gli altri due fanno cordata normale. Diamo la precedenza a una coppia più giovane di noi, la ragazza sale per prima e, sotto i miei occhi, cerca con poca sicurezza gli appigli sul primo passaggio … e io continuo a dubitare di me stesso; in realtà, la ragazza è brava, come verificheremo dopo. Aldo va per primo, la cordata con Gianfranco è la seconda e ho ancora tempo per cercare di non considerare i miei propositi di defezione: ma sì, meglio non pensare a niente e, quando è il momento, andare. Piccolo particolare, abbiamo due corde di lunghezza disuguale, la «rosa» è 55 metri; all’inizio questo è una noia, ma poi si rivelerà persino utile, in modo che Sergio e io saliremo insieme a poca distanza e il capo-cordata recupererà le due corde insieme. Gianfranco sale regolarmente, arriva alla prima sosta, scomparendo alla vista sulla destra; quando ci chiama perché ha attrezzato la sosta e recuperato gli ultimi metri di corda, tocca a me e vado, mi accorgo subito che le mie vecchie scarpe Salomon fanno presa bene anche se gli appoggi all’inizio sono lisciati. La roccia è gelata, sembra di mettere le mani su blocchi di ghiaccio, ma appoggio bene i piedi e spingo con le gambe, come insegnano ai corsi; dopo quattro metri supero la strozzatura, poi il camino si allarga e si appoggia, le difficoltà diminuiscono obiettivamente e io mi sento già più a mio agio. La prima sosta è ancora dentro il canale, mentre aspettiamo salgono a comando alternato Vittorio e Gigi, successivamente occorre uscire sulla parete su una “fessura” a sinistra e qui ci sono 15 metri di III+, ma io sento che la roccia è solida e che me la sto cavando; mi sento più sicuro qui che in ferrata e poi, tanto io non so che differenza c’è fra il secondo grado e il terzo! La relazione dice che la via, a questo punto, rientra nel camino, invece i nostri continuano in parete e poi c’è una sosta in cui ci troviamo in tre, io, l’altro Sergio e Vittorio; qui sento che mi raffreddo, per fortuna ho seguito il consiglio di mettere nelle tasche un paio di guanti di “pile”, ma intanto i polpacci non riposano essendo sempre in tensione.
Si sale ancora, tendendo a destra e il canale lo vediamo vicino; ma non lo tocchiamo, restiamo sulla sua sinistra, verso il sole … già perché ora non siamo più nell’ombra, avvicinandosi alla cresta il sole ci illumina e sentiamo il vento. Di nuovo ci troviamo in tre alla sosta, Gigi dice che ormai, con il quarto tiro, le difficoltà sono finite e c’è solo da salire in cresta; ma io non la penso così, a mio parere la cresta è più pericolosa dell’arrampicata. Alla partenza Aldo ce l’aveva detto, la cresta è piuttosto aerea, ma per fortuna noi siamo il CAI, la sicurezza prima di tutto, e viene deciso di restare legati e salire di conserva, lo so che non è sicuro al 100% ma per le mie paure è già meglio. Siamo usciti al centro della grande conca rocciosa che si vede da lontano, già dalla valle del Gardeccia il Catinaccio ha questa fisionomia inconfondibile, appunto a grande catino. Bene, a un piccolo intaglio di questa cresta siamo all’uscita dell’altra via, quella che stanno percorrendo Marina e Sergio che infatti vediamo spuntare dal basso, piuttosto infreddoliti.
Avevo confessato a Vittorio che mi fa un po’ effetto il vuoto, e lui mi invita ad affacciarmi ora, io mi assicuro e guardo di sotto, è una vista che mozza effettivamente il fiato sul Gartl che è 180 metri sotto in verticale e sulla Croda di Re Laurino, di fronte a noi e più bassa, in controsole, una bellissima serie di cime, una vista terribile e affascinante. Subito sopra c’è un’altra paretina da affrontare, otto metri di salita, occorre riavvicinarsi e qui apprezzo il fatto di avere le braccia lunghe, infatti un bell’appiglio perfetto per la mia mano sinistra è a novanta centimetri e ci arrivo preciso … qui ormai le difficoltà sono finite, si tratta di camminare in cresta per ancora poche decine di passi e siamo alla croce di vetta.
Sono le 13 e 30 e non c’è tempo neanche per farsi una bella foto insieme, fra me penso alla festa dei 50 anni di alpinismo di Tita Piaz, quando la sua famiglia e gli amici salirono con lui per questa via, lui aveva 68 anni e nelle foto si vede che è commosso; ma come facevano a entrarci tutti su queste poche pietre in cima? È vero che a quei tempi non c’era la croce … intorno a noi il panorama è di una bellezza che non si può descrivere, da un lato si vede la pianura di Bolzano, laggiù le alpi del Trentino, verso est le pale di San Martino, le Tofane e l’Antelao, più vicino il Larsec , l’Antermoia. Che spettacolo!
Ma è tardi e bisogna subito avviarsi per la discesa, sempre “di conserva”, la paretina di prima la scendiamo in doppia, e poi c’è la lunga discesa della cresta. Lo sapete già che io temo molto la cresta, cerco di stare un metro sotto il filo ma non sempre è possibile; riesco a separare le due cose, da un lato il timore di ruzzolare laggiù, dall’altro la razionalità di mettere sempre i piedi con grande attenzione. Mentre noi scendiamo, ci incrociamo con le altre due cordate dei nostri, c’è anche un infortunato perché Vanni si è escoriato una caviglia ma poteva andare peggio! A un certo punto si possono vedere sei o addirittura otto corde, fra salita e discesa! Con tutta questa prudenza ci vuole un bel po’ di tempo, ma finalmente siamo arrivati all’intaglio da cui siamo saliti e qui c’è il primo anello per calarsi in doppia.
Ci caliamo e questa è una fase molto rilassata, non sento più la preoccupazione di prima e anzi mi diverto; non so come, mi sono fatto un minuscolo taglio a un mignolo e il sangue non smette di uscire, così sporco i moschettoni. Nello scendere, portiamo giù le corde degli altri per andare avanti più spediti, in ogni modo ci vuole tempo; dopo la prima doppia che è breve, le altre due sono di oltre 50 metri; ora il sole ci scalda. Sono le quattro e ormai è chiaro che siamo già in ritardo clamoroso, ma per non farsi mancare niente succede che l’ultima corda si impiglia nelle rocce quindici metri sopra di noi; tentiamo in tutte le maniere, ma non c’è verso, Aldo è costretto a ri-legarsi e salire di nuovo, mentre noi ci si disseta un po’ e si telefona alla moglie; io sono fiero di me, ho vinto le mie paure; ringrazio Gianfranco per la pazienza e Aldo per i consigli.
Ora c’è da rifare la ferrata in discesa e quindi imbrago e casco vanno tenuti e non è possibile neanche spogliarsi nonostante che ormai sia un bel caldo. La ferrata alla rovescia non è comoda per niente, gli appoggi lucidi danno ancora più noia e mi sentivo più sicuro in cordata. In tutto ci mettiamo un paio di ore a rifare la “Santner” all’ingiù, con il caldo i piedi mi si gonfiano ma continuo ad apprezzare le scarpe che hanno fatto il loro dovere in salita. Già da lontano vediamo che la seggiovia è ferma e noi arriviamo al rifugio Fronza con quasi due ore di ritardo. Dal pullman ci telefonano gli altri che ci aspettano da quasi 4 ore, mentre il sole cala dietro le montagne noi non abbiamo tempo di ammirare il tramonto, tagliamo per la pista da sci cercando di recuperare e arriviamo al parcheggio alle 19 e 30; buttiamo gli zaini in fondo e Antonio parte subito verso il Passo Costalunga mentre noi «ultimi» cominciamo a togliere l’imbrago e le scarpe; notare che non facciamo la pipì da almeno dodici ore.
La sosta del bus arriva presto, a Trento scendiamo tutti per i 45 minuti obbligatori, poi il pullman riparte, l’autista spenge le luci e fila a 110 verso Firenze; entro in casa alle 1 e 45, spaventando le gatte che dormono tranquille.