“Ritorni” di Mariella Braccini

Gennaio 2009

Era un piccolo paese  allora: niente piste da sci e un pugno di case brunastre mezzo arrampicate su un pendìo. La strada principale saliva a sdrucciolo e disegnava una curva verso la piazza e potevi immaginartela bianca e ghiacciata di inverno che era una pena a salire e un pericolo a scendere, quando diventava una pista da slittino più che una strada. Le altre, le altre strade intendo, quelle del paese vecchio, erano poco più che vicoli, erano scalette di pietra che si arrampicavano tortuose fra i muri. Appena più in là c’erano le montagne e i pascoli verdi, bianchi di inverno. Le piste da sci, i ritrovi mondani, le strade per lo struscio erano un po’ più a valle, nel centro più importante, quello turistico, allora. Poi le cose cambiarono un po’: ma questo molti anni più tardi.
Lo zio aveva comprato una casina nel paese vecchio. Piccola e stretta sembrava la casina delle fate. O la casa di una streghina. Invece era piena di bambini, noi, che scorrazzavamo su e giù per la scaletta di legno a rischio di romperci il collo. Il camino era a sinistra, appena si entrava, subito dopo il finestrino, con lo scalino in pietra che lo  rialzava da terra e l’immancabile panca. Quando qualcuno aveva voglia, o veniva lo zio, o nelle sere umide di estate, si faceva il fuoco. E le fiamme guizzavano alte liberando le faville prima di rifugiarsi sotto la cenere grigia: sulla panca, o direttamente seduta sullo scalino, passavo ore a guardarle. Ed era d’inverno che il   camino diventava essenziale, il cuore pulsante della cucina, e anche se c’erano una stufa e la luce elettrica, la fonte della luce e del calore.
Dalla finestra della camera di sopra si vedevano i prati. Era la camera di noi bambini, ma anche di tutti se c’era posto. La finestra era piccola. Due letti a castello per quattro posti e il soffitto un po’ basso con le travi in legno a vista che facevano tanto montagna. Il tubo del camino, rivestito in muratura e dipinto di rosso, la riscaldava. D’inverno ci si spogliava alla svelta per il freddo, ed era una soddisfazione potersi raggomitolare sotto le coperte e guardare la finestra bianca di neve con la consapevolezza di essere protette dal maltempo e da qualcosa di altro. Ma io, di solito, ci andavo di estate. L’altra camera era poco usata. A piano terra, dietro la cucina, era separata da questa da una semplice tenda a fiori e stretta contro il fianco del monte. La finestrella si apriva direttamente su una parete di roccia e vi entrava pochissima luce. La stanza era umida, e, nonostante i due letti a castello, più che per dormire (solo se eravamo in molti) veniva usata per deposito di cibarie. Anni dopo lo zio avrebbe comprato anche  il fondo adiacente e ne avrebbe fatto un unico appartamento ma per me la casa di montagna è restata sempre quella: tre stanze e un bagnetto, finestre piccole e una scala di legno poco più che a pioli per andare di sopra. Ma questa è cronaca. La storia siamo noi, cioè le mie cugine (tre) e io, di conserva saltuaria, che sbarcavamo lì, d’estate, in vacanza. In quattro. A volte, poi, arrivavano le mamme, anche la mia, o il cugino grande a darci un’occhiata, ma di solito eravamo libere, sguinzagliate per un piccolo paese e i pascoli adiacenti con qualche puntata più in là. Pensare a noi, solo a noi, dalla mattina alla sera e relazionarci fra di noi e saperci amministrare nelle cose di tutti i giorni con l’aiuto e il controllo della cugina maggiore era un esercizio di indipendenza e di libertà. Il paese ci seguiva con occhio benigno. Ed era un ubriacatura di luce e di vitalità: i sandali con gli occhi, i calzoncini, i capelli corti: per un mese eravamo come ragazzini. La cugina grande no, lei no, era troppo grande e ci doveva badare, e forse si annoiava un po’ con noi piccole sempre intorno, ma a noi tre piccole era concesso, di sguinzagliarci, intendo.
A distanza di anni ho pochi ricordi, se non di caviglie graffiate, di lividi nei ginocchi e della volta che ci infilammo in una stalla particolarmente odorosa e la cugina grande ci tenne a distanza e ci rimproverò ben bene finche non ci fummo lavate a fondo: puzzavamo di bestie in maniera insopportabile, sembra… Ma avevamo ottenuto il privilegio di bere latte appena munto, ancora schiumoso e tiepido di mucca… devo dire che a me non piacque…Altre volte andavamo al caseificio: ci conoscevano e ci davano le mozzarelle appena fatte con quel latte, estratte dalla macchina. Le prendevamo in mano così, senza niente, ancora gocciolanti: anche la cugina minore che era la più attenta a questo tipo di cose. Le mordevi, ne incidevi e strappavi le fibre biancastre, ed erano così buone da diventare stucchevoli. Poi giocavamo a nascondino, e il nasconderci e il trovarci era un pretesto per correre e per farci le sorprese… Ci nascondevamo dietro i muri, i sassi, sotto i cespugli, ci riempivamo, almeno io, di bolle di ortica o altro..
Il verde dei pascoli è ancora nei miei occhi con i branchi di mucche brunastre o anche bianche e nere, con i ragazzini-vaccari scalzi che battevano sul dorso duro delle mucche il palmo aperto o anche un bastone per farle muovere più in fretta e intanto gridavano e salutavano. Un dialetto simile al napoletano per colore e accenti, incomprensibile per me come un’altra lingua nella sua versione stretta…
Le mucche davano appena segno di accorgersi di tutto quello schiamazzo: alzavano un poco la coda e lasciavano cadere grossi tocchi bruni. Ci guardavano con i grandi occhi fra vitrei e liquidi, senza astio e senza particolare interesse. Muovevano appena le orecchie. A me mettevano un po’ soggezione, così grandi, lente e con i gropponi maestosi, e poi c’era la possibilità di incontrare anche qualche toro, e mi chiedevo come facessero quei ragazzi a essere così disinvolti da colpirle.. Ma erano le loro mucche, se non altro affidate a loro…
Quando sono tornata nello stesso posto, molti anni dopo, le mucche non c’erano più e anche i pascoli, forse per l’età o per l’effetto-ricordo, mi sembrarono meno grandi e meno verdi.. In compenso il paese si era dilatato a dismisura e riempito di edifici nuovi al seguito dei pochi che già c’erano. L’arrivo degli zii, o di qualche altro adulto, limitava la pacchia. Ci dovevamo lavare di più, naturalmente, e mettere i calzini sotto i sandalini e magari anche la gonna. La cugina grande veniva rimproverata se qualcosa non era andato per il verso giusto ma anche noi più piccole: lei come responsabile e noi come insubordinate… I pasti si facevano più copiosi e regolari… cucinava la zia.. La casa veniva pulita più radicalmente… Si accentuava il lato mondano della vacanza a detrimento di quello selvaggio…. Infine si tornava a casa… Il verde e l’azzurro della montagna restavano alle nostre spalle e sbiadivano nel ricordo. Ma per me ne tornò il bianco accecante di neve intrecciato al ricordo recente dell’acqua mista al fango e alla nafta dell’alluvione.
4 Novembre 1966, l’Arno rompe gli argini e sommerge la città. Per tenermi lontana nel momento della ricostruzione i miei mi spediscono dagli zii.  E’ Natale e la famiglia (degli zii) si trasferisce in montagna: la stessa montagna dell’estate, ma ora è inverno e il verde è diventato bianco.
E’ l’inizio di una vacanza imprevista.
Nevicava. Io la neve la avevo vista a Firenze. Ed era sempre un impiccio, almeno così diceva la mamma e i grandi in generale: “Nevica! Speriamo che non attacchi!”  A me invece piaceva moltissimo e speravo sempre che attaccasse: ma era un evento raro. Di solito la strada restava semplicemente bagnata e i fiocchi, che cadevano o turbinavano, sembravano qualcosa di irreale, di non vero, perché subito ne spariva la traccia. Ah, si, restava sui tetti, ma si poteva immaginare che le tegole fossero bianche per scelta… Se attaccava invece tutto diventava bianco e i tram passavano più o meno ogni ora invece che all’orario solito, e lasciavano dietro di sé un solco scuro e umido in cui affiorava l’asfalto della strada. Il mondo si faceva di ovatta, e la mamma che ti veniva a prendere a scuola ti diceva: “Via, via, subito a casa!” come se ci fosse il coprifuoco, e nel tragitto da scuola a casa scoprivi che quell’ovatta era bagnata ed era già penetrata dentro le scarpe inadatte alla neve.
A meno che… a meno che non si andasse a fare a pallate. Allora non contava più se avevi i piedi bagnati (li avevi) e se ti facevano male le mani mal protette dai guantini di lana bagnati da subito anche loro. La neve non era più un agente ostile, per lo meno non solo, diventava un qualcosa di accessibile, di plasmabile purché si facesse in fretta (si scioglieva), qualcosa con cui potevi colpire per gioco senza fare male… Ed era un contatto con qualcosa di sconosciuto e di inedito, un misurarci tipo: ti piaccio, mi piaci.. E mentre le palle arrivavano da tutte le parti tu te ne stavi lì, imbambolata, senza capire all’inizio, e quelle si sfaldavano subito in cascatelle di neve.
Quella sera la neve turbinava sulla strada della  montagna. Bambina la guardavo affascinata da dietro i vetri della macchina guidata dallo zio. I fari estraevano il nevischio dal buio, lo accendevano di bianco: ogni singolo fiocco diventava una scheggia di luce e ce ne erano miriadi. Mentre guardavo pensavo che la neve cadendo seguisse il percorso di una ruota: non conoscevo il termine spirale. Ma andavamo dentro la spirale di neve, dentro il buio, curva dopo curva incontro alla nostra avventura. Era lo stesso paese, solo bianco: tetti, strade, alberi. I muri, i sassi scoperti  risaltavano bruniti per contrasto: non c’ero mai stata di inverno.
All’arrivo la casina era fredda: c’era da accendere, il fuoco, subito, da far guizzare le fiamme calde e vive che respingevano il freddo e il buio negli angoli… c’erano da rifare i letti… I lenzuoli erano umidi ma si riscaldavano presto al calore dei nostri corpi giovani.. Dormimmo nella stanzina con le travi: nevicava e la mia famiglia era lontana.  Dal letto vedevo la piccola finestra senza scuri bianca di neve. Al mattino l’avventura ebbe inizio. Era una famiglia diversa, una famiglia numerosa, vociferante e pratica: la conoscevo già, ma non la conoscevo sulla neve. Si andava a sciare. Si prendevano gli scarponi (vecchio stile) e gli sci a nolo, in paese. La cugina piccola, che poi aveva la mia età ma era più piccola e minuta, trovava le misure facilmente, la cugina mezzana, poco più grande di noi, trovava abbastanza, io no: sembra che la mia taglia scarseggiasse. Così gli sci erano quasi sempre un po’ troppo lunghi per me: avevo nove anni e mezzo ed era la prima volta che li mettevo. Ci fermavamo al noleggio quasi tutte le mattine, cioè quando andavamo a sciare ed eravamo un branco. Non riesco a ricordare la zia, non ricordo se veniva o se era in montagna, ma c’era lo zio e noi quattro ragazze e il fidanzato della cugina maggiore e almeno uno  dei fratelli di lui, e forse anche il cugino secondo e non so chi altro…
Andavamo in macchina e ci sceglievamo un posto tranquillo e adatto ai nostri esercizi di sci. Di impianti di risalita all’epoca in zona c’era poco e a noi non interessavano. Salivamo a piedi: eravamo in media sufficientemente giovani e leggeri da poterlo fare. Chi sapeva (qualcosa) insegnava i rudimenti a chi non sapeva niente (come me).  Lo zio era particolarmente prodigo di consigli. Quando vide che cercavo di risalire il pendìo di punta, semplicemente sforzandomi di andare avanti e invece scivolavo pateticamente all’indietro, mi insegnò a fare la scaletta. A salire a spina di pesce invece non mi riuscì di imparare. Ci buttavamo giù dai pendii con la spensieratezza, chi più, chi meno, della prima giovinezza fra cadute, rotolate e vere e proprie sciate. Era importante tenere il baricentro al posto giusto, il busto in un certo modo, le braccia in un altro, ma soprattutto era importante divertirsi e crederci. Credere nella nostra giovinezza, credere nella natura intorno a noi, nelle nostre capacità, nella vita e nella sua forza rigeneratrice. Mi piaceva moltissimo. Per quanto il mio stile fosse imperfetto e maldestro, per quanto non avessi preso nessuna lezione di sci, imparavo. Scoprivo l’ebbrezza di buttarmi da un pendìo sconosciuto, senza piste, senza tracce, impegnandomi per tenere l’equilibrio e resistere alla strana forza che mi tirava all’indietro.
Il paesaggio era completamente bianco e del verde estivo dei pascoli non restava niente. Un bianco assoluto, rotto dal verde degli abeti, dal bruno dei rami di cespugli e arbusti che emergevano dalla  neve come dal nulla, macchiato dai colori vivi dei nostri vestiti. I miei, giacca a vento e pantaloni, intendo, venivano dal guardaroba delle cugine: di veri guanti sentivo la mancanza perché soffrivo  per il dolore alle mani causato dal freddo e dal contatto con la neve, ma il guardaroba d’emergenza non era in grado di fornire altro. Il pomeriggio di solito stavamo in paese, solo qualche volta si tornava a sciare. Camminavamo per le strade ghiacciate, andavamo a casa dei vicini a chiacchierare e a giocare a carte, ci fermavamo nei negozi. Una volta io e la cugina piccola fummo sorprese da una splendida nevicata: neve bagnata, si diceva, e bagnate arrivammo a casa, fradice, con le nostre giacche a vento da poco. Lo zio appese la mia vicino al fuoco perché si asciugasse più in fretta e anni dopo mi disse che in quell’occasione aveva avuto paura che mi ammalassi: godevo allora fama di salute cagionevole non del tutto immeritata,  ma quella volta non successe nulla.
Ogni tanto andavamo nel paese più grosso, quello con i veri impianti sciistici, ed era una vera occasione mondana: c’erano le signore eleganti che facevano lo struscio e una serie di locali. A me  questo interessava poco: ero ancora troppo giovane. A volte andavamo da qualche altra parte a prendere la cioccolata calda: c’erano paesi da visitare e strade nuove da percorrere. Allo zio è sempre piaciuto guidare e ci portava in giro volentieri. Dove abitavamo la situazione era tranquilla. I gatti camminavano cautamente sulla superficie ghiacciata e le persone anche (per non scivolare). Ogni tanto, dove la neve era morbida, i gatti sprofondavano e le  persone anche sebbene con effetto meno eclatante. Si tenevano cataste di legna per alimentare le stufe e i camini destinati al riscaldamento: le provviste si facevano d’Estate. Il fumo usciva, grigio e bianco dai camini. Imparai a distinguere i vari tipi di neve, non era difficile: farinosa, ghiacciata, bagnata, il nevischio pesante che inzuppava… Così i giorni passavano, e, finita la vacanza, il ricordo cominciò ad allontanarsi: delle montagne innevate, per molti anni, mi restò solo quello, e quando le ritrovai non fu più la stessa cosa: forse perché legate al ricordo di un periodo di separazione e di dolore?
A Firenze la mota ingombrava ancora le strade anche se il grosso era stato spalato. I muri delle case, i soffitti là dove era arrivata l’onda di piena erano macchiati di nafta bruna. Ma ero stata fortunata: al mio ritorno a casa portavo dentro di me il ricordo del candore intatto delle nevi d’Appennino.
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